Quando l’Egitto ha
presentato il suo primo documento ufficiale per una politica
nazionale dei diritti umani, lo ha fatto con enfasi. Era
il 12 settembre 2021 e il presidente Abdel Fattah al-Sisi celebrava
con orgoglio un “momento luminoso nella storia contemporanea
dell’Egitto, che considero un passo serio verso il progresso dei diritti umani…
tenendo conto dell’importanza di questo campo vitale nella valutazione
dell’avanzamento e del progresso delle società”.
Un anno più tardi, a novembre 2022, la nazione ha
ospitato la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici,
conosciuta anche come COP 27, vetrina internazionale rilevante per le tematiche
e per il prestigio istituzionale. Un’occasione imperdibile per lo Stato
egiziano, nella quale elevare la propria immagine a nazione moderna e
affidabile, non più macchiata da opacità e inerzia nel campo dei diritti umani,
civili, sociali.
Tuttavia, proprio alla vigilia di quell’evento, erano
emerse voci molto critiche sulla reale condizione di libertà e democrazia nel
Paese. Tra tutte spiccava la denuncia di Amnesty International nel dossier “Disconnetted from reality“ con questo
appello:
Le autorità egiziane hanno dato vita alla Sndu [Strategia nazionale sui diritti umani] per
celare l’incessante violazione dei diritti umani, pensando di poter prendere in
giro il mondo in vista della Cop 27. Ma la cruda realtà della grave
situazione dei diritti umani non può essere ridisegnata con un’azione di
marketing.
A settembre 2023 sono già due gli anni di
implementazione della Strategia nazionale sui diritti umani (Sndu) e il bilancio continua a essere preoccupante.
Solo per fare qualche esempio più recente, il 14 agosto scorso si è ricordato
il massacro di Rabaa, risalente al 2013 e che ha quindi sancito quest’anno
il “decennio
della vergogna“, come sottolineato da Philip Luther, direttore delle ricerche e della
difesa di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.
Il 14 agosto 2013 i militari egiziani dispersero
violentemente i sit-in dei sostenitori dell’organizzazione I Fratelli Musulmani
e del deposto presidente Mohamed Morsi nelle piazze Rabaa al-Adawiya e al-Nahda
del Cairo. In quel
tragico giorno, secondo
testimoni ed enti per i diritti umani, le forze di sicurezza
utilizzarono veicoli blindati e bulldozer, oltre a truppe di terra e
cecchini sui tetti con munizioni vere, per attaccare la piazza delle
proteste da tutti i lati e chiudere le uscite sicure.
Questo è uno scorcio di quanto accaduto il 14 agosto
2013 nella violenta repressione di piazza in Egitto, che di fatto ha sancito la
presa di potere di al-Sisi. Foto da video di Al-Jazeera
Il bilancio racconta di 817 persone morte durante la sola dispersione di Rabaa, con un totale
di almeno 1.000 vittime. L’evento è entrato nella memoria degli
egiziani come un massacro, una delle pagine più buie della storia nazionale.
Tuttavia, nessun funzionario o entità è stato ritenuto
responsabile e al centro della piazza Rabaa è stato addirittura
eretto un monumento per onorare la polizia e l’esercito.
Il fatto è emblematico per smascherare la propaganda
dei diritti umani di al-Sisi.
“Il massacro di Rabaa ha
rappresentato un punto di svolta a seguito del quale le autorità
egiziane hanno perseguito incessantemente una politica di tolleranza zero nei
confronti del dissenso. Da allora, innumerevoli critici e oppositori sono
stati uccisi durante le proteste di piazza, lasciati a languire dietro le
sbarre o costretti all’esilio”, ha dichiarato nell’anniversario 2023
Philip Luther.
Reporter Senza Frontiere descrive senza mezzi termini l’Egitto come “una delle più grandi prigioni del mondo per giornalisti”,
classificando il Paese al 166° posto su 180 Paesi. A questo si aggiunge Freedom House, che lo ha classificato come “non libero”, mostrando come il rating di libertà
della nazione, già scarso, si sia lentamente eroso negli ultimi cinque anni,
passando da 26 su 100 nel 2018, a 18 su 100 quest’anno.
Solo nel 2022, le forze di sicurezza hanno arrestato arbitrariamente almeno 11 giornalisti per il loro
lavoro o per le loro opinioni critiche. Almeno 26 giornalisti
sono rimasti detenuti arbitrariamente in seguito a condanne o indagini pendenti
con accuse di “diffusione di notizie false”, “uso improprio dei social
media” e/o “terrorismo”.
Radicata, inoltre, è la pratica dei divieti di viaggio arbitrari nei confronti di
difensori dei diritti umani, membri della società civile, oppositori
politici. Una delle vittime è Ahmed
Samir Santawy, un ricercatore e studente di antropologia presso l’Università dell’Europa
Centrale di Vienna, impegnato in approfondimenti sui diritti delle donne.
Il suo arresto in Egitto è avvenuto il 1° febbraio
2021, con successiva condanna a quattro anni di reclusione per la diffusione di
“notizie false”. Nello specifico, a lui è stata contestata la pubblicazione di
post sui social media che criticavano le violazioni dei diritti umani in Egitto
e la gestione della pandemia da parte del Governo. Questa la prova della sua
colpa. Rilasciato nel 2022, a giugno 2023 gli è stato
vietato di lasciare la nazione.
L’elenco di soprusi dei funzionari statali e dei
militari su liberi cittadini sarebbe ancora lunga e offusca anche il lancio
– celebrato da al-Sisi come espressione di democrazia – del “dialogo
nazionale”, strategia
voluta dal Presidente per riconciliarsi con le opposizioni (che contano molti
prigionieri politici ancora in carcere) che si sta rilevando – anch’essa – una
farsa.
Non è sfuggito, per esempio, che in
quella stessa settimana di inizio delle sessioni del dialogo, avvenuto
il 3 maggio 2023, la polizia abbia arrestato 16 parenti e
sostenitori di Ahmed al-Tantawi, dopo che l’ex parlamentare
dell’opposizione aveva annunciato che si sarebbe candidato alle elezioni
presidenziali del prossimo anno.
Dinanzi a questi fatti, il castello di carta della
politica dei diritti umani crolla. Ci si chiede, infatti, cosa significhi
davvero quanto si legge nelle intenzioni della Sndu proclamate
due anni fa:
… lo Stato egiziano assicura inoltre il proprio
impegno a rispettare e tutelare il diritto all’integrità fisica,
alla libertà personale, alla pratica politica, alla libertà di espressione e
di formazione di associazioni civili, nonché il diritto al contenzioso. L’Egitto accoglie sempre con favore la pluralità dei punti di
vista, anche le loro differenze, purché tengano conto delle libertà
degli altri.
A volte, la propaganda di Stato si avvale di strumenti
ancora più arguti e non mancano finte
organizzazioni per i diritti umani. Lo ha scoperto, con
un’inchiesta, la
giornalista Antonella Napoli che ha svelato l’opacità dell’associazione
egiziana Matt nel 2021. Il presidente dell’organizzazione, nata con lo scopo di
difendere i diritti, intervistato, ha offerto la propria concezione:
“I diritti umani sono quelli economici, sociali,
politici e civili… l’impegno del Paese ad avere l’acqua potabile è un diritto
umano”, escludendo di fatto la libertà di parola o la detenzione dei
prigionieri politici, relegate piuttosto a questioni di sicurezza
nazionale.
Dinanzi al palese inganno delle politiche nazionali di
difesa dei diritti umani, gli attori internazionali spesso mostrano
un’attenzione anch’essa di facciata. Ad
agosto, per esempio,
un gruppo di membri democratici della Camera dei rappresentanti americana ha esortato l’amministrazione del presidente Joe Biden a
trattenere alcuni aiuti militari all’Egitto per l’emergenza diritti umani.
Secondo la legge statunitense, una parte dei soldi destinati all’assistenza
militare all’Egitto è soggetta ogni anno alla certificazione secondo standard
relativi al rispetto dei diritti.
Washington, però, vede il Cairo come un importante
partner strategico in una
regione complessa e ha affermato più volte che è impegnata a sostenere le sue
legittime esigenze di difesa. Non è un caso che, anche nella migliore delle
ipotesi, il blocco degli aiuti sarebbe limitato a 300 milioni su
più di un miliardo di dollari garantiti.
Allo stesso modo, in seguito al massacro di Rabaa, l’Unione Europea ha
deciso di
sospendere le esportazioni di armi e beni che potevano essere utilizzati per la
repressione interna.
Tuttavia, più di una dozzina di Paesi, tra cui
Bulgaria, Cipro, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Romania e
Spagna, hanno violato questa sospensione e hanno
continuato a spedire attrezzature militari in Egitto. Tra questi c’è l’Italia, che
ha dimostrato così di fare molto poco per ottenere la verità su Giulio Regeni
(ferita che resta aperta, mentre la grazia concessa a Patrick Zaki ha chiuso
un’altra drammatica vicenda). Voci Globali ne ha parlato in questo
articolo.
L’Egitto non è un caso isolato e ultimamente i Paesi del Golfo si stanno facendo notare proprio
per la duplice strategia di attivismo politico in ambito internazionale e
riforme interne all’insegna dello sviluppo, del progresso e dell’emancipazione
democratica.
Nel mirino degli osservatori in questi mesi ci sono
gli Emirati Arabi Uniti per la vetrina della Conferenza Onu sui
cambiamenti climatici, la Cop 28, che si terrà a novembre prossimo a Dubai.
Nel presentare l’approccio che la presidenza del Paese
del Golfo vuole dare all’evento, sul sito ufficiale si legge che tra le parole chiave
c’è l’inclusività. Si enfatizza anche che, per la prima
volta in una Cop, si darà importanza ai temi cruciali della salute delle
persone e della pace per le comunità sotto attacco a causa dei cambiamenti
climatici, con sessioni dedicate.
Solo
pochi mesi fa, a maggio,
Shamma Al Mazrui, ministro dello Sviluppo Comunitario degli Emirati, aveva
dichiarato ai rappresentanti delle Nazioni Unite i passi significativi compiuti dagli Emirati Arabi Uniti per
proteggere i diritti umani. Tra questi, l’introduzione di una
legislazione chiave per garantire la parità di retribuzione tra i sessi,
aumentare la protezione dalla violenza domestica, rafforzare i diritti dei
lavoratori, combattere la tratta di esseri umani.
Intanto, però, si è già messa in moto una
mobilitazione internazionale per mettere in guardia sulla reale situazione dei
diritti nel Paese. Più di 50 organizzazioni e associazioni a livello
mondiale hanno scritto
un comunicato congiunto nel quale accusano gli Emirati Arabi Uniti di:
… continuo attacco ai diritti umani e
alle libertà, prendendo di mira gli attivisti per i diritti umani,
promulgando leggi repressive e utilizzando il sistema di giustizia penale come
strumento per eliminare il movimento per i diritti umani. Queste politiche
hanno portato alla chiusura dello spazio civico, a severe restrizioni alla
libertà di espressione, sia online che offline, e alla criminalizzazione del
dissenso pacifico.
Poche settimane fa, inoltre, è stato pubblicato
un report da parte di FairSquare, The Emirates Detainees Advocacy
Centre e ALQST for Human Rights nel
quale si vuole proprio sfidare la campagna di pubbliche relazioni degli Emirati
Arabi Uniti in vista della Cop 28 che inizierà il 30 novembre alle l’Expo City
di Dubai.
“Non c’è letteralmente nessuno negli Emirati
Arabi Uniti che possa parlare liberamente per criticare la politica statale sul
petrolio o sul cambiamento climatico. Chiunque tentasse di farlo si
ritroverebbe rapidamente messo a tacere o imprigionato”, ha affermato Hamad al-Shamsi”,
direttore esecutivo di The Emirates Detainees Advocacy
Centre.
Lavoratori immigrati negli Emirati Arabi Uniti: come
in diversi Paesi del Golfo, anche qui vige il sistema della Kafala, in base
alla quale i lavoratori stranieri sono di fatto tenuti ostaggio dei loro datori
di lavoro. Foto in CC da Wikimedia Commons
Ai più attenti osservatori non sfugge nemmeno la propaganda farsa portata avanti da Erdoğan sul tema dei diritti.
La Turchia si è dotata di un “nuovo e rivoluzionario Piano
d’azione per i diritti umani” nel marzo 2021, con lo scopo
soprattutto di rafforzare le libertà di espressione e di organizzazione e il
diritto a un giusto processo. L’Action
plan on human rights si compone di 9 ambiziosi obiettivi, tra i quali l’impegno a garantire la protezione delle minoranze, la
libera attività religiosa, politica, associativa dei cittadini, l’accesso a
processi equi.
Mentre il presidente turco, forte della sua rielezione
nel 2023, si rende protagonista della diplomazia mondiale (l’ultimo atto è
stato l’incontro
con Putin per
cercare di sbloccare la crisi del grano), pochi sono i segnali di coerenza con
il piano nazionale sui diritti umani.
Basterà citare come esempio l’incipit dell’ultimo
report di Human Rights Watch:
Il governo autoritario del presidente Recep Tayyip
Erdoğan ha
preso regolarmente di mira i presunti critici del Governo e gli oppositori
politici ed ha esercitato un forte controllo sui media e
sulla magistratura nel lungo periodo che precede le elezioni parlamentari
e presidenziali…
L’Arabia Saudita è
un altro esempio di come rinnovare la propria immagine di nazione costruendo
opache e limitate occasioni di emancipazione nei diritti. Sotto la “faraonica”
strategia intotolata Vision 2030, il Regno si è dotato di una road
map ricca di riforme economiche e sociali che comprende misure volte ad aumentare i diritti delle donne e la partecipazione alla società.
Tuttavia, il Governo resta contrario a
qualsiasi critica o dissenso. Se è vero che una serie di riforme
degli ultimi anni consentono alle donne di avere mansioni in diversi ambiti
lavorativi, affrancarsi dalla tutela maschile in certi ambiti, guidare, stare
in pubblico senza l’obbligo di indossare l’hijab, trasmettere la cittadinanza
saudita ai figli se il marito è straniero, altrettanto provata è la repressione
del dissenso e delle attività svolte nel Paese a favore dei diritti, anche
dalle donne.
Nel bilancio
2022 del
Paese, stilato da HRW, si sono sommati arresti di dissidenti pacifici,
intellettuali pubblici e attivisti per i diritti umani, condanne di persone a
pene detentive decennali per aver pubblicato sui social media, pratiche abusive nei centri di detenzione, tra cui la
tortura e i maltrattamenti, detenzione arbitraria prolungata e la confisca dei
beni senza alcun chiaro procedimento legale.
Il 12 marzo, le autorità saudite hanno
giustiziato 81 uomini, la più grande esecuzione di massa degli ultimi decenni,
nonostante le recenti promesse di ridurre l’uso della pena di morte. Il 10
luglio 2023, la Corte penale specializzata, il tribunale antiterrorismo
dell’Arabia Saudita, ha
condannato a morte Muhammad al-Ghamdi, 54 anni, un insegnante saudita in pensione,
per diversi reati legati esclusivamente alla sua attività di pubblicazione di
post online.
Joey Shea, ricercatore dell’Arabia Saudita
presso Human Rights Watch ha
offerto una sintesi lucida sulla realtà dei diritti nel Regno: “È difficile capire come gli impegni della leadership
saudita a diventare una società più rispettosa dei diritti possano
avere significato quando un semplice tweet critico può portare a una condanna a
morte”.
Con queste premesse, i Paesi del Golfo e non solo si
candidano a diventare i protagonisti della politica e dell’economia
internazionale, ora più che mai visto il bisogno di materie prime e di alleanze
strategiche anti-Cina dei Paesi occidentali. L’emancipazione reale dei diritti
umani, ancora una volta, può attendere. O restare relegata a politiche
nazionali deboli e molto propagandistiche.
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