Pasquale Liguori intervista Luigi Daniele
Cittadino italiano e palestinese, Khaled el Qaisi, studente di Lingue e
Civiltà Orientali all’università la Sapienza di Roma e traduttore di testi
preziosi come quelli di Ghassan Kanafani, è rinchiuso in un carcere israeliano.
Fino ad oggi nessuna autorità ne ha spiegato le ragioni. Al termine di una
vacanza in Palestina con la famiglia, il 31 agosto, Khaled è stato
improvvisamente ammanettato, davanti alla moglie e al bambino, mentre
attraversava il valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, prima di
rientrare in Italia. Sappiamo solo che tre udienze ne hanno prorogato la
detenzione “cautelativa”. Il silenzio delle autorità politiche italiane sulla
sua detenzione è sconcertante. Nei giorni scorsi, a conclusione di un’assemblea
all’università romana, i familiari – insieme con il legale italiano incaricato
di rappresentarli – hanno promosso la costituzione di un comitato per la sua
liberazione. A partire dal rischio paventato dal legale della
famiglia el Qaisi – lo “slittamento” del procedimento da un piano penale, che
presume un’imputazione, con diritto alla difesa legale, a un piano di
detenzione amministrativa (un “mostro” giuridico in uno stato di diritto, che
in Italia è ben noto perché abitualmente utilizzato nella guerra contro i
migranti) – Pasquale Liguori ha intervistato sul caso di Khaled, Luigi
Daniele, Senior Lecturer in Diritto
dei Conflitti Armati e Diritto Internazionale Penale presso la Nottingham Trent
University in Inghilterra. Ne è nata un’ampia e straordinaria disamina che
mette in luce l’intero torvo profilo, ma anche molti degli aspetti meno noti,
della giustizia militare di quella che gran parte dei media e degli esponenti
politici italiani si ostina a chiamare la sola democrazia del Medio Oriente. Si
tratta di un sistema abietto che, spiega Luigi Daniele, sul
piano giuridico rappresenta il medioevo, il pre-moderno in tutta la sua
violenza. Anche per questo, per esser riuscito – suo malgrado – ad aprire uno
spiraglio di luce sul complice silenzio che avvolge quel sistema (anche
giuridico) di apartheid,
dobbiamo ringraziare Khaled el Qaisi. E dobbiamo pretendere che ci venga
restituito domani, che venga sottratto all’arbitrio di chi l’ha gettato in un
carcere. Proprio come accade ogni giorno a fiumi di altre persone che Israele
considera, oltre che meritevoli di soprusi e umiliazioni, ostili e pericolose.
Perché forse quel che Israele teme più di ogni altra cosa è la verità.
Sono trascorse quasi tre settimane da quando la luce
del giorno si è dissolta nel buio di una tetra galera israeliana. Khaled el
Qaisi, palestinese e cittadino italiano, è da allora detenuto in un carcere di
sicurezza nei pressi di Tel Aviv e non ci è dato sapere per quale motivo.
Strappato alla famiglia dopo ruvidi controlli alla
frontiera che separa Territori Occupati e Giordania mentre rientrava a Roma al
termine di una vacanza nei luoghi di origine, si sa soltanto che il malcapitato
studente di Lingue e Civiltà Orientali all’università della Sapienza è in stato
di isolamento con scarsa, quasi nulla possibilità di accesso al supporto di un
legale del luogo.
Dal momento del suo arresto, el Qaisi è stato
sottoposto a udienze farsa, atte solo a prolungare il suo stato di detenzione.
Motivazioni, appunto, non pervenute.
Di fronte a quello che ha tutti i contorni di un
palese, ennesimo uso arbitrario sia di forza che di strumenti giudiziari da
parte di Israele, neanche un minimo riferimento alla vicenda è stato proposto
dai principali notiziari televisivi e radiofonici nostrani. Fatta salva qualche
lodevole eccezione, rari sono stati e prevalentemente striminziti, inesatti o
tendenziosi i pavidi interventi pubblicati dalla carta stampata. A ciò si
aggiungono le sparute istanze parlamentari emerse in dibattiti d’aula o di
commissione con loro esiti impercettibili e un vigore pari a quello
dell’isolata particella di sodio nella nota acqua minerale.
Soprattutto, nemmeno un cenno, una timida
dichiarazione pubblica da parte della patriota Meloni e del competente, per
mansione, ministro Tajani.
Dopo la recente vicenda Zaki, uno sarebbe indotto a
immaginare autorità italiane scaltrite, più reattive nella difesa di tutele e
diritti delle vittime di metodi criminali, soprusi, e torture messi in atto da
parte di regimi esteri. Sussistono, per il caso el Qaisi, aree di
sovrapposizione e apparente somiglianza con quegli accadimenti, tranne per il
fatto che Khaled è sequestrato da quella che i potenti d’Occidente celebrano
quale esemplare e unica democrazia del Medio Oriente. Oltretutto, diciamolo,
per gli etno-sovranisti di casa nostra Khaled el Qaisi è in qualche modo
portatore di una fastidiosa anomalia: è sì di madre e cittadinanza italiane, ma
resta pur sempre palestinese. Per l’alleato Israele, dunque, pregiudizialmente
potenziale terrorista. A tal punto terrorista da insanguinare strade e piazze
del mondo diffondendo, anche mediante l’attività del Centro di documentazione
da lui stesso fondato, quelle pagine meravigliose di cultura del suo Paese di
origine. Uno dei suoi peggiori attentati? Aver analizzato, tradotto e curato
opere mirabili come quelle di Ghassan Kanafani. Già! Tipiche, inoppugnabili
prove che tracciano l’identikit di un carnefice.
Non si fa fatica a supporre che, per lui, fascismi di
vario calibro e tono non si asterrebbero da decisioni repressive con tanto di
chiavi della segreta da buttare via.
In una folta assemblea all’Università della Sapienza,
i suoi familiari insieme con il legale italiano incaricato di rappresentarli
hanno promosso la costituzione di un comitato per la liberazione
dell’italo-palestinese. Consapevoli della difficoltà relazionale con
l’arrogante e pervicace controparte israeliana, si è scelta una strada di civica
sollecitazione volta a favorire l’esito auspicato di una rapida scarcerazione
di Khaled.
Non può esser, però, taciuto il tattico, assordante,
omertoso silenzio circa i misfatti del regime di occupazione israeliano al
quale, anche in questa occasione, è stata rinnovata l’offerta-zerbino della
subalternità psicopolitica e mediatica. Un nostro connazionale è detenuto senza
che gli siano stati contestati specifici capi d’accusa, tratto in arresto da
forze militari che indebitamente occupano un territorio da tanti, troppi
decenni con crimini, illeciti e violazioni di ogni genere a carico di migliaia
e migliaia di prigionieri solo perché palestinesi. La cosa è di tale portata
che non può scivolar via senza interessare profondamente le coscienze di chi
abbia a cuore valori universali di garantismo e giustizia. Né può tale
circostanza di lotta e sensibilizzazione essere di pertinenza dei soli addetti
ai lavori, esperti e intellettuali che sostengono la via all’autodeterminazione
palestinese in uno scenario di pace e giustizia le cui proposte sono però
spesso paralizzate da divisioni e protagonismi delle varie anime che compongono
il variegato panorama dell’attivismo filopalestinese in Italia. Un cambio di
passo, anche generazionale, potrebbe forse offrire l’approdo a più efficaci
istanze a sostegno dei palestinesi e del ritorno alla loro terra, in un proprio
Stato.
Tra circa un mese, Meloni e una nutrita delegazione di
suoi ministri saranno ospitati da un’omologa compagine israeliana in un vertice
intergovernativo finalizzato a consolidare accordi strategici, economici,
militari e politici tra le parti. Attorno a quel tavolo siederanno non pochi
fascisti, oltranzisti e razzisti. Il caso el Qaisi – si spera vivamente,
all’epoca di quel prossimo summit, già risolto da tempo – non rivestirebbe
comunque gli interessi primari in agenda. Tuttavia, non vorremmo si tramutasse
in un omaggio di Netanyahu alle “virtù” politico diplomatiche dell’underdog
nazionale con tanto di grancassa propagandistica ed elettorale.
A quel tavolo si può essere ragionevolmente sicuri che
non si parlerà del contesto crudele e penalmente rilevante sul piano delle
violazioni di diritto internazionale derivanti dall’occupazione e
colonizzazione dei Territori palestinesi da parte di Israele.
In questa temperie è maturato l’arresto dello stesso
el Qaisi. Di tale contesto abbiamo parlato con Luigi
Daniele, Senior Lecturer in Diritto dei conflitti armati e Diritto
Internazionale Penale presso la Nottingham Trent University in Inghilterra.
L’avvocato Albertini Rossi che assiste la
famiglia el Qaisi ha paventato il rischio di “detenzione amministrativa” per
cui Khaled si troverebbe al cospetto di rinvii continui della sua scarcerazione
e detenzioni prolungate per motivi di sicurezza senza che vi sia straccio di
prova a suo carico. Che giustizia è questa?
Mi lasci innanzitutto osservare che in Italia esistono
molte sensibilità, reti e associazioni (incluse le associazioni forensi)
consapevoli dell’importanza del diritto penale minimo in un sistema democratico
ed impegnate a contrastare i disastri prodotti da classi dirigenti che sempre
più costruiscono il proprio consenso tramite forme radicali di populismo
penale. Troppo spesso, però, questo contrasto si limita alla sfera nazionale e
alla giustizia penale domestica, perdendo di vista le grandi spinte
sovranazionali che contribuiscono a normalizzare quelle autoritarie ancora più
gravi e distruttive per i diritti fondamentali dei ‘clienti’ dei sistemi di
repressione delle democrazie liberali e dei loro alleati nel mondo. Il sistema
giudiziario dell’occupazione israeliana, da questo punto di vista, è
particolarmente allarmante, poiché nella sua interezza è orientato alla tutela
di un’impresa proibita – nella modernità giuridica – da norme perentorie di
diritto internazionale, cioè la conquista di territorio tramite uso della forza
armata. È curioso che ci sia così poca discussione in Italia a riguardo,
proprio mentre si proclama l’intollerabilità dell’uso della forza armata a
scopi di conquista nel contesto di un’altra occupazione illegale, ovvero quella
della Federazione Russa in Ucraina.
Considerazioni fondamentali che,
giustamente, fanno da premessa ai rischi connessi al caso el Qaisi…
Nel merito, l’avvocato di Khaled el Qaisi parla del
rischio di “slittamento” del procedimento da un piano penale, che presume
un’imputazione, con diritto per l’imputato alla difesa legale, a un piano di
detenzione amministrativa. La detenzione amministrativa è una misura praeter delictum, preventiva, ufficialmente intesa a
scongiurare un pericolo di sicurezza o per l’ordine pubblico. Avendo
collaborato anni fa alla ricerca di un team euro-mediterraneo, guidata da un
collega italiano, il Prof. Mariniello, sulla pratica delle detenzioni amministrative
nel territorio palestinese occupato, è per me doveroso segnalarne
l’incompatibilità radicale con gli standard internazionali minimi di tutela dei
diritti fondamentali. Migliaia di detenuti amministrativi palestinesi ogni anno
cadono vittima di questa forma di privazione sommaria della libertà, che è
ormai prassi dei comandanti militari che la ordinano e delle corti militari di
occupazione che la convalidano. Ciascuno di questi detenuti non viene messo al
corrente degli elementi a proprio carico (spesso secretati per motivi di
‘sicurezza’), non ha possibilità di contestarne la fondatezza in un regolare
processo e la detenzione stessa può essere rinnovata ogni sei mesi senza alcun
termine massimo. Abbondano, inoltre, le denunce di tortura di questi detenuti
da parte di organizzazioni per i diritti dell’uomo israeliane, palestinesi ed
internazionali. Ma il problema è strutturale. Si dice che si privano questi
civili protetti dal diritto internazionale della libertà poiché
rappresenterebbero una minaccia per la sicurezza. Ma di quale sicurezza si
parla? Questo concetto di sicurezza è andato evolvendosi, nei 57 anni
dell’occupazione israeliana, sino a significare sicurezza non di Israele e dei
suoi cittadini, ma – al contrario – dell’occupazione stessa. La conseguenza è
intuitiva: anche un palestinese che contrasti pacificamente l’occupazione, che
rivendichi il diritto del proprio popolo all’autodeterminazione e si impegni
pubblicamente in questo senso, è una minaccia per la sicurezza
dell’occupazione. Per capirci, parliamo di reati di ‘assembramento politico o
dalle intenzioni politiche’, o ‘istigazioni a turbare l’ordine pubblico’
dell’occupazione… Puniti con dieci o venti anni di reclusione!
Perché la pubblica opinione, ma se
vogliamo il panorama politico in generale, sembrano così distanti dalla
consapevolezza e conoscenza di temi così delicati e importanti?
La mia impressione è che i cittadini siano ben
consapevoli dell’intollerabile privazione di diritti civili che da quasi
sessant’anni (contando solo le violazioni conclamante delle rilevanti
risoluzioni ONU) continua a danno del popolo palestinese. Tuttavia, media,
politica e istituzioni sembrano sordi. In questo senso, la questione palestinese
è una cifra dello smantellamento del nesso di rappresentanza e della
‘decostituzionalizzazione’ (come l’ha chiamata Ferrajoli) del nostro sistema
politico. Ad una opinione pubblica solidale e convinta che l’Italia debba agire
per una pace giusta e basata sulla legalità internazionale fa da contraltare un
ceto politico che chiama crimini di guerra (come le demolizioni di proprietà e
l’esproprio forzato di terreni a danno della popolazione civile di un
territorio occupato) “dispute sulle case”… Regredendo ad uno stadio
pre-giuridico dei propri posizionamenti. Quanto alle privazioni arbitrarie
della libertà, tra cui incarcerare civili per conquistare territorio con la
forza, nel caso dell’occupazione russa in Ucraina orientale i grandi media
occidentali hanno apertamente parlato di campi di concentramento. Nel caso che
qui discutiamo, per quanto la brutalità delle pratiche possa variare, la
sostanza giuridica delle violazioni, come incarcerare a tempo indefinito e
senza processo cittadini stranieri, residenti in un territorio che la potenza
occupante intende annettere, è la stessa.
Può esercitare simili azioni una potenza
occupante dal punto di vista del diritto?
Il diritto internazionale non riconosce alcuna
autorità sovrana a quell’entità statale che si trova nella posizione occupante,
se non minime misure emergenziali in caso di necessità militare che, comunque,
devono essere aderenti al diritto e motivate da esigenze legalmente
ammissibili. In sostanza il diritto internazionale prende atto delle situazioni
di occupazione militare e, temporaneamente, le ammette, dettando precise tutele
per la popolazione civile che si trovi sottoposta al controllo territoriale di
un esercito straniero. Israele, in ciò isolata nella comunità internazionale,
si rifiuta di riconoscere il territorio palestinese occupato per ciò che è,
ovvero un territorio militarmente occupato. Disconoscendo questo status
internazionale, di fatto Israele rifiuta e contraddice l’unica premessa
giuridica che conferirebbe ad esso autorità di temporanea e limitata
amministrazione legale. Ciò che ne discende è una macroscopica violazione delle
norme fondamentali dell’ordine giuridico internazionale.
Sul vasto capitolo delle violazioni
ritorneremo a breve. Che idea ha dunque maturato sulla vicenda el Qaisi?
Desidero precisare che non dispongo di dettagli
riguardanti il caso. Tuttavia, va segnalata, almeno sino ad ora, la gravità di
un mancato intervento istituzionale italiano. Il silenzio del governo è
assordante. Solleva il sospetto di un’ingiustificata sudditanza nei confronti
dell’alleato israeliano: i diritti umani fondamentali dei cittadini italiani
all’estero non sono un’optional. Ogni governo ha il dovere di agire affinché
siano tutelati e rispettati. Indipendentemente dai sistemi di alleanze politiche
internazionali, il nesso tra costituzione e diritto internazionale detta un
obbligo di tutela dei diritti fondamentali sovraordinato alla discrezionalità
politica. È gravissimo che il governo sia silente su questa vicenda. Partendo
da queste garanzie, abbiamo anche il dovere di segnalare che gli stessi doveri
istituzionali valgono per tutti i titolari di quei diritti umani. Sono diritti
non dei cittadini, ma appunto diritti umani, protetti dalle rilevanti
convenzioni internazionali. Ciò che Khaled sta subendo è un esempio di ciò che
intere generazioni di palestinesi subiscono da decenni. In fondo il tema è
proprio questo: le politiche di un governo alleato che considerano un popolo,
quello sottoposto alla propria occupazione, meno umano e per nulla titolare
degli stessi diritti umani dei propri cittadini.
Prima, stava infatti accennando alle
violazioni di Israele in quanto potenza occupante…
La prima cosa da ribadire è che nel diritto
internazionale il regime giuridico che governa le situazioni di occupazione
militare non conferisce nessun potere sovrano alla potenza occupante. È un
regime di eccezione, anzi forse il regime di eccezione per eccellenza, che
ammette uno iato, temporalmente limitato, tra sovranità democratica e controllo
di un territorio. Israele ha travalicato tutti i limiti di questa eccezione.
L’occupazione israeliana è diventata perenne e si è progressivamente
trasformata in annessione armata. Ha quindi cessato da decenni di rispettare i
diritti della popolazione civile, che sempre più l’infrastruttura
dell’occupazione-annessione e i partiti dei coloni hanno configurato come
minaccia in sé, la cui esistenza come gruppo nazionale autonomo e
autodeterminato non è più prevista. Ma l’autodeterminazione è un diritto
inalienabile, così come inalienabili sono le garanzie di un giusto ed equo
processo.
Cosa che, notoriamente, è elusa da
Israele.
Fin dal 1967, Israele si arroga il diritto di privare
della libertà personale, indiscriminatamente, i palestinesi considerati ostili
all’occupazione. Parliamo di ostilità politica, non militare. I militanti dei
gruppi armati sono obiettivo dichiarato di omicidi mirati, non di cattura e
processi. È importante comprendere che, per la stragrande maggioranza dei
palestinesi detenuti, non siamo nel contesto di un sistema di giustizia civile
bensì dinanzi a un sistema di giustizia militare di occupazione. La prima
ordinanza militare che ha fondato questo sistema di giustizia militare è stata
la proclamazione nel 1967 del comandante militare delle IDF in Cisgiordania,
nelle cui mani venivano a concentrarsi potere legislativo, esecutivo e
giudiziario nel territorio occupato. Il popolo palestinese, da allora, è
vittima di un sequestro del proprio diritto all’autodeterminazione, ivi
compreso il diritto di esprimersi sulle proprie istituzioni e di essere
giudicato dal potere giudiziario del proprio stato. Ciò, per i cittadini di
qualsiasi stato democratico nel mondo, significa poter essere giudicati sulla
base di reati codificati da un potere legislativo eletto. I palestinesi sotto
occupazione sono invece da quasi sessant’anni giudicati dalla giustizia
militare delle forze di occupazione. L’esercito israeliano è insomma per i
palestinesi, e solo per essi, uno e trino, cioè contemporaneamente potere
legislativo, esecutivo e giudiziario.
Un trattamento che Israele si guarda bene
dall’applicare, invece, ai coloni stabiliti illegalmente in Cisgiordania in
avamposti e insediamenti.
Sì, la giustizia militare viola il principio di
territorialità e viene applicata su basi etnico-razziali solo ai palestinesi,
tant’è che grandi organizzazioni internazionali a difesa dei diritti dell’uomo
considerano ciò uno dei formanti fondamentali del sistema di apartheid a cui
sono sottoposti. Per i coloni israeliani si utilizza il diritto “domestico”,
fungendo così da vettori di annessione giuridica, che portano con sé il diritto
della potenza occupante come pertinenza personale. Un diritto domestico,
ovviamente, caratterizzato da garanzie e tutele diametralmente opposte agli
arbìtri del diritto militare applicato ai palestinesi.
Può fare degli esempi rilevanti di questo
doppiopesismo discriminatorio nei riguardi dei palestinesi?
Certo. Ad esempio, il periodo massimo di custodia
senza convalida da parte di un magistrato nel diritto domestico israeliano è di
sole 24 ore mentre diventa di 8 giorni per i palestinesi giudicati dalla
giustizia militare di occupazione. Ancora: il periodo massimo di custodia prima
di poter essere assistiti da un legale è di 48 ore per civili e coloni
israeliani mentre è di 90 giorni per un palestinese. Inoltre, fino al 2011,
epitome della discriminazione, l’età dell’imputabilità per reati nel diritto
domestico israeliano era di 18 anni. A quell’epoca, nel sistema di legislazione
militare di occupazione, bambini palestinesi dai 12 anni in su potevano essere
arrestati e interrogati e quelli dai 16 anni in su venivano considerati giovani
adulti. Nonostante gli emendamenti alla legislazione militare, va comunque
sottolineato che continuano a tutt’oggi fermi e pratiche violente di
interrogatorio di bambini palestinesi minori di 16 anni .
È logico attendersi che, per quel che
riguarda i provvedimenti di condanna, le statistiche risultino ovviamente
sbilanciate a sfavore delle pene comminate ai palestinesi.
L’aspetto che esprime maggiormente la discriminazione
di cui parliamo è il tasso di condanne e assoluzioni. Tra gli imputati
palestinesi di fronte alla giustizia militare, circa il 90-95% viene
annualmente condannato con un record nel 2011 pari al 99,74% di condanne. Un
dato senza eguali al mondo. Per i reati commessi dai coloni, l’85,3% delle
inchieste è chiusa per impossibilità di localizzare il sospetto o per
insufficienza probatoria. Il 7.4% delle inchieste conduce a una richiesta di
rinvio a giudizio, ma la probabilità che dopo quel rinvio a giudizio si giunga
a condanna è di circa l’1.8%, quindi quasi nulla.
Le condotte di Israele mirano alla
conquista territoriale con alterazione demografica del territorio colonizzato.
Esistono storicamente esempi di un colonialismo così violento?
Non so dire se ci siano esempi storici di colonialismo
in cui la potenza coloniale puntasse alla progressiva alterazione demografica
del territorio colonizzato, rendendola omogenea alla potenza coloniale tramite
progressiva espulsione della popolazione indigena. Del resto, quello sulle
politiche di alterazione demografica è uno dei quesiti che l’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, con voto a larghissima maggioranza, ha posto alla Corte
Internazionale di Giustizia per l’importante parere consultivo che si attende
tra qualche mese. La Corte dovrà pronunciarsi sulla legalità o illegalità
complessiva dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali della
stessa.
I Territori Palestinesi Occupati sono
insomma il teatro di una sommatoria, unica nel suo genere, di gravi violazioni
del diritto internazionale.
In effetti, varie violazioni si intersecano.
Violazioni di norme che si considerano cosiddette di ius cogens a livello internazionale. Si tratta di
norme perentorie, inderogabili, di tale importanza che un ipotetico trattato
volto a stabilire deroghe a queste norme sarebbe privo di validità. Tra queste,
il divieto di acquisizione, quindi di conquista di territorio tramite uso della
forza militare. Aspetto su cui, ad esempio, c’è stata la convergenza delle
condanne di tutti i Paesi occidentali nel caso dalla Federazione Russa in
Ucraina. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia di cui le
parlavo prima e riguardante le violazioni israeliane verterà anche su questo
aspetto. Ciò è molto rilevante, anche in considerazione del fatto che le
prerogative di governo del territorio occupato sono in corso di trasferimento a
ministri oltranzisti quali Smotrich e Ben Gvir, con conseguente cessione a
funzionari civili di quei poteri di indirizzo che prima erano nelle mani
dell’esercito. In altre parole, siamo di fronte al superamento pieno delle
soglie giuridiche per parlare di annessione.
Siamo cioè a un salto di qualità
dell’aggressione militare alla Palestina, che va anche oltre la sconcertante
impunità di Israele di fronte a risoluzioni e norme di diritto internazionale.
Dopo una lunga occupazione, ormai, il primo ministro
Netanyahu dichiara apertamente il cosiddetto diritto “esclusivo e
insindacabile” degli ebrei israeliani su tutto il territorio storico. In
definitiva, è esplicito nel non riconoscere nessun diritto
all’autodeterminazione e persino all’esistenza dei palestinesi come gruppo
nazionale. Da queste macro-violazioni derivano a cascata ulteriori abusi. I
coloni, come testimoniato da decenni di report delle organizzazioni per i
diritti dell’uomo, si contraddistinguono spesso per comportamenti
particolarmente violenti e razzisti, in alcuni casi sfilando in cortei che
incitano direttamente e pubblicamente al genocidio dei palestinesi. In questa
cornice vanno inserite le dichiarazioni del ministro Smotrich, egli stesso
colono, che a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, ha apertamente affermato
che il popolo palestinese non esisterebbe, sarebbe un’invenzione. Tali parole
espresse contro qualsiasi altro gruppo nazionale scatenerebbero un putiferio,
costituendo una premessa di eliminazione e il segnale di un pericolo di
genocidio. Ma la gravità della situazione si può rilevare anche a partire da
commentatori israeliani e stranieri che utilizzano la locuzione “cosiddetti
palestinesi”, a dimostrazione di una palese intolleranza e sprezzo, persino sul
piano linguistico, verso l’esistenza di questo gruppo nazionale. Non mancano
editoriali, infatti, che teorizzano apertamente la necessità di ‘cancellare la Palestina’.
Si può parlare di una strategia sempre più
evidentemente finalizzata all’eliminazione fisica del popolo palestinese?
Eliminazione fisica non direi. Ma l’eliminazione
incrementale del gruppo nazionale in quanto tale è un pericolo concreto. In che
modo questo gruppo nazionale può sopravvivere come tale senza territorio, senza
uno stato, senza diritti civili e senza autodeterminazione? Bisognerebbe
cominciare a ragionare delle responsabilità cogenti degli Stati nel prevenire
pericoli di genocidio. Non parliamo però di genocidio, in senso giuridico, come
eliminazione fisica di un gruppo (o di una sua parte sostanziale), ma di
progressiva eliminazione di uno Stato palestinese e della negazione del diritto
a esistere dei palestinesi come gruppo nazionale, mettendone a rischio la
sopravvivenza di insediamento coloniale in insediamento coloniale, di
espulsione in espulsione, di confinamento in confinamento. Il rischio, insomma,
è che nel medio termine non esisterà più un gruppo nazionale palestinese. Si
discute molto di rischi di genocidio in relazione all’Ucraina, anche se la
Federazione Russa non ha intenzioni di conquista territoriale integrale
dell’Ucraina. Per Israele lo scopo di una conquista integrale o quasi integrale
del territorio palestinese, con cancellazione incrementale dello stato di
Palestina, è un obiettivo in vista.
Inoltre, il divieto di trasferimento di civili
appartenenti alla potenza occupante nel territorio che essa occupa è uno dei
più centrali divieti nel diritto internazionale contemporaneo, con precisa
rilevanza nel diritto penale internazionale e funzionale a proteggere territori
in conflitto da progetti di denazionalizzazione forzata. Proprio a Norimberga
emerse un’imputazione di “germanizzazione” dei territori occupati, perché
nell’abietta idea imperialista del Reich v’era la spinta all’omologazione
etnico-razziale e culturale dei territori conquistati, oltre che l’obiettivo
della conquista territoriale in sé. Il divieto contro queste pratiche è oggi
confluito nel crimine di guerra trasferimento di civili dello Statuto della
Corte penale Internazionale (di cui l’Italia è parte e che fu concluso a Roma).
Date tutte queste premesse, il parere consultivo della Corte Internazionale di
Giustizia sarà decisivo.
Tra gli altri organismi internazionali
interessati, sarebbe fondamentale un ruolo più attivo della Corte Penale
dell’Aia sul tema delle violazioni in Palestina.
Sì e anche in questo caso si registra l’avanzamento
dell’indagine in merito da parte della Corte Penale Internazionale. Questa, che
è un organo non sospettabile di simpatie anti-occidentali, ha infatti precisato
di avere giurisdizione sulla situazione in Palestina. La ex procuratrice della
Corte ha ricostruito un quadro indiziante molto grave a carico di Israele,
incluso il massiccio trasferimento di civili della potenza occupante in
territorio occupato.
Tuttavia, con la gestione di Karim Khan,
nuovo procuratore della Corte, registriamo anche un’eccessiva lentezza
procedurale.
È da 15 anni che le vittime palestinesi attendono
giustizia da parte dell’Aia. Ed è vero che per questo motivo si diffonde un
clima di sfiducia, che però ha un effetto nichilista che rischia di
allontanarci dalla responsabilità di mobilitarci affinché quelle indagini siano
portate a termine e che si celebrino processi per accertare le responsabilità.
Va detto che le indagini non riguardano solo le autorità israeliane, ci sono
indizi di gravi crimini di guerra anche a carico di alcuni gruppi armati
palestinesi, il che rende ancora più assurde le mobilitazioni del Governo
Netanyahu contro la Corte stessa. Abbiamo tutti una responsabilità a mettere
pressione affinché le indagini si concludano in tempi ragionevoli. Ci sono
migliaia di vittime che attendono giustizia, con crimini iper-documentati da
decenni di lavoro sul campo di ONG e difensori dei diritti umani.
Eppure, nel caso del mandato di arresto
emesso nei confronti di Putin per i fatti ucraini, la Corte si è mossa con
grande intensità e velocità procedurale…
Accade quando c’è forte pressione degli interessi
dominanti, ma anche, a cascata, delle classi dirigenti, del giornalismo
investigativo, dell’opinione pubblica, e così via, sicché le istituzioni
inquirenti sono spronate ad agire più velocemente. Per simili, analoghe
violazioni del diritto internazionale nel contesto ucraino, tutte le potenze
occidentali affermano concordi che è la legalità internazionale a dover essere
il punto di partenza per una pace giusta. La legge del più forte non può essere
presupposto di pace. Non si capisce perché questo principio non debba
applicarsi in Palestina. La via della pace non è certo l’illegalità. Per
ripristinare la legalità è necessario porre fine alla costruzione di
insediamenti coloniali. Parlano chiaramente le risoluzioni dell’ONU, incluso il
Consiglio di Sicurezza, con l’astensione persino degli USA, che intimano ad
Israele il loro smantellamento.
Sia io che lei, non nascondiamolo, per il
solo fatto di discutere analiticamente e criticamente dell’operato da parte
dell’occupazione israeliana, potremmo incappare in assurde accuse di
antisemitismo da parte di qualcuno.
Sarebbe diffamazione, contro la quale personalmente
agirei immediatamente in giudizio. Ma devo dire che lo scenario è profondamente
cambiato negli ultimi dieci anni. Mentre l’antisemitismo è un male antico e ancora
lungi dall’essere sconfitto, l’uso strumentale e distorto dell’accusa di
antisemitismo contro chiunque denunci forme di razzismo contro i palestinesi e
critichi i governi israeliani ha perso molto mordente. Certo, tale accusa, per
la tragedia storica che evoca, è particolarmente sgradevole ed inquietante. Ha
costretto chi ne è stato ingiustamente vittima alla necessità di difendersi e
contro-argomentare, il che, per chi non è antisemita, è già una pena di per sé.
È una battaglia ancora in corso, ma rispetto alla definizione IHRA, esistono
altre definizioni operative di antisemitismo come la Jerusalem Declaration, che non rinunciano al
sacrosanto contrasto all’antisemitismo, ma non cedono a sue indebite
sovrapposizioni con le critiche a una potenza occupante. Il vento sta cambiando
da questo punto di vista.
Similmente a quanto accadde per l’apartheid in
Sudafrica, la mobilitazione internazionale sta abbattendo sempre più muri di
complicità e smantellando le premesse della discriminazione istituzionalizzata.
È in questo quadro che si inserisce la vicenda di Khaled el Qaisi ed è in
questo quadro che dobbiamo tutte e tutti agire, ciascuno secondo le proprie
possibilità, perché i suoi diritti e quelli del popolo palestinese siano
rispettati.
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