Chi vuole colonizzare anche le mummie del Museo Egizio? - Tomaso Montanari
Nella sesta
tesi sul concetto di storia (1942), Walter Benjamin scrive che «neppure i morti
saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di
vincere». Neppure le mummie del Museo Egizio di Torino sembrano al sicuro dalla
vittoria di questa estrema destra di matrice fascista, che si salda con la precedente
vittoria di una destra economica che ha smontato lo Stato stesso, imponendo il
pensiero unico della privatizzazione. Si legge tutto questo, a ben guardare,
nella violenta campagna contro il direttore dell’Egizio Christian Greco.
Il gene di
Neanderthal non spiega (forse) solo la mortalità lombarda da Covid, ma anche il
livello cavernicolo dei leghisti e dei fratellitalioti che odiano un direttore
che prova (con successo) a decolonizzare un museo che nacque sottraendo
all’Egitto, e a tutto il continente africano, un patrimonio capitale. Le
aperture del museo alla comunità egiziana piemontese, e più in generale a
quella arabofona in Italia, sono passi preziosi di un percorso che dovrebbe
portare i musei italiani ad aprirsi «a tutti», come la Costituzione dice della
scuola. Il terrore dei fascio-cavernicoli è evidente: in quelle sale si
comincia a intravedere che una società multiculturale è non solo possibile, ma
perfino più bella, umana, ricca e aperta al futuro di una asfittica e astratta
celebrazione dell’identità italiana usata come una clava (per di più usata da
un personale politico che ha serie difficoltà perfino con la lingua italiana).
Si capisce che Greco non sia il tipo ideale di direttore, per questa destra
orribile: che a Firenze medita di candidare a sindaco il direttore degli Uffizi
Eike Schmidt, appena sorpreso a mettere in cattedra un terrorista nero
(affidandogli una conferenza su Caravaggio, la legge e l’onore…).
Difendendo
Greco, molti osservatori democratici hanno aggiunto che le pretese della destra
sarebbero anche inattuabili perché l’Egizio è un ente di diritto privato. Ma
questo non è vero: e anzi qua vengono alla luce gli effetti della vittoria
dell’altra destra, quella neoliberista.
Alle 11.30
del 6 ottobre 2004 il Museo Egizio di Torino fu «il primo grande museo italiano
a diventare Fondazione: una scelta – esultò il ministro Giuliano Urbani,
Governo Berlusconi II – che renderà possibile una gestione più efficiente e
moderna». La Fondazione a cui è stato conferito quell’inestimabile patrimonio
pubblico per la durata di trent’anni è composta da Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Città di Torino,
Compagnia di San Paolo e Fondazione Cassa di Risparmio di Torino. Il primo
consiglio di amministrazione assunse il direttore del museo senza nemmeno
consultare il Comitato Scientifico, composto da egittologi illustri. Ma ciò che
rese subito ben chiaro cosa significasse il passaggio da museo dello Stato a
museo di una fondazione di diritto privato fu il nome del presidente, che non
fu quello di un serio egittologo ignoto al grande pubblico (benché il
regolamento di Urbani sancisse che egli avrebbe presieduto anche il comitato
scientifico), bensì quello di un membro della famiglia Agnelli, e padre
dell’allora vicepresidente della Fiat: lo stazzonato Alain Elkann, poi divenuto
famoso come nemico mortale dei nuovi lanzichenecchi. Finito, nel 2012, il
memorabile mandato di quest’ultimo, il posto è toccato ad Evelina Christillin.
Naturalmente la scelta cadde su un’altra componente dell’oligarchia torinese
(in una regressione dei musei pubblici verso l’antico regime), ma bisogna
riconoscere che Christillin ha guidato la fondazione con saggezza, riuscendo ad
assicurarle un direttore di prim’ordine come Greco: sotto la loro guida
l’Egizio è tornato a svolgere, e assai bene, un servizio pubblico intellettuale
(per usare un’espressione di Antonio Gramsci). Basta questo breve sunto della
storia recente del museo per far capire quale sia il problema: tutto dipende
dalla personalità del presidente, e dalle decisioni del consiglio
d’amministrazione. Se MiC e Regione Piemonte volessero cacciare il direttore,
anche contro il parere del Comune, con chi si schiererebbero i rappresentanti
in consiglio di amministrazione delle fondazioni bancarie? È davvero difficile
immaginare una ferma opposizione di queste ultime al potere esecutivo, e dunque
alla fine sarà comunque la politica a decidere se fermarsi o se andare fino in
fondo. E non basta. La riforma dei musei di Dario Franceschini (celebrata quasi
da tutti coloro che oggi giustamente insorgono a favore di Greco) ha preso a
modello proprio la fondazione dell’Egizio: affidando anche agli enti locali i
consigli di amministrazione e i consigli scientifici dei grandi musei
nazionali, e mettendo saldamente nelle mani del ministro stesso la nomina dei
direttori dei musei di fascia A, scelti da una terna preparata da una
commissione in cui il ministro ha sempre avuto suoi autorevoli emissari. In
questo modo, si è passati dal concorso pubblico (garanzia di oggettività, e di
indipendenza) a una soggezione diretta dei musei al potere politico, con esiti
clamorosamente grotteschi, come per esempio la trasformazione di Pompei in una
specie di sala stampa del governo Renzi, e oggi di quello Meloni.
È dunque
giusto, e necessario, difendere oggi Greco e il Museo Egizio, e lottare perché
i nipotini del duce si accontentino della mummia di Predappio: ma se vogliamo
essere credibili, e onesti, dobbiamo anche denunciare i disastri della
(non)sinistra che ha privatizzato il patrimonio, e lo ha usato come strumento
di propaganda.
Lo sconto agli arabi
un giusto risarcimento, per secoli abbiamo sottratto beni culturali - Luciano Canfora
Caro Direttore,
ho seguito su vari quotidiani e
innanzitutto sulla torinese «Stampa» le aggressioni rivolte al direttore del
Museo egizio. Brutto segno di decadenza intellettuale e civile nel nostro non
felicissimo presente.
Non tocca a me ripetere l’ovvio,
che cioè Christian Greco è tra i migliori egittologi su scala planetaria. Mi
sembra invece opportuno soggiungere una considerazione che immagino
contribuisca a dissipare equivoci che si stanno accumulando su questa vicenda.
Non mi permetto di interpretare il pensiero del direttore dell’Egizio, sembra
però a me molto elegante l’iniziativa che gli viene invece rimproverata: basti
pensare che tanti tesori dei nostri musei di antichità provengono da paesi cui
quei tesori sono stati sottratti. Faccio un esempio celebre: l’ambasciatore
britannico presso l’impero ottomano, Lord Elgin, poté sottrarre a man bassa i
marmi del Partenone incoraggiato a ciò dal sultano, perché l’Inghilterra
cinicamente aveva aiutato l’impero ottomano contro Bonaparte, generale allora
della Repubblica francese, il cui disegno era di sottrarre la Grecia al dominio
turco. La liberale e civile Inghilterra preferì impedire questo disegno
liberatorio, ricevendo in cambio un bel bottino di beni culturali da esporre
nei propri musei. Queste storie non andrebbero mai dimenticate. Nel caso
dell’Egitto il prelievo disinvolto di tantissimi beni culturali è durato
secoli. Ristabilire un rapporto civile e cordiale è una forma elegante di
«risarcimento».
So benissimo quante repliche
nevrotiche susciteranno queste mie righe e tuttavia Gliele invio serenamente.
Spero davvero che Torino non perda
Christian Greco.
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