Sono stata assunta nel Servizio sanitario nazionale
(SSN) come medico ospedaliero nel 2006. In fondo, non poi così tanti anni fa.
Eppure, sembra passata un’era. Allora, era un traguardo vincere un concorso per
un posto a tempo indeterminato, nel pubblico. Lavorare in ospedale era quello
per cui avevamo studiato, e il posto fisso permetteva di pensare a far figli, a
chiedere un mutuo, dava sicurezza e stabilità. Entravi a far parte della grande
famiglia dell’ospedale che ti aveva assunto, con tutto l’amore e l’odio che c’è
nelle grandi e vivaci famiglie. Ma, come fan presto, amore, ad appassir le
rose. Così almeno è per noi: ora, il posto a tempo indeterminato interessa, ma
fino a un certo punto. Perché c’è l’alternativa dei medici a gettone.
Come una piaga d’Egitto, l’esternalizzazione dei
servizi medici ad agenzie di somministrazione lavoro, amichevolmente dette
cooperative, si è diffusa, partendo dai pronto soccorso ed è andata via via
espandendosi agli altri reparti, mortificando e desertificando i servizi. Il
peccato originale va ricercato in una errata programmazione del fabbisogno di specialisti:
per lavorare in ospedale non è sufficiente la laurea in medicina ma è
necessaria anche una specialità, e negli anni scorsi sono stati formati meno
specialisti del necessario. Così, i medici andavano in pensione e i concorsi
per trovare specialisti da assumere per sostituirli erano puntualmente deserti.
Soprattutto nelle specialità nuove e più usuranti, come la medicina d’
emergenza-urgenza. Ecco che per tenere aperti i servizi, oltre 10 anni fa,
iniziarono a spuntare i primi contratti di sub-appalto alle cooperative. Le
cooperative i medici riuscivano a trovarli, perché la remunerazione oraria era
(ed è) quasi il doppio di quella di un dipendente, perché i criteri di
selezione sono molto meno stringenti, perché spesso erano medici di altre
regioni o stranieri, che accumulavano una serie di turni ravvicinati dormendo
magari in albergo, per poi tornare a casa. Le cooperative siglavano appalti
prevalentemente negli ospedali meno appetibili della provincia, e
prevalentemente nei Pronto Soccorso.
Rispetto a 10 anni fa, ora decidono di lavorare a
gettone anche medici pensionati con esperienza, neolaureati e neospecialisti.
Proprio perché la remunerazione è alta e la flessibilità oraria pure. Per il
resto, la situazione negli anni è drammaticamente peggiorata: le cooperative
sono ovunque, anche in città come Torino. Tantissimi reparti ne fanno uso,
oltre al Pronto Soccorso: radiologia, rianimazione, pediatria, ortopedia,
neurologia, nefrologia ecc. Secondo la SIMEU, vi fa ricorso il 50% degli
ospedali in Piemonte, il 60% in Liguria, il 70% in Veneto. In Friuli-Venezia
Giulia e nelle Marche tutte le strutture sanitarie ricorrono ai medici a
gettone.
Ma scegliere di sub-appaltare i servizi ad agenzie di
somministrazione lavoro non è a costo zero. È una scelta che il sistema paga, e
caro. Perché rovina l’ambiente di lavoro: il senso di équipe e la possibilità
di formare un gruppo affiatato vengono meno con le prestazioni occasionali di
medici che oggi ci sono e domani non più. Perché i medici a gettone non conoscono
l’organizzazione della struttura, le procedure, il software di gestione delle
cartelle dei pazienti e l’azienda non ha alcun interesse a investire nella loro
formazione, essendo personale solo di passaggio. Perché gli ospedali delegano
la valutazione delle competenze dei medici alle cooperative stesse: mentre i
dipendenti devono avere la specialità e superare un concorso, ai medici delle
cooperative spesso è solo richiesto di essere iscritti all’Ordine. Infine,
perché demotiva il personale dipendente, che lavora gomito a gomito con
colleghi che guadagno il doppio e hanno contemporaneamente molta più autonomia
e flessibilità di orari.
La presenza delle cooperative, in aggiunta ai carichi
di lavoro insostenibili e alla scarsa valorizzazione delle professionalità,
porta al fenomeno delle grandi dimissioni: in Italia sette medici al giorno
abbandonano gli ospedali pubblici, con un incremento del fenomeno del 39% nel
2021 rispetto all’anno precedente. I medici si dimettono dal SSN e decidono di
aprire partita Iva, andare nel privato, sul territorio o nelle cooperative.
Appunto. E ciò crea un circolo vizioso perverso, per cui chi rimane avrà sempre
più lavoro e sempre più sarà necessario far ricorso alle esternalizzazioni per
coprire i turni.
Allora perché le aziende decidono di reclutare il
personale medico con questi contratti piuttosto che assumere? La motivazione
ufficiale è che non si hanno alternative, e senza i medici delle cooperative
alcuni servizi sanitari dovrebbero chiudere. In parte, è vero. Ma solo in
parte. Da un lato, ancora adesso non è facile trovare gli specialisti da
assumere, che aumenteranno in maniera rilevante solo tra 2-3 anni. La legge
finanziaria del 2010, però, ha fissato un tetto di spesa per il personale
sanitario, che non deve superare il livello della spesa del 2004 ridotto
dell’1,4%. Questo tetto è nettamente inferiore alle esigenze attuali, così si
procede con i contratti a prestazione, il cui costo cade su un capitolo di
spesa che si chiama «beni e servizi» e non su quello del «personale», che è
gravato appunto dal limite imposto per legge. Ma la vera, sincera risposta,
dall’altro lato, al perché le ASL si appoggino alle cooperative è che, di
fatto, la sanità non è una priorità. Né lo è stata nel recente passato. I governi
regionali e nazionali in questi anni hanno lasciato che le cose lentamente
peggiorassero, fregandosene, mentre i gruppi privati arrivavano come avvoltoi
su un banchetto ancora palpitante di vita. Le soluzioni c’erano e ci sono, ma
ignorale è più comodo, forse più conveniente. Il nostro grido di allarme di 10
anni fa, quando da subito denunciammo il pericolosissimo fenomeno delle
cooperative, fu colpevolmente ignorato. Allora, sarebbe stato necessario
formare nuovi specialisti che adesso sarebbero in numero sufficiente per
coprire tutte le carenze di organico. Invece, l’aumento, a livello nazionale
avvenne in misura modesta nel 2019 (da 6.200 a 8.000) e considerevolmente solo
dal 2020 (da 13.400 fino a 17.400 nel 2021).
Ma nell’immediato, oltre a formare nuovi medici,
qualcosa si potrebbe fare per arginare il fenomeno delle esternalizzazioni. Per
esempio, il tetto di spesa al personale andrebbe tolto, subito. Infatti, anche
dove gli specialisti ci sono, le ASL sono frenante dall’assumere da questo
limite di spesa. Poi, le remunerazioni dei dipendenti dovrebbero essere
competitive con quelle dei medici delle cooperative, in modo che il lavoro nel
pubblico sia attrattivo. Sarebbe necessario, in questa fase critica, poter
contare sull’aiuto degli specializzandi anche nei reparti ospedalieri: non è un
caso che le aziende universitarie debbano esternalizzare i servizi in misura
nettamente inferiore. Infine, sarebbe indispensabile la revisione della rete
ospedaliera, riorganizzando i servizi e riconvertendo gli ospedali che non
garantiscono la qualità e la sicurezza delle cure perché troppo piccoli.
Quando le cooperative entrano in un ospedale, è
l’inizio della fine. Ma nessuno sembra esserne realmente consapevole. Sarebbe
necessario fotografare i rientri in Pronto Soccorso dei pazienti appena
dimessi, i tempi di degenza, l’appropriatezza nell’esecuzione degli esami
diagnostici e nella prescrizione delle cure. E quanti medici, nell’arco di poco
tempo dopo questa scelta, decidono di chiedere trasferimento o di licenziarsi.
Sarebbe necessario, in sintesi, avere a cuore il destino del servizio sanitario
nazionale pubblico e considerarlo un bene comune prezioso, da difendere e in
cui investire. Ma non sembra che sia così.
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