lunedì 25 settembre 2023

Africa e nuvole

 

articoli di Eusebio Filopatro, Alberto Bradanini, Antonella Sinopoli, Alessandro Avvisato, Paolo Arigotti, Franz Himmelbauer, Diego  Ruzzarin, Jean-Luc Mélenchon, Jesús López Almejo, Salvatore Turi Palidda, Jonathan Cook, Alessia C. F. (ALKA), Andrea Mencarelli, Giacomo Marchetti


Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa – Il tramonto dell’Occidente – Eusebio Filopatro

Di seguito la terza parte dell’approfondimento sul Niger da parte di Eusebio Filopatro. E’ altamente consigliata la lettura dei precedenti articoli dove viene contestualizzato il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni. In questa terza e ultima parte si analizza, invece, il tramonto dell’Occidente. 

 

PRIMA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione

SECONDA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione

 

Parte terza: Il tramonto dell’Occidente

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt

Precedentemente, ho richiamato i motivi del colpo di stato nigerino ricordando alcuni degli elementi più eclatanti dello sfruttamento neocoloniale. Ho poi spiegato le magre prospettive di un ipotetico assalto dell’ECOWAS e le capacità e potenzialità del governo golpista, soprattutto alla luce del contesto regionale e mondiale. Mi pare che le settimane intercorse dall’inizio della stesura non abbiano rovesciato la mia ricostruzione, anzi l’ambiguo colpo di stato in Gabon e l’inconsequenzialità delle minacce roboanti della Francia e dei suoi vassalli sembrano per ora confermarla.

In questo terzo contributo mi propongo un obiettivo affatto diverso, certamente più difficile, e più ambizioso: intendo avanzare delle considerazioni generali sul fato del neocolonialismo europeo. Si tratta evidentemente di un obiettivo molto più elusivo di una mera elencazione dei rapporti di forze nel contesto del Niger, e le tesi che esporrò sono corrispondentemente più generali ed aperte.

Nel mondo nel quale siamo nati, lo strapotere dell’occidente è un fatto. Vi sono innumerevoli sintomi: il più eclatante, tanto più in questi giorni, è il continuo apparire di masse di disperati ed avventurieri disposte ad affrontare traversate disumane nel miraggio del magro privilegio del suolo europeo. Alla lunga dominanza economica e politica di un ristretto consesso di potenze occidentali corrisponde un’esaltazione ideologica dei loro “valori”, così che quelle occidentali sarebbero le società di volta in volta più libere, uguali, pacifiche, tecnologicamente avanzate, solidali, efficienti, le meno corrotte ecc.

Ora, precisare i fatti riguardo alla reale influenza dell’occidente su scala mondiale richiederebbe una ricostruzione storica e geoeconomica impossibile qui e forse anche altrove, mentre per analizzare come le varie ideologie della superiorità occidentale contribuiscano alla prima e ne vengano reciprocamente rafforzate ci vorrebbe un’intera sociologia della conoscenza applicata allo scenario globale. Invece, più limitatamente, urge dire questo. In primo luogo, i fattori che hanno per secoli sostenuto il potere dell’occidente stanno da tempo venendo meno: progressivamente, nei decenni e nei secoli, e precipitosamente negli anni recenti. In secondo luogo, e conseguentemente, la fantasia dell’eccezionalismo occidentale, scollandosi progressivamente dalla realtà, sta involvendo sempre più da fattore motivante a paranoia disfunzionale, al punto da diventare un significativo fattore precipitante della stessa decadenza.

Che cosa spieghi le disparità di potere che traspaiono dalla storia mondiale è questione annosa e con buona probabilità irresolubile. Giusto per limitarsi ad anni recenti, Jared Diamond ha proposto un’interessante tesi fondata sul “determinismo geografico” che però include fattori tecnici e ideologici che sono reciprocamente legati.
Diciamo che il colonialismo europeo presuppone quantomeno due elementi.

Un primo fattore è dato dall’ipertrofismo demografico delle regioni “occidentali” del mondo. Nonostante l’Europa ricopra solo il 2% della superficie del globo (6.8% se si considerano solo le terre emerse), la sua popolazione (300 milioni) rappresentava poco meno di un quinto di quella mondiale (1,6 miliardi) nel 1900 (vale la pena di notare che la popolazione delle americhe, in parte già discendente dei coloni europei, era allora di altri 130 milioni, e che altri coloni vivevano sparsi per il mondo). Per un termine di paragone, l’Africa, tre volte più estesa dell’Europa (6% della superficie globale, 20% delle terre emerse) contava allora 140 milioni di abitanti: meno della metà del Vecchio Continente.

Un secondo fattore è dato dallo sviluppo tecnologico. Quale che sia il motivo – le teorie razziste non meritano evidentemente alcuna considerazione, anche perché i popoli protagonisti hanno spesso origini asiatiche o africane, o sono state culturalmente fertilizzati da continui contatti esterni  – a partire dal genio greco attraverso Roma, poi soprattutto col Rinascimento e la Rivoluzione scientifica che pose le premesse per quelle industriali, le capacità tecniche e scientifiche dell’Occidente sono state in diversi momenti e per secoli all’avanguardia del mondo.

Ho parlato di due elementi perché l’aspetto demografico e tecnico è relativamente misurabile e obiettivo. Sarebbe probabilmente opportuno ampliare e complicare il discorso facendo riferimento a un terzo importante fattore, quello ideologico, che Diamond tratta, ad esempio, quando analizza i successi militari dei conquistadores. Per Diamond, l’esistenza di una religione unitaria e di pratiche di interiorizzazione – preghiera di precetto ec. – era necessaria per il coordinamento dei sudditi e perché i soldati si sacrificassero – nelle crociate, nella reconquista, ma anche nel jihad – aspettandosi di ricevere un compenso eterno. Si potrebbe ipotizzare che l’arricchimento personale – nelle guerre imperiali – o i valori repubblicani – nelle guerre difensive – svolgessero un’analoga funzione motivante negli imperi del mondo antico: l’ateniese, il romano ec. In un certo senso, gli imperi dell’Europa moderna, con la loro sintesi di cristianesimo e di ideali di libertà ed eguaglianza, quando non proprio di democrazia, riprendevano e rilanciavano queste stesse ideologie unendole alla grande invenzione romantica, l’idea di nazione. Il primo esercito di massa formato in occidente dai tempi di Roma – l’esercito francese rivoluzionario, come poi la Grande Armée – ricapitolava in sé alcuni di questi elementi, e non casualmente riuscì a riunificare, sia pure brevemente, un’area paragonabile a quella dell’antico impero romano.

Ripeto, si tratta di questioni storicamente troppo profonde e complesse per darne una presentazione minimamente soddisfacente, ma anche così schematicamente presentate invitano una domanda: può il neoliberismo occidentale, con tutte le sue ineguaglianze e i suoi scontenti – come li definiva Joseph Stiglitz in un libro influente – se non proprio i suoi “vinti” – come li chiamava Marcello Veneziani, può questa ideologia leggera ed evanescente, con i sui correlati di iperpluralismo sociologico ed estrema polarizzazione ideologica, può questo fantasma tanto sfuggente da risultare difficile persino da definire od enunciare motivare qualcuno a sacrificare la vita in una guerra di conquista (o persino di difesa)? Sarà forse (anche) per questo che le guerre imperiali più recenti sono combattute quasi tutte per procura, mobilitando carne da cannone che non appartiene, perlomeno non integralmente, all’Occidente liberale? Mi pongo questa domanda leggendo Edward Luttwak che sul Wall Street Journal invita la Polonia ad addestrare più soldati anziché richiedere armamenti sofisticati.

Tralasciamo però l’ideologia e ritorniamo ai fattori obiettivamente misurabili. Quali che siano i motivi, è fin troppo evidente che lo straripamento demografico occidentale è non solo arrestato, ma invertito. La popolazione africana supera ormai quella europea di più di mezzo miliardo di abitanti. Secondo le proiezioni, entro pochi anni e decenni il Continente Nero ospiterà il doppio e poi il triplo degli abitanti del Vecchio Continente. Del resto, ad oggi, l’Europa è “vecchia” anche letteralmente, con un 19% di abitanti ultrasessantenni. Seguono Nord America (17%) e Oceania (13%), mentre in Asia e Sud America solo il 9% ha più di 60 anni e addirittura in Africa si scende al 4%. Ovviamente ciò dipende in buona parte dall’aspettativa di vita, ma questo non mitiga i problemi e ridimensionamenti radicali che ne seguiranno.

Non è altrettanto evidente che l’occidente stia perdendo il suo primato anche sul piano tecnico-scientifico, ma ci sono quantomeno buone ragioni per dubitarne. Recentemente, Giulio Tremonti ha parlato in proposito di una “sfida che i BRICS non possono vincere”, argomentando sostanzialmente che “non c’è scienza laddove non c’è libertà”. In realtà, i metodi della scienza sperimentale non sono affatto appannaggio esclusivo delle cosiddette “democrazie”, anche se l’assunto per cui l’occidente deterrebbe il monopolio della democrazia stessa meriterebbe un altro lungo excursus critico. Concentrandosi sul solo sviluppo scientifico, già lo stesso Tremonti si è visto costretto a introdurre nel suo discorso importanti concessioni, ad esempio ammettendo che in India c’è “un certo grado” di libertà. Un’ironia di portata storica ha voluto che la tesi di Tremonti fosse enunciata nello stesso giorno in cui la missione indiana Chandrayaan-3 atterrava sulla luna. Sembra naturale pensare che le stesse qualifiche sul “certo grado di libertà” valgano almeno per Brasile e Sud Africa. Quanto a Cina e Russia, vale la pena notare che la prima sta combattendo una battaglia aperta per la propria autosufficienza tecnologica e che diploma ogni hanno 8 volte più laureati STEM (cioè in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) degli Stati Uniti, mentre la Russia dispone tuttora di alcune armi la cui tecnologia è fuori portata per gli occidentali (per dirne una, gli USA hanno ripetutamente fallito il lancio di missili ipersonici).
Al venir meno di due fattori portanti del predominio occidentale – quello demografico e quello tecnico-scientifico – ed ai cenni che ho introdotto sulla frammentazione ideologica dell’occidente, aggiungerei altre considerazioni generali, di tipo economico e politico-sociale.

A livello economico, è noto che il colonialismo implica una subordinazione dei paesi sottomessi ai dominatori. Nei suoi esempi classici, si tratta di una pura estrazione di risorse, come nel caso del cotone dall’India alla Gran Bretagna, o dell’uranio dal Niger alla Francia. Tuttavia, negli ultimi decenni il neocolonialismo occidentale si è spinto oltre. In un impeto di hubris, i paesi più avanzati hanno smantellato il proprio impianto agricolo e industriale per volgersi senza voltarsi indietro alla finanziarizzazione dell’economia ed alla tecnologia virtuale, oltre ai più tradizionali servizi. Per questo la Cina è ora chiamata “la manifatturiera del mondo” (the world’s factory), e da quando la sua crescita è stata percepita come una minaccia si cerca di riprodurre lo stesso modello con l’India (senza troppo preoccuparsi di un esito potenzialmente identico). Quanti abbracciano questi “progressi” farebbero bene a studiare la dialettica servo-padrone di Hegel. È infatti il “servo” che detiene il vero potere in quanto il “padrone” si rende vulnerabile. La pandemia è stata una spettacolare rivelazione di questa dinamica, laddove ci si è scoperti dipendenti non solo per materie prime e dispositivi medici ma anche per semilavorati e manodopera, ed ora con la guerra “scopriamo” la dipendenza energetica ed il costo dei fertilizzanti e del grano.

Come spesso accade, a questa trasformazione economica corrisponde una trasformazione ideologica, per cui la scomparsa o quantomeno la frammentazione della classe lavoratrice e operaia, come anche la sua svalutazione nelle gerarchie del prestigio e del riconoscimento sociale, hanno trasformato l’immaginario e il pensiero collettivi dell’Occidente. Questioni vitali e molto materiali come mobilità ed argini sono pertanto distorte nelle narrazioni semireligiose dell’apocalisse climatica, che hanno peraltro il vantaggio di assolvere da ogni responsabilità e di celare la fragilità concreta del sistema.

C’è poi un ultimo fattore che è difficile descrivere con parole più generose di un generalizzato declino della classe dirigente occidentale. Senza farne ovviamente un discorso personale, l’osservazione banale per cui “non abbiamo più i politici di una volta” fa il paio con il confronto impietoso con le capacità dei leader non occidentali e spesso anche del sud del mondo. Al di là di quanto si pensi sulla sparata di Josep Borrell per cui la Russia sarebbe “una stazione di servizio con le atomiche”, sarebbe anche in tal caso indiscutibile la coerenza con la carriera di Vladimir Putin come agente segreto nel servizio estero, la sua laurea in economia ed il dottorato con tesi su “Risorse minerali e di materie prime e la strategia di sviluppo dell’economia russa”. Bisogna pure ammettere che si potrebbe sostenere lo stesso riguardo al rapporto tra la formazione di Gioria Meloni – alberghiero, curvatura lingue straniere – e il suo programma politico.

I modelli principali di selezione delle élites includono l’aristocratismo e la meritocrazia. Nel modello aristocratico il rampollo di una grande famiglia può anche nascere senza speciali virtù, ma viene sottoposto a una rigorosa ed esigente educazione per la quale, salvo nei casi più disperati, acquisice qualcuna delle virtù di governo: noblesse oblige. I cenni biografici disponibili su Mohammed bin Zayed Al Nahyan o sui reali inglesi offrono esempi più o meno riusciti di questa formazione…

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Alberto Bradanini: il degrado etico dell’Occidente tra silenzi e dimenticanze

Caitlin Johnstone, analista australiana[1] combattente per la giustizia e la verità in un mondo malato[2], rileva l’attenzione con la quale i media di regime hanno celebrato la grande sensibilità mostrata dal 44.mo presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, nel riportare[3] sul suo account Twitter l’elenco delle organizzazioni disponibili a soccorrere le vittime delle inondazioni che nei giorni scorsi hanno devastato la Libia, lasciando sul terreno migliaia di morti, macerie e devastazioni.

Quello di Obama viene celebrato come un gesto dettato da nobiltà d’animo, degno di una personalità che conferma in tal modo di aver ben meritato il premio Nobel per la Pace conferitogli nel 2009: a qualcuno potrà apparire inconcepibile, ma l’ex presidente ha davvero ricevuto il Nobel per la Pace, per ragioni tuttora misteriose.

Certo, alcuni potrebbero rammentare ai distratti lettori di quel catalogo che il meritato plauso (!) per un gesto di tale elevatezza morale (diffondere un elenco richiede, come noto, grande coraggio civile!) diverrebbe meno meritato se si considerasse che tale cruciale informazione di soccorso emana dalla medesima persona che ha avuto un ruolo determinante nella distruzione della nazione in questione.

Fino al 2010 la  Libia, un paese guarda caso ricco di petrolio,  occupava la prima posizione tra tutte le nazioni africane nella classifica dell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite[4]. Le sue infrastrutture civili (incluse quelle contro le inondazioni) erano di prim’ordine. Dopo l’intervento umanitario dell’Occidente a suon di bombe umanitarie il paese arretra di mezzo secolo, le sue condizioni sociali e infrastrutturali precipitano, la persona umana viene brutalizzata e l’efferatezza dei crimini, tra cui la schiavitù sessuale femminile, raggiunge limiti estremi.

Ma cosa sarà mai accaduto in quel martoriato paese dal 2011 ad oggi per essersi trasformato da modello di sviluppo umano (pur con i suoi limiti, dal momento che il governo Gheddafi non era per tutti un paradiso) in una terra lacerata, aggredita da violenze e degrado?

La risposta è banale ed è evidenza quotidiana dei suoi abitanti, eppure nel Regno della Libertà dell’Informazione solo di nascosto e in punta di piedi qualcuno osa accennare a quegli eventi. La guerra fu condotta dall’Occidente (francesi, britannici, italiani e altri, tutti in riga davanti ai generali americani) e ha raggiunto il suo scopo. Il paese doveva essere gettato nel caos, invaso da estremismi, fondamentalismi, instabilità e conflitti endemici, in buona sostanza destrutturato e degradato a perpetuità. Dividere amici e nemici è l’impronta ideologica di ogni impero, nulla di nuovo, dunque. In Medio Oriente, poi, tutto ciò fa salire il prezzo del petrolio e il corso del dollaro, moltiplica i conflitti, riempie le tasche già piene dei venditori di morte, frantuma i paesi e irrobustisce l’egemonia della sola nazione indispensabile al mondo (nel lessico patologico di W. Clinton, 1999). Le vittime si contano a migliaia e migliaia in Libia, Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan e via dicendo, ma esse vengono derubricate a danni minori. La propagazione dei valori dell’Occidente – moderna riedizione del fardello dell’uomo bianco! – ha i suoi costi!

Oggi sappiamo che i paesi Nato-Usa si erano alleati a jihadisti assassini e tagliagole (Isis, al-Qaeda et similia). L’eliminazione di Gheddafi – il quale era da anni, per diverse ragioni, nel mirino delle democrazie rispettose del diritto e della civiltà giuridica moderna! – era divenuta urgente alla luce di un suo progetto folle e destabilizzante: l’istituzione di una moneta alternativa al petrodollaro d’intesa con altri paesi africani…

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Niger, perso l’alleato l’Europa si domanda chi fermerà i migranti – Antonella Sinopoli 

Nessuna crisi africana ha preoccupato tanto l’Europa (Italia compresa). E nessun Paese si è garantito quindi maggiore copertura mediatica quanto il Niger nelle ultime settimane. Il cui colpo di Stato ha suscitato un’attenzione alquanto inedita, almeno qui da noi. E questo in contrasto con il generale disinteresse nei confronti di questo continente. O del modo in cui si evitano approfondimenti sui fatti.

Uno dei motivi – non sempre o non chiaramente esplicitato – è la questione migratoria.

Il Niger negli ultimi anni è diventata la principale rotta delle migrazioni dall’Africa sub-sahariana. Luogo di incontro, di passaggio verso la Libia e poi l’Europa, ma anche di espulsione (dall’Algeria o anche dalla Libia) e di esilio forzato. Moltissimi in questi anni sono riusciti ad attraversare questo “imbuto”, molti altri ci sono rimasti. E anche morti. Da gennaio a giugno 2023 sarebbero non meno di 570 i migranti morti durante il loro viaggio migratorio verso il deserto del Sahara. Di questi 412 solo in Niger, principalmente ad Agadez (372). Anche se, in questo caso, non c’è un conto esatto.

Più facile sapere di quelli vivi. Nel 2019 il numero di migranti che aveva attraversato il Niger era più che raddoppiato (540.000) rispetto all’anno precedente (266.590). Sono dati dello IOM. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni il numero è continuato ad aumentare e, ad aprile di quest’anno, si contavano almeno 7.700 migranti bloccati nel Paese. Un numero enorme di persone – confermato in questi giorni – bisognose di cibo, acqua, assistenza medica e protezione. Al 15 agosto nei centri di transito ne erano ospitati 4.834. La maggior parte provenienti da Guinea, Mali, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Nigeria.

Tutto questo mentre continuano le violenze – anzi pare siano peggiorate – soprattutto nei pressi dei confini con Mali e Burkina Faso. E che stanno generando l’aumento anche degli sfollati.

Emergono, ora, alcune domande: cosa ne sarà di tutti questi esseri umani? Quanti riusciranno a uscire da un Paese che rischia di diventare una trappola? Quanti di loro – vulnerabili più che mai – potrebbero addirittura andare da allargare le fila di combattenti o di milizie pur di dare un senso alla propria esistenza? E quanto, nel caos, aumenteranno i maltrattamenti nei loro confronti, maltrattamenti già ampiamente denunciati dalle organizzazioni umanitarie? Tutte le questioni sono legate.

Il golpe in Niger si assomma alla situazione già difficile che sta vivendo il Sahel in termini di sicurezza. Epicentro del terrorismo globale, in quest’area lo scorso anno si sono contate il 43% delle morti causate da azioni terroristiche. Erano solo l’1% nel 2007. Si legge nel report del Global Terrorism Index 2023: nel Sahel l’aumento del terrorismo è stato drammatico, oltre il 2000% negli ultimi 15 anni. Ci sono tutti i motivi per pensare che nei prossimi la situazione su questo fronte potrebbe addirittura peggiorare.

Eppure, il Niger fino alla vigilia del colpo di Stato era considerato una sorta di bastione della democrazia. Un baluardo per combattere il jihadismo da una parte e per tentare di arginare i flussi migratori dall’altro. Il presidente Mohamed Bazoum, rimosso dal golpe del 26 luglio scorso dalla guardia presidenziale con a capo il generale Omar Tiani, era considerato amico dell’Occidente, dell’Europa come degli Stati Uniti. E prima di lui Mohamadou Issoufou, che al termine del secondo mandato si era fatto da parte.

È dal 2016, infatti, dopo il vertice della Valletta dell’anno precedente, che sono cominciate le relazioni dirette tra le istituzioni e i leader europei ed il Niger. In quell’occasione l’Unione europea istituì un Fondo fiduciario di emergenza per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa.

Inutile dire che il fondo – di cui il Niger è stato uno dei maggiori beneficiari – più che intervenire sulle cause profonde del fenomeno migratorio si è risolto nella solita logica dell’esternalizzazione delle frontiere. Una politica che negli anni è stata fortemente criticata.

Il Niger non è diventato solo capolinea e corridoio di ritorno per le persone migranti e in fuga, ma anche un laboratorio per lo spiegamento di pattuglie mobili di frontiera in terreni impraticabili e per l’esternalizzazione della protezione dei rifugiati. Il Niger, colpito da numerose crisi, sta generando esso stesso sempre più movimenti di rifugiati.

Ma si procede su questa linea, l’accordo (2022) tra il Governo nigerino e Frontex avrebbe nelle intenzioni lo scopo di combattere il traffico di esseri umani. Negli anni il flusso di denaro arrivato dall’Europa in questa parte del Sahel è stato notevole. E, ultimamente, solo per il periodo 2021-2024, 503 milioni di  euro. Soldi che dovrebbero essere (stati) spesi nel settore della governance, dell’educazione, della crescita economica e sociale. E si tratta solo di un determinato programma, il MIP – Multiannual Indicative Programme.

A questo vanno aggiunti altri finanziamenti, prestiti, sovvenzioni. Il sostegno dell’UE al bilancio ammonta a 195 milioni di euro. E poi ci sono gli aiuti umanitari, che in realtà, sono assai inferiori agli altri citati: per il 2023 si tratta di 25 milioni di euro. Nel 2022 ne erano stati allocati 49,7 milioni. Infine, non va dimenticato la recente partnership militare tra il Consiglio europeo e le autorità nigerine con il fine di rafforzare la capacità delle forze armate del Paese di combattere il jihadismo. Una spesa, tanto per iniziare, pari a 27,3 milioni di euro.

Nonostante tutto, misure preventive e securitarie – sia sul fronte dei movimenti jihadisti sia su quello delle migrazioni – non hanno cambiato granché le cose. Anche se sembravano aver rassicurato i leader europei che oggi, avendo perso il loro principale interlocutore, sono in difficoltà. Chi fermerà ora i migranti?..

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La Francia sulla graticola, tra ritiro dei soldati e interventismo militare in Africa – Alessandro Avvisato

L’ipotesi di un ritiro dei circa 1.500 militari francesi ancora in Niger sembra diventare sempre più probabile.

In una intervista rilasciata nel fine settimana al quotidiano Le Monde dalla ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha evocato l’impossibilità per Parigi di mantenere – nelle condizioni attuali – quello che definisce il “supporto militare al Niger in termini di lotta al terrorismo e di addestramento dei militari locali. Queste truppe sono lì su richiesta delle autorità (democraticamente elette) del Niger, per sostenerle nella lotta contro i gruppi terroristici armati e per svolgere attività di addestramento.

Oggi questa missione non può più essere garantita poiché non abbiamo più, di fatto, operazioni condotte congiuntamente con le forze armate nigerine”, ha dichiarato la ministra Colonna al quotidiano francese.

Negli ultimi tre anni le nuove giunte militari salite al potere in Guinea, Mali e Burkina Faso hanno costretto la Francia ad operare una significativa riduzione della sua presenza militare nel Sahel e a ritirare completamente gli effettivi dell’operazione Barkhane e della missione Takuba da Bamako e Ouagadougou, oltre che a ridurre significativamente quelli presenti a Conakry.

“I soldati francesi sono già stati costretti, a seguito di golpe militari, a lasciare il Mali (agosto 2022) e il Burkina Faso (febbraio 2023). La presenza in Niger è ora per la Francia di ancor più cruciale rilevanza strategica per la proiezione nell’area del Sahel”, scrive Affari Internazionali.

Lo scontro è reso palese anche dalle ripetute e partecipate proteste con cui centinaia di sostenitori del golpe hanno prima assaltato l’ambasciata francese, quindi chiesto a gran voce lo smantellamento delle basi francesi (e statunitensi) presenti nel Paese per porre fine a quella che viene considerata come un’ingerenza nei fatti interni nigerini.

L’agenzia Nova riporta che in Guinea, in Mali e in Burkina Faso, da tempo è scattata anche l’interdizione delle attività delle Ong francesi ed internazionali nelle aree ritenute “operative” dal punto di vista militare nel contrasto al terrorismo.

Questo scenario ha spinto molti osservatori a parlare di un tramonto definitivo della cosiddetta “Francafrique”, oggi reso ancora più evidente con gli ultimi sviluppi in Niger. Ma al riguardo, la ministra Colonna ha tenuto a precisare che a suo avviso “la Francafrique è morta da molto tempo”. “Non è la Francia che fa e disfà le elezioni, sceglie i presidenti africani o conduce colpi di Stato”, ha detto la ministra (smentita però da quanto accaduto nel 2011 in Costa D’Avorio e quest’anno in Senegal, ndr).

In merito alla presenza in alcuni paesi africani del gruppo di contractors della compagnia russa Wagner, la ministra Colonna ha definito la sua azione “di un’inefficacia totale nella lotta al terrorismo” e si è detta certa che la morte del fondatore, Evgenij Prigozhin, abbia provocato uno “shock considerevole” sulle sue attività.

Ha ammesso però che “è ancora presto” per sapere quali saranno le conseguenze della sua scomparsa in vista di un’eventuale riorganizzazione del gruppo.

In Niger la Francia si è rifiutata di ritirare il suo ambasciatore come richiesto lo scorso 25 agosto dalla nuova giunta al potere. Sul ritiro dell’ambasciatore Itté, la ministra degli Esteri francese ha ribadito la posizione inflessibile già assunta dal presidente Emmanuel Macron.

È il nostro rappresentante presso le legittime autorità del Niger, accreditate come tali, e non dobbiamo obbedire alle ingiunzioni di un ministro che non ha legittimità, né per i Paesi della subregione, né per l’Unione africana, né per le Nazioni Unite, né per la stessa Francia. Questo spiega il mantenimento del nostro ambasciatore”, ha dichiarato ancora Colonna, garantendo che Parigi si sta “assicurando che possa affrontare in sicurezza la pressione dei golpisti”.

La ministra Colonna non si è invece espressa esplicitamente sull’opzione di un intervento militare in Niger, evocato dalla Comunità economica dei Paesi dell’Africa sub-sahariana (Cedeao).

Sulla questione dell’intervento militare la Francia – che la ritiene un’opzione possibile in caso di fallimento diplomatico – è rimasta isolata anche in Europa, non avendo ottenuto il sostegno sperato al vertice dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, tenuta il 31 agosto a Toledo.

I ministri dei 27 paesi Ue sono più orientati a predisporre un pacchetto di sanzioni mirate, mentre ha acquisito rilievo la proposta avanzata dal governo dell’Algeria – apertamente contrario all’intervento militare – per un periodo di transizione di sei mesi guidato da un leader civile.

Ma l’isolamento della Francia in Europa e lo stop all’intervento militare in Niger sono fattori decisamente pesanti per le ambizioni e gli interessi strategici francesi in Africa. Al momento Parigi non sembra disporre di un “Piano B”, il che rende l’opzione dell’intervento militare molto rischiosa ma anche una pericolosa “ultima spiaggia”.

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Sequenza di golpe in Africa: è solo una coincidenza? – Paolo Arigotti

Diversi paesi dell’Africa occidentale e subsahariana, accomunati dal fatto di essere stati parte dell’immenso impero coloniale francese, hanno visto nell’ultimo triennio una serie di rivolgimenti politici e sociali. Nel mese di agosto abbiamo assistito al golpe in Niger, che faceva seguito a quelli in Guinea, Mali, Burkina Faso.

Neanche il tempo di chiudere quel capitolo, che è arrivato il turno del Gabon, stato dell’Africa occidentale grande poco meno dell’Italia, altro ex possedimento francese. E potrebbe non essere l’ultimo, visto che diversi analisti già prevedono ulteriori rivolgimenti in Senegal, paese del quale si era già occupato il podcast Storie di geopolitica e in Camerun, senza escludere nuovi scenari in Ciad, retto da un governo considerato filofrancese dopo il golpe del 2021 (pure per quello vi rimandiamo a un altro episodio dello stesso podcast).

Se l’elemento, neanche l’unico peraltro, che sembra accomunare i vari paesi coinvolti in questa spirale è la loro ex madre patria, pochi dubbi sussistono sul carattere filofrancese di Alì Bongo, il presidente gabonese deposto dal golpe militare dei giorni scorsi, appartenente a una vera e propria dinastia al potere nell’ultimo mezzo secolo; Alì aveva preso nel 2009 il posto del padre Omar, spentosi lo stesso anno dopo aver “regnato” per oltre 40 anni. Alì Bongo era sempre stato confermato nelle successive tornate elettorali e quello del 2023 avrebbe dovuto essere il suo terzo mandato, a dispetto delle irregolarità (come il blocco di Internet) e le accuse di brogli denunziati dalle opposizioni; tra i primi provvedimenti adottati dai golpisti c’è stato proprio l’annullamento di tali consultazioni.

Francesi a parte, il presidente deposto era considerato molto vicino all’ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama e agli ambienti del World Economic Forum, e veniva accusato di aver accumulato assieme ai suoi familiari un ingente patrimonio personale; al momento attuale si troverebbe agli arresti domiciliari. Per effetto del golpe, capeggiato da Brice Oligui Nguema, comandante della Guardia Repubblicana (ancora una volta è stato un corpo di élite a guidare la rivolta), tutti i poteri sono stati trasferiti al “Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni”, che ha accusato il governo deposto di essere “irresponsabile e imprevedibile” oltre che di aver provocato “un continuo deterioramento della coesione sociale che rischia di portare il Paese nel caos” .

Analogamente a quanto avvenuto in Burkina Faso e nel Mali, i militari appena preso il potere hanno ordinato la chiusura delle frontiere, presto riaperte, e l’annullamento di una serie di accordi con la ex madrepatria, che ha in Gabon importanti interessi. Ma c’è un altro punto in comune con quanto avvenuto negli altri paesi africani che abbiamo menzionato: la reazione popolare, che ben lungi dall’avversare il golpe, ha salutato il pronunciamento con grandi manifestazioni di piazza. La dinastia Bongo veniva avversata non soltanto per la diffusa corruzione e la troppa accondiscendenza verso Parigi , ma pure per aver fatto arrestare numerosi oppositori, come Gerard Ella Nguema, presidente del Fronte patriottico gabonese, presentatosi alle elezioni del 2016 contro il presidente deposto.

Eppure, lo stesso leader golpista Nuguema, che pochi giorni fa ha giurato come presidente ad interim del paese, non è affatto estraneo a quel sistema di potere. Non solo è imparentato coi Bongo, ma ha stretti legami (anche economici) con gli Stati Uniti, circostanza che ha fatto sollevare diversi dubbi sulle reali dinamiche del golpe. Secondo un’analisi ripresa in Italia da L’Antidiplomatico, visto che a guidare il sollevamento è stato proprio un militare considerato filoamericano, per quale ragione ci sarebbe stata la volontà di rimuovere un presidente filofrancese, in teoria alleati degli statunitensi? E se a Washington – secondo l’ipotesi avanzata, chiaramente tutta da dimostrare – si fosse ritenuto che i francesi non fossero più in grado di tutelare i loro interessi e si fosse deciso di operare una sostituzione della leadership con altro uomo di fiducia? Un argomento a favore potrebbe essere ravvisato nel fatto che molte imprese francesi, nonostante il golpe e a differenza di quanto avvenuto in Niger, stiano continuando a operare in Gabon.

Il Gabon, similmente a molti dei suoi vicini, è un paese ricco di risorse naturali. Oro, diamanti, manganese, uranio, niobio, minerali di ferro, gas naturale, circa le quali la società Francese Eramet detiene una posizione di fortissima preminenza (per non dire di monopolio); ma è il petrolio (il Gabon è membro dell’OPEC) a fare la parte del leone: l’oro nero rappresenta il 38,5 per cento del PIL e oltre il 70,5 dell’export complessivo. Nonostante queste enormi ricchezze, quasi nulla, tanto per cambiare, è andato appannaggio dei cittadini: circa un terzo dei gabonesi vive (o, per meglio dire, sopravvive) con meno di 1 dollaro al giorno, e circa il 60 per cento del paese è privo di assistenza sanitaria e/o di un accesso regolare all’acqua potabile. Il tasso di disoccupazione sfiora il 40 per cento dei giovani sotto i 24 anni, in un paese nel quale oltre la metà dei circa 2 milioni e 200 mila abitanti ha un’età compresa tra i 18 e i 59 anni.

Nel territorio della cosiddetta France Afrique, il predominio economico di Parigi è stato finora pressoché incontrastato, grazie alla compiacenza di leader politici locali (vedi il caso dei Bongo). Giusto per fare alcuni esempi riferiti proprio a questa fetta del continente nero, pensiamo al gruppo Bolloré che controlla i porti e i trasporti marittimi dell’Africa occidentale; il Bouygues/Vinci che ha in mano edilizia, energia, risorse idriche e lavori pubblici; Total che controlla petrolio e gas; Comilog operativa nel settore della manganese, senza dimenticare i servizi finanziari e tecnologici affidati a gruppi come France Telecom, Société Generale, Credit Lyonnais, BNP-Paribas, AXA. E potremmo continuare, parlando di gruppi e società straniere sempre pronte ad accaparrarsi contratti e appalti…

Quando qualche leader locale ha tentato di risollevare il suo paese e difenderne la sovranità, pensiamo alla figura di Thomas Sankara, si è provveduto a rovesciarlo e assassinarlo (1987).

In estrema sintesi, senza ripetere cose già dette mille volte per tante nazioni africane, si riscontra il solito mix tra sfruttamento e deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, che salvo pochissimi privilegiati non trae alcun beneficio dalle grandi risorse a disposizione…

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