In questi giorni, relativamente alla traduzione di un
piccolo saggio in cui si argomenta contro l'abbandono della lotta di classe - da
parte della Wertkritik - e si propone di integrare l'analisi di Kurz con quella
svolta da Théorie Communiste (la quale sarebbe «più storicamente fondata»),
in seguito alla piccola discussione che ne è seguita, è emerso ed è stato
citato questo "Oltre
la lotta di classe", di Robert Kurz, che avevo
già pubblicato sul mio blog il 19 ottobre 2013, traducendolo dal
portoghese. Rileggendolo, mi sono reso conto che, data la sua importanza, il
testo meritava una migliore e più fedele traduzione. Ragion per cui, mi sono
voluto cimentare con l'originale, in tedesco, cercando
di dare nella mia nuova traduzione il meglio possibile, ai fini della sua
comprensione. Per cui, dopo un'attenta rilettura, lo ripropongo.
Ogni volta che sentono pronunciare dalle loro proprie stesse labbra i
termini di «classe» e di «lotta di classe», ecco che ai marxisti
tradizionali vengono subito le lacrime agli occhi. La loro identità di critici
del capitalismo si lega, inseparabilmente e a doppio filo, a questi due
concetti. Ma di fronte a quelle che sono le attuali condizioni all'inizio di
questo XXI secolo - vale a dire, quelle della terza rivoluzione industriale
(microelettronica), della globalizzazione dell'economia d'impresa e
dell'atomizzazione sociale - ecco che il paradigma teorico-classista del «proletariato»
sembra di botto essere diventato stranamente polveroso.
Quanto più i veterani marxisti insistono, in maniera provocatoria,
sull'idea secondo la quale noi «viviamo ancora in una società di classe»,
tanto meno ci muoviamo in una simile situazione, e ciò malgrado - o per meglio
dire, proprio a causa del - l'aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo,
oltre che a causa di una crisi socioeconomica di tipo nuovo che sta scuotendo
tutto il pianeta. Deprivato oramai di ogni e qualsiasi fondamento, sul terreno
della critica dell'economia, parlare del «ritorno delle classi» finisce
per essere del tutto impotente, oltre che superficialmente sociologico. È
questo il motivo per cui questo concetto non è di alcuna utilità per quello che
è il nuovo movimento di massa contro la globalizzazione capitalista, la guerra
e il disfacimento sociale. L'apparato concettuale della critica radicale ha
bisogno di essere liberato da tutta questa paccottiglia.
Ovviamente, la «classe rivoluzionaria» della quale parlava Marx era
il proletariato industriale del XIX secolo, unificato e organizzato proprio da
quello stesso Capitale di cui sarebbe dovuto diventare il becchino. I gruppi
sociali che dipendevano dal salario proveniente dai settori derivati dei servizi
pubblici e commerciali, delle infrastrutture, ecc., invece, non potevano essere
sommati al proletariato, se non come una sorta di forza ausiliaria; e questo
poteva avvenire silo a partire dal fatto che quest'ultimo - in quanto nucleo di
massa della vita sociale - fosse dominante nelle fabbriche produttrici di
plusvalore. E questo fino al momento in cui si cominciò a verificare
un'inversione del rapporto numerico, che diventò percettibile già fin
dall'inizio del XX secolo (e che venne affrontato solo in maniera superficiale
dal vecchio marxismo, per esempio, nella discussione a proposito delle tesi
di Bernstein), quando si comincia a vedere che lo schema tradizionale delle
classi e della rivoluzione non avrebbe più potuto funzionare.
I dipendenti del settore pubblico e degli altri settori secondari, i quali
nella riproduzione capitalista stavano gradualmente diventando la maggioranza,
sono - non solo sociologicamente, ma anche economicamente - diversi dal vecchio
«proletariato». I loro costi riproduttivi, così come, nel loro insieme,
tutti gli altri costi del loro settore d'attività, vengono sostenuti a partire
dalla produzione industriale di plusvalore. Ma, e nella misura in cui, dal
punto di vista numerico, il rapporto si è invertito, ecco che anche il «finanziamento»
di questi settori ora non può più provenire dalla produzione del plusvalore
reale, ma viene simulato, in anticipo, sulla base di un plusvalore futuro, a
venire; cosa che avviene soprattutto grazie all'indebitamento pubblico, e per
mezzo della creazione di liquidità monetaria da parte dello Stato, ma anche
attraverso l'indebitamento privato, e grazie all'«economia delle bolle
finanziarie». La teoria del «capitalismo finanziario», elaborata
da Hilferding, va intesa proprio in relazione a un simile contesto
(senza che tuttavia però l'autore ne avesse coscienza). In realtà, tutto
ciò ci indica semplicemente che il capitale - pressato dalla necessità
strutturale e dal peso sempre più schiacciante dei servizi pubblici e degli
altri settori secondari - genera ora un grado di socializzazione che, da solo,
non riesce più a sopportare. Con la terza rivoluzione industriale, il nodo di
questa contraddizione arriva al pettine. Il capitale distrugge le proprie
fondamenta con una manovra a tenaglia: da un lato, assistiamo all'espansione di
tutti quei settori che - nella riproduzione del capitale totale - appaiono come
dei «costi morti»; mentre, dall'altro lato, la rivoluzione
microelettronica porta a che si restringa, e a un livello mai visto finora,
quello che era il nucleo produttivo del capitale della produzione industriale.
La marginalizzazione del proletariato industriale coincide così con una
crisi capitalistica fondamentale di tipo nuovo. Certo, i settori pubblici
secondari del capitale commerciale, possono essere certamente trasformati, in
maniera formale, privatizzandoli. Ma dal momento che questo non cambia niente
per quel che riguarda il loro carattere economico di settori derivati, ecco che
essi vengono smantellati, oppure virtualmente distrutti. Incapace di mantenere
- nelle sue forme - il grado di socializzazione raggiunto, il capitale
de-socializza la società. Il risultato è una sociologia della crisi, costituita
da masse di disoccupati e di cassaintegrati, di pseudo-lavoratori indipendenti
e di «imprenditori da baraccopoli», di madri single e di precari
flessibilizzati che cercano lavoro, ecc.; per non parlare del terzo-mondo
piombato in un'economia di sussistenza primitiva e di saccheggio. Questa crisi
rivela e mette in evidenza il vero volto della concorrenza, già insita nel
concetto stesso di capitale. Nella concorrenza, non c'è più solamente il lavoro
che si contrappone al capitale, ma anche il lavoro contrapposto al lavoro, il
capitale al capitale, il settore industriale contro il settore industriale, la
nazione contro la nazione. E ora persino un sito industriale contro un altro
sito, un blocco economico contro un altro blocco, l'uomo contro la donna,
l'individuo contro l'individuo, perfino il bambino contro il bambino.
La «lotta di classe» è diventata parte integrante di questo sistema
di concorrenza universale, sciogliendosi in esso, e rivelandosi per quella che
è: solamente un caso particolare di ciò che riguarda tutto il sistema, e che è
assolutamente incapace di trascendere il capitalismo. Anzi, a uno stadio di
sviluppo più basso, ne costitutiva addirittura, e piuttosto, proprio la forma
immanente della sua dinamica, allorché in questa struttura si trattava ancora
di riconoscere i proletari di fabbrica in quanto soggetti borghesi. Per poter
competere, ed essere così in concorrenza, bisogna agire nelle medesime forme
comuni. In realtà, fondamentalmente, capitale e lavoro costituiscono solamente
degli aggregati, i quali si trovano a uno stadio diverso di quella che un'unica
e medesima sostanza sociale. Vale a dire che il lavoro è capitale vivo, e il
capitale è lavoro morto.
Ma la nuova crisi consiste proprio nel fatto che ora è lo sviluppo
capitalistico stesso, quello che sta dissolvendo la sostanza di quel «lavoro
astratto» che costituisce la base produttiva del capitale. Di conseguenza,
e in tal modo, il concetto di «lotta di classe» perde ogni sua
pseudo-trascendente luminosità metafisica. I nuovi movimenti non possono più
definirsi, in maniera «oggettiva» e formale, a partire da un'ontologia
del «lavoro astratto», e per quello che dovrebbe essere il loro «ruolo
nel processo di produzione». Oramai, possono definirsi soltanto in termini
di contenuto, vale a dire, a partire da ciò questi movimenti vogliono. O meglio
ancora, per quello che essi vogliono impedire: ossia, la distruzione della
riproduzione sociale per mano della falsa oggettività degli imperativi imposti
dalla forma capitalistica.
E anche per il futuro che desiderano: l'uso sensato e comunitario delle
forze produttive, al grado di sviluppo raggiunto e in base alle loro esigenze,
anziché secondo i folli criteri della logica capitalista. Il loro terreno
comune può pertanto essere solamente il terreno comune a quelli che sono degli
obiettivi emancipatori; e non certo il terreno comune a un'oggettivazione
definita dalla stessa relazione di capitale. Ciò che la prassi, ora in maniera
cieca sta già portando avanti a tentoni, la teoria deve ancora arrivare a
concettualizzarlo. Solo allora, i nuovi movimenti potranno diventare critici in
maniera radicale nei confronti del capitalismo, e lo faranno in un modo del
tutto nuovo, al di là del vecchio mito della lotta di classe.
- Robert Kurz -
Pubblicato in Neues Deutschland, 30.05.2003 -
Original "Jenseits des Klassenkampfs" -
-
fonte: Exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft –
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