venerdì 31 maggio 2024

Parlamentari USA a TAIWAN: la CINA fa vedere i muscoli - Alberto Bradanini

 

Il nazismo non è mai tramontato

 


di Francesco Masala

L’illusione della libertà continuerà fino a che è vantaggioso che continui. Nel momento in cui la libertà diventerà troppo costosa, tireranno giù la scenografia e il sipario, toglieranno i tavolini e le sedie e potrai vedere il muro di mattoni in fondo al teatro. (Frank Zappa)

 

Nel romanzo La svastica sul sole, a volte intitolato L’uomo nell’alto castello, Philip K. Dick racconta di un mondo nel quale, alla fine della seconda guerra mondiale, i vincitori sono stati i nazisti (qui e qui se ne parla in bottega, qui una recensione); un romanzo distopico, dicono alcuni, in realtà oggi si può leggere come un romanzo d’anticipazione.

I nazisti non se ne sono mai andati, non si sono estinti, sono in ottima salute.

E godono di ottima stampa, quanto sono simpatici i nazisti del battaglione Azov che leggono Kant, mentre “Il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è scagliato contro il presidente russo Vladimir Putin, colpevole, secondo lui, di aver citato l’iconico filosofo tedesco Immanuel Kant”, scrive qui Declan Hayes.

Il 22 settembre del 2023 il Parlamento canadese ha celebrato Yaroslav Hunka, un combattente contro i russi, durante la seconda guerra mondiale (qui).

Tutti sanno che un combattente contro i russi, durante la seconda guerra mondiale, poteva essere solo un nazista.

 

Il nazismo non è mai tramontato

Da secoli la Gran Bretagna (e non solo) cerca di invadere la Russia, adesso per mezzo dell’Ucraina, fino all’ultimo ucraino, dicono a Londra (e a Washington).

Anche nei tre paesi baltici (i paesi chihuhua, li chiamano) non mancano quelli che vogliono invadere la Russia.

Durante la seconda guerra mondiale ci provò attraverso l’esercito nazista (un altro proxy degli anglosassoni?).

Adesso il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, senza vergogna, apre all’Europa nazista (qui)

 

 

 

 


Lo storico Ariel Umpierrez ricorda un po’ di cose poco conosciute.

Per esempio si può scoprire che bastarono qualche centinaio di migliaia di soldati Usa per sedersi al tavolo dei vincitori (fra soldati e civili in Unione Sovietica morirono fra 25 e 27 milioni durante la seconda guerra mondiale).

Il ritardo ad intervenire in guerra da parte di inglesi e Usa fu dovuto all’attesa della sconfitta sovietica?

I sovietici sconfissero i nazisti da soli.

È interessante ascoltare ¿Quién ganó la Segunda Guerra Mundial? La version de Hollywood (QUI)

 

 

Il fascismo e il nazismo sono uno strumento dell’Occidente collettivo.

Tutto parte dal Colonialismo, il peccato originale dell’Occidente collettivo.

Il Colonialismo, l’Imperialismo, il Suprematismo bianco usano il razzismo, il fascismo e il nazismo per portare avanti i disegni malati di un Occidente collettivo (che speriamo tiri le cuoia in fretta), fascismo e nazismo non sono corpi estranei, ma ben integrati, al bisogno.

Quando vediamo le foto dei presidenti dei paesi della Nato, tutti d’accordo come un sol burattino, neonazisti nell’anima, in un coro diretto dalla CIA, per distruggere con un genocidio la Palestina e per distruggere con una guerra la Russia, sembra di vedere quella conferenza di Berlino, del 1884, quando quei pochi e maledetti vampiri si dividevano il mondo.

Ma il mondo è cambiato, adesso molti resistono, per fortuna ci sono la Russia e la Cina, e i Brics.

 

 

QUI la sintesi delle guerre degli Usa, per la democrazia e la pace, naturalmente, fra il 1775 e il 2020.

 

 

Qui o qui si può leggere qualcosa sul ruolo della CIA nella nascita dell’Unione Europea.

 

Le porte girevoli

Chissà come s’incazzerebbero De Gaulle e Pertini sapendo che Pompidou e Macron (tra gli altri) sono stati dirigenti della Banca Rothschild, e Draghi e Sunak sono stati (tra gli altri) dirigenti di Goldman Sachs.


giovedì 30 maggio 2024

La commedia del lavoro – Tersite Rossi

 

Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche

 

Prima puntata di due

“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io, nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di lavorare.

Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.

Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o meglio un insieme di macchine.

Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di lavoro”.

In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi, e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere, che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella spiegazione e continuai il mio giro.

Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè, chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti, perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì, Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo, mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla, così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.

Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai. Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì, il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario, scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati, così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente. Lo ringraziai e uscii.

https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1

 

La commedia del lavoro (2)

 

Seconda e ultima puntata

 

Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai, intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile, disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale, un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse, danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.

Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti, trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai, e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese, semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo ringraziai e me ne andai.

Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello, ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi, producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino. Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni, disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei passi.

Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato, ricominciai a fingere di lavorare.

Le frasi di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di Andreina Lavagetto).

da qui

mercoledì 29 maggio 2024

Il debito di guerra - Marco Bersani

  

Se qualcuno volesse comprendere la cifra profonda del tempo che stiamo attraversando, potrebbe affidarsi al discorso di apertura della campagna elettorale per le elezioni europee, tenuto ad Atene dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel febbraio 2024.

La Grecia è il luogo dove nel 2015 si è consumata la peggiore frattura tra l’oligarchia politico-finanziaria che determina le scelte dell’Unione europea (Ue) e un intero popolo in lotta per difendere diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia. Conosciamo il nefasto esito di quello scontro: nonostante il popolo greco si fosse nettamente pronunciato per il no all’accettazione del Memorandum, l’allora governo di sinistra guidato da Alexīs Tsipras non ebbe il coraggio, né la forza di essere conseguente e capitolò di fronte alle imposizioni dell’Ue. E l’intero Paese fu schiacciato da politiche di austerità, nonché messo letteralmente in vendita pezzo per pezzo. Nove anni dopo la presidente della Commissione europea torna sul luogo del delitto, ma questa volta per complimentarsi con l’attuale governo greco: “Sono venuta ad Atene perché la Grecia rappresenta un modello per l’Europa, che tutti i membri Ue dovrebbero imitare: è infatti l’unico fra i 27 Paesi che già dedica oltre il 2% del Pil alle spese militari. Siccome la guerra non appartiene al passato, la spesa per la difesa dev’essere il segno distintivo del futuro dell’Europa”.

In questo passaggio senza soluzione di continuità da una Grecia osteggiata per la difesa dei diritti a una Grecia osannata per gli investimenti nelle spese militari risiede la drammaticità del tempo nel quale siamo immersi.

Ma le due fasi sopra riportate sono due facce della stessa medaglia: la trappola del debito e l’economia di guerra. E costituiscono la doppia dimensione che la crisi del ciclo capitalistico basato sulla globalizzazione dei mercati cerca di imporre alle popolazioni per garantirsi la sopravvivenza.

La riproposizione delle politiche di austerità, attraverso la reintroduzione – dopo tre anni di sospensione post pandemia – del Patto di stabilità “riformato”, vuole richiudere la gabbia a qualsiasi possibilità di inversione di rotta sulla conversione ecologica e la difesa dei beni comuni, sul diritto al reddito e al lavoro, sui diritti sociali e la difesa dei servizi pubblici, a partire da sanità e istruzione.

Poco importa che il “nuovo” Patto di stabilità (per certi versi addirittura peggiorativo del precedente, in quanto indirizza all’1,5 % e non più al 3% il deficit possibile) sia considerato di fatto impraticabile, essendo già oggi ben 13 i Paesi che hanno un rapporto debito/Pil molto superiore al mitico 60% previsto dai vincoli di Maastricht.

Il Patto di stabilità non serve a garantire la stabilità finanziaria (altrimenti qualcuno dovrebbe prendere atto del fallimento, essendo il debito di tutti i Paesi notevolmente aumentato in questi decenni di austerità), serve a garantire la stabilità dei profitti dei grandi interessi finanziari, anestetizzando e/o impedendo qualsiasi rivendicazione popolare di un futuro differente. E serve a imporre la rassegnazione di fronte alla trasformazione della società verso un’economia di guerra, la costruzione della quale fa magicamente scoprire che i soldi ci sono, ma che non vi è nessuna intenzione politica a destinarli all’interesse generale.

Del resto, è un terreno arato da tempo che le recenti guerre e conflitti, che stanno scuotendo l’asse geopolitico mondiale, hanno fertilizzato come mai prima d’ora.

Secondo l’ultimo Rapporto della Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il bilancio mondiale delle spese in armamenti è salito al livello record di 2.440 miliardi di dollari e, per la prima volta, siamo di fronte a dati in crescita in tutti e cinque i continenti.

L’innalzamento delle spese è stato del 6,8% tra il 2022 e il 2023.Il più consistente dal 2009. Stati Uniti (37%) e Cina (12%) sono i Paesi che spendono di più, con un aumento rispettivamente del 6% e del 2,3%.

Secondo il Rapporto, Russia, India, Arabia Saudita e Regno Unito seguono a notevole distanza ma con un incremento medio delle spese militari pari al 7,9%, mentre la spesa in Medio Oriente è aumentata del 9% (con Israele che svetta con un +24%) raggiungendo i 200 miliardi di dollari, dato che rende quest’area del mondo la regione con la più alta spesa militare in percentuale del Pil nel mondo (4,2%).

Se volgiamo lo sguardo all’Europa, scopriamo che, nell’ultimo decennio, la Germania ha aumentato la spesa militare reale del 42%, l’Italia del 30% e la Spagna del 50% e che la spesa per armamenti nei Paesi membri della Nato ha raggiunto i 64,6 mld di euro (+270% nel decennio).

Per rimanere all’Italia, quest’anno, per la prima volta nella storia, il bilancio del ministero della Difesa supera i 29 miliardi, 10 dei quali – anche questo è un record – saranno destinati all’acquisizione diretta di armamenti. É forse utile ricordare come la somma di 10 miliardi, diversamente destinata, potrebbe garantire 140mila posti di lavoro nell’istruzione, 120mila nella sanità, 100mila nel settore ambientale.

Seguendo questi dati, lo scenario diventa chiaro: la spesa pubblica si orienta verso l’economia di guerra e i vincoli finanziari, ribaditi nel “nuovo” Patto di stabilità, servono a rendere impossibile ogni diversa destinazione delle risorse disponibili.

Non vi è alcuna possibilità di uscita, se non rivoluzionando il paradigma. Anche perché il nuovo scenario permette alle élite finanziarie di far pace con la propria, interessata, schizofrenia. È il caso della più grande banca d’affari degli Usa, JP Morgan, che solo quattro anni fa ammoniva i propri associati affermando la necessità di una drastica inversione di rotta: Sebbene non siano possibili previsioni precise, è chiaro che la Terra si trova su una traiettoria insostenibile.

Qualcosa dovrà cambiare se vogliamo la sopravvivenza della razza umana e l’intero sistema dovrà modificare la direzione allo scopo di non spingere la Terra in una situazione che non vediamo da molti milioni di anni” e oggi scrive agli stessi: “Il contesto odierno è completamente mutato: i tassi di interesse più elevati, i debiti dei governi in forte crescita e un equilibrio geopolitico messo a rischio dalla crescente tensione in Medio Oriente e tra Russia e Occidente, rendono la transizione energetica un processo che richiederà diversi decenni e l’obiettivo net zero potrà forse essere raggiunto solo tra diverse generazioni”.

Probabilmente JP Morgan sta cercando semplicemente di giustificare i propri continuativi investimenti nelle fonti fossili (101 miliardi di dollari), ma certo il quadro complessivo creato dai governi consente questa indegna ritirata.

Serve un doppio passo di radicalità rivoluzionaria, se vogliamo sostituire l’attuale economia del profitto con l’orizzonte di una società della cura.

Il primo passo consiste nella consapevolezza di come la guerra sia il massimo dell’incuria. La guerra distrugge vite, famiglie e relazioni. Devasta territori e ambiente. Sradica le esistenze delle persone, esaspera le disuguaglianze sociali, ingabbia le culture, sottrae la democrazia. Lo strumento della guerra è figlio legittimo della cultura patriarcale, quella che persegue il dominio e la sopraffazione, e rimuove ogni consapevolezza sulla fragilità dell’esistenza e sull’interdipendenza fra le persone e con l’ambiente che abitano. Opporsi alla guerra con ogni mezzo diventa quindi necessario per aprire la strada a un’alternativa di società.

Ma quest’orizzonte non potrà essere praticabile senza effettuare il secondo passo, smascherando la narrazione ideologica e artificiale costruita attorno al debito.

Una narrazione che ha l’unico scopo di fermare le rivendicazioni sociali e ambientali, dichiarandole inattuabili data la presunta necessità della stabilità dei conti finanziari. E che si prefigge non solo di governare il tempo presente delle persone, bensì di predeterminarne anche il futuro, garantendosi un’organizzazione della società modulata intorno alle scadenze previste per onorare il debito contratto, destinando a questo buona parte della propria ricchezza collettiva.

Il dilemma resta il medesimo: scegliere tra la Borsa e la vita. È giunto il tempo di scegliere, senza ulteriori indugi, la vita. Tutte e tutti insieme, la vita.


Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

da qui

La parabola dell'occidente e i nuovi Potlatch - Andrea Zhok

  

Nel quadro politico internazionale che caratterizza questa fase storica c’è un fattore che trovo estremamente preoccupante. Si tratta della combinazione, nel mondo Occidentale, di 1) un fattore strutturale e 2) un fattore culturale. Provo a tratteggiarne in modo volutamente schematico gli aspetti di fondo.


1) IL RETROTERRA STRUTTURALE. L’Occidente ha notoriamente acquisito una posizione globalmente egemonica negli ultimi tre secoli. Lo ha fatto in grazia di alcune innovazioni (europee) che gli hanno permesso di incrementare in modo decisivo la produzione industriale e la tecnologia militare.

 

Nel corso dell’800 l’Occidente ha imposto le proprie leggi, o i propri contratti, sostanzialmente a tutto il mondo. Alcune parti del mondo come il Nord-America e l’Oceania hanno
cambiato radicalmente configurazione etnica, divenendo insediamenti stabili di popolazioni di origine europea. Imperi asiatici millenari si sono trovato in condizione di protettorato, colonia o comunque di sottomissione. L’Africa è diventata un cespite cui attingere liberamente forza lavoro e materie prime.


Tutto ciò è avvenuto alla luce di un modello economico che aveva strutturalmente bisogno di crescere costantemente per mantenere la propria funzionalità, inclusa la pace interna.


La dinamicità espansiva occidentale è stata spinta in modo decisivo dal fatto che il sistema aveva bisogno di margini costanti di profitto e le imprese estere garantivano cospicui ritorni (rendendole perciò robustamente finanziabili).


Questo processo è continuato tra alti e bassi fino all’inizio del XXI secolo.


Più o meno con la crisi subprime (2007-2008) si segnala una difficoltà rilevante nel mantenere il dominio su un sistema-mondo demograficamente, politicamente, culturalmente troppo vasto. Il sistema di sviluppo occidentale, ampiamente basato sulla libera iniziativa decentrata, nella sua ricerca di margini di profitto ha commesso alcuni errori imperdonabili per un potere imperiale, quale ne frattempo era divenuto (prima come impero britannico, poi come impero americano). Siccome la sfera finanziaria presenta maggiori margini di profitto rispetto alla sfera industriale si è assistito in Occidente ad uno spostamento costante delle manifatture in paesi remoti con salari bassi. Mentre quest’operazione è riuscita in alcuni paesi con un’organizzazione interna fragile, che sono stati e rimangono dei semplici produttori sussidiari, politicamente subordinati a potenze occidentali, questo non è riuscito in alcuni paesi che offrivano per ragioni culturali maggiore resistenza, Cina in testa.

 

L’emergere di alcuni contropoteri nel mondo è oramai un dato storico incontrovertibile e inemendabile. Un Occidente che ha giocato per anni tutte le sue carte sul predominio finanziario e tecnologico si ritrova sfidato da contropoteri capaci di opporre efficace resistenza sia sul piano economico che militare. In questo senso la guerra russo-ucraina, con gli errori fatali commessi dall’Occidente, rappresenta un momento di passaggio storico: aver spinto Russia e Cina ad un’alleanza obbligata ha creato l’unico polo mondiale realmente invincibile anche per l’Occidente unificato. Gli USA erano così preoccupati di interrompere una possibile proficua collaborazione tra Europa (Germania in particolare) e Russia che hanno trascurato una collaborazione molto più potente e decisiva, quella tra Russia e Cina appunto.

 

Ma cosa accade nel momento in cui un Occidente a guida americana si trova di fronte ad un contropotere insuperabile? Molto semplicemente il modello – sperimentato nell’ultima fase sotto il nome di “globalizzazione” - basato sull’aspettativa di un’espansione incontrastata e di margini continuamente dilatabili di profitto si arresta bruscamente. Le catene di fornitura appaiono sovraestese e incontrollabili, nel momento in cui gli USA non sono più l’unico pistolero del paese. Si profila l’incubo sistemico del modello liberal-capitalistico: la perdita di un orizzonte di espansione. Senza prospettive di espansione l’intero sistema, a partire dalla sfera finanziaria, entra in una crisi senza sbocchi.

 


2) IL RETROTERRA CULTURALE


Ed è qui che subentra il secondo protagonista dello scenario corrente, ovvero il fattore culturale. La cultura elaborata negli ultimi tre secoli in Occidente è qualcosa di assai caratteristico. Si tratta di un approccio culturale universalistico, astorico, naturalistico, che – anche grazie ai successi ottenuti sul piano tecnoscientifico – ha finito per autointerpretarsi come Ultima Verità, sul piano epistemico, politico ed esistenziale. La cultura occidentale, che ha conquistato il mondo non per le capacità persuasive delle proprie virtù morali, ma per quelle dei propri obici, ha però immaginato che una cultura capace di costruire obici così efficienti non poteva che essere intrinsecamente Vera.

L’universalismo naturalistico ci ha disabituato a valutare le differenze storiche e culturali, assumendone il carattere contingente, di mero pregiudizio che verrà superato. Quest’impostazione culturale ha creato un danno devastante, che ha coinciso in Europa con la galoppante americanizzazione delle proprie grandi tradizioni: l’Occidente, divenuto il sistema di vassallaggio del potere americano, appare oggi culturalmente del tutto incapace di comprendere il proprio carattere di determinazione storica, non serenamente universalizzabile. L’Occidente, pensandosi come incarnazione del Vero (la Liberaldemocrazia, i Diritti Umani, la Scienza) non ha dunque gli strumenti culturali per pensare che un altro mondo (e anzi più d’uno) sia possibile.

 


3) IL VICOLO CIECO DELLA STORIA OCCIDENTALE

 

Ecco, se ora uniamo i due fattori, strutturale e culturale, che abbiamo menzionato ci ritroviamo con il seguente quadro: l’Occidente a guida americana non può mantenere il proprio statuto di potere, garantito dalla prospettiva dell’espansione illimitata, e d’altro canto non può neppure immaginare alcun modello alternativo, in quanto si concepisce come l’Ultima Verità.

Quest’aporia produce uno scenario epocale tragico.

L’Occidente a guida americana non è in grado di riconoscere alcun “Piano B”, e d’altro canto comprende che il “Piano A” è reso fisicamente impercorribile dall’esistenza di contropoteri innegabili. Questa situazione produce un’unica pervicace tendenza, quella a lavorare affinché quei contropoteri internazionali vengano meno.

Detto in termini semplificati: gli USA non hanno alcuna prospettiva diversa in campo da quella di ricondurre in una condizione subordinata – come fu in passato – i contropoteri euroasiatici (Russia, Cina, Iran-Persia; l’India è già sostanzialmente sotto controllo). Ma questa sottomissione oggi non può che passare attraverso un conflitto, o una guerra aperta o una sommatoria di guerre ibride volte a destabilizzare il “nemico”.

 

Ma, a questo punto, la situazione è resa particolarmente drammatica da un altro fattore strutturale. Per quanto gli USA sappiano di non poter affrontare una guerra aperta senza esclusione di colpi (nucleare), hanno un fortissimo incentivo a che la guerra non si mantenga sul piano ibrido “a basso voltaggio”. Questo per la ragione strutturale vista in precedenza: c’è bisogno di una prospettiva di incremento produttivo.

Ma come si può garantire una prospettiva di incremento produttivo in una condizione in cui l’espansione fisica non è più possibile (o è troppo incerta)? La riposta purtroppo è semplice: una prospettiva di incremento produttivo sotto queste condizioni può essere garantita solo se simultaneamente vengono create delle fornaci dove poter bruciare costantemente quanto prodotto. C’è la necessità sistemica di inventarsi dei colossali, e sanguinosi, Potlatch, che diversamente dai Potlatch dei nativi americani, non devono distruggere solo oggetti materiali, ma anche esseri umani.

 

In altri termini, l’Occidente a guida americana ha un interesse, inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche da cui far defluire il sangue, in modo che le forze produttive siano chiamate a lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino. E quali forme possono prendere queste ferite che distruggono ciclicamente, e in modo poderoso, le risorse?


Di primo acchito direi che ne vengono in mente due: guerre e pandemie.


Solo un nuovo orizzonte di sacrifici umani può consentire alla Verità Ultima dell’Occidente di rimanere in piedi, di continuare ad essere creduta e venerata.

 

E se nulla cambia nella consapevolezza diffusa delle popolazioni europee – i principali perdenti di questo gioco – credo che queste due carte distruttive saranno giocate senza scrupoli, reiteratamente.

da qui

martedì 28 maggio 2024

il futuro è Blackrock

 


IMMANUEL KANT VA IN GUERRA - Declan Hayes


Sebbene Kant sia innegabilmente tedesco come il gasdotto Nord Stream, Putin (e chiunque altro, ovunque) ha il diritto di citarlo mattina, mezzogiorno e sera.


Innanzitutto, tanto di cappello a Russia Today (e alla VPN che mi permette di accedervi) per avermi fatto sapere che il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è scagliato contro il presidente russo Vladimir Putin, colpevole, secondo lui, di aver citato l’iconico filosofo tedesco Immanuel Kant. Visto che Putin aveva citato il filosofo in occasione di un evento per il 300° anniversario della nascita di Kant, Scholz ha accusato Putin di aver cercato di “appropriarsi” del grande pensatore e di averne travisato le idee.

La storia, a prima vista, è così ridicola che ho dovuto cercare su Google per assicurarmi di non essere stato preso in giro da quel mercuriale camaleonte della NATO chiamato “disinformazione russa”. Comunque, dato che molte fonti occidentali hanno poi verificato la storia, possiamo procedere.

Die Zeit cita Scholz che, all’Accademia delle Scienze di Berlino-Brandeburgo, avrebbe detto: “Putin non ha il minimo diritto di citare Kant, eppure il regime di Putin continua ad impossessarsi di Kant e della sua opera, quasi ad ogni costo“.

Fermiamoci un attimo. Kant era nato nel 1724 a Koenigsberg (l’attuale Kaliningrad), che all’epoca apparteneva al Regno di Prussia, prima di entrare a far parte dell’Impero Russo. Il filosofo, famoso per i suoi lavori sull’etica, l’estetica e l’ontologia filosofica, è giustamente considerato uno dei pilastri della filosofia classica tedesca. Sebbene sia innegabilmente tedesco come il gasdotto Nord Stream, Putin (e chiunque altro, ovunque) ha il diritto di citarlo mattina, mezzogiorno e sera. Anche se Kant è tedesco come Tolstoj (che si considerava un filosofo e non uno scrittore) è russo, la loro genialità appartiene al mondo. Scholz, in altre parole, è libero di citare Tolstoj, quando, naturalmente, avrà imparato a leggere.

Poiché Putin aveva tenuto il suo discorso nel famoso luogo di nascita di Kant, era ovviamente del tutto appropriato che Putin citasse il grande filosofo e Scholz, se non fosse un ignorante, avrebbe dovuto sfruttarlo a suo vantaggio, invece di apparire come l’ovvio babbuino che è.

Si dà il caso che Putin abbia trascorso gran parte della sua vita lavorativa in Germania e che parli la lingua di Kant, Schiller e Goethe almeno con la stessa scioltezza di Scholz. Non solo, ma Putin ha elogiato e citato Kant per decenni ed è persino arrivato a dire che il filosofo dovrebbe diventare un simbolo ufficiale della regione di Kaliningrad. La Germania e i tedeschi come Kant hanno sempre avuto un effetto profondo e spesso benevolo sulla Russia fin da prima che Vasili III, Gran Principe di Mosca, fondasse il Quartiere Tedesco di Mosca nel XV secolo. Caterina la Grande, che in realtà era nata in Prussia, e il tedesco Putin, ammiratore di Kant, hanno portato avanti questi legami in tempi più moderni.

E, anche se Caterina la Grande, purtroppo, non è più tra noi, Putin lo è, e le sue osservazioni sul fatto che Kant sia “uno dei più grandi pensatori del suo tempo e del nostro” non solo sono degne di rispetto, ma sono anche considerazioni che leader tedeschi più colti di Scholz avrebbero sfruttato a loro vantaggio.

Scholz, che si considera una specie di filosofo da bar, non ne vuole sapere. Ritiene che il ruolo della Russia nelle aree russofone dell’Ucraina contraddica gli insegnamenti fondamentali di Kant sull’interferenza degli Stati negli affari di altre nazioni e difende la decisione di Kiev di non impegnarsi in colloqui di pace con Mosca, a meno che non siano alle condizioni di una resa incondizionata della Russia nei confronti della NATO. Scholz, senza alcun senso dell’ironia o dell’autocoscienza riguardo agli abortiti accordi di Minsk, ha detto che Kant credeva che i trattati imposti con la forza non fossero il modo per raggiungere la “pace perpetua” – un riferimento diretto a Per la pace perpetua, una delle opere principali e più influenti di Kant.

Ma Kant era un filosofo, non uno statista, e aveva scritto quella tesi nel 1795, proprio quando le guerre rivoluzionarie francesi e un certo Napoleone Bonaparte iniziavano a farsi avanti.

Grazie alla Germania, che ha rinnegato gli accordi di Minsk, che è stata complice nell’attentato al Nordstream e che armato fino ai denti il regime nazista di Kiev, altre guerre si stanno ora intensificando e, al momento in cui scriviamo, non è affatto certo che tutti noi usciremo indenni dall’Armageddon, di cui si parla sempre più spesso.

Ma le chiacchiere, come la filosofia, ci portano fino a un certo punto e non oltre. Nel bene o nel male, la Koenigsberg di Kant è ora la Kaliningrad della Russia e, a prescindere da ciò che si pensa, è evidente la saggezza di Stalin nell’aver effettuato attacchi preventivi contro la Finlandia e i bastardi Stati baltici perché, senza quegli attacchi, probabilmente la “più grande generazione tedesca” (di nazisti) avrebbe ottenuto ciò che il perfido Scholz sta cercando di fare ora, mettere in ginocchio la Russia e molto altro.

Scholz può rivendicare Kant come esclusivamente tedesco o, come è consuetudine intorno al Dnieper, rivendicarlo come proprio dell’Ucraina, per quel che importa. Ma ciò che non può e non deve fare è incoraggiare il regime nazista in Estonia ad attaccare i monasteri cristiani ortodossi solo perché non vogliono rompere con il Patriarcato di Mosca. E, se Scholz vuole fare la figura del Kant, dovrebbe rinfrescarsi la memoria su ciò che sia Kant che Mendelssohn avevano da dire sul tipo di oppressione religiosa che vediamo praticare dagli Stati estoni, ucraini e simili nei confronti dei Cristiani ortodossi.

Ma veniamo al dunque. Scholz e gli americani a cui deve rispondere non hanno alcun interesse per Kant, Mendelssohn o qualsiasi altro filosofo tedesco o di altro genere degno di nota. Se Putin si riferisce con favore a Kant, Mendelssohn, Goethe, Schiller o a qualsiasi altro tedesco universalmente ammirato di un tempo, allora dovrebbe essere affrontato su questo piano nello spirito dell’Inno alla gioia di Schiller, che si riflette nella Nona di Beethoven (il tedesco) e, in modo appropriato forse per quanto riguarda Scholz, negli inni razzisti della Rhodesia e dell’Europa, entrambi i quali infangano Schiller, Beethoven e tutte le cose buone della Germania.

Se gli occidentali vogliono citare Pushkin, Dostoevskij, Tolstoj o qualsiasi altro grande russo per prendersela con Putin, beh, allora dovrebbero, come dicono gli americani, darci dentro. Ma l’impegno non sembra più essere il loro forte. Sono finiti i giorni in cui il più grande dei tedeschi (e degli europei), Leibniz, dava risalto  alla corte di Pietro il Grande, ora sono arrivati i pagliacci come Zelensky, che ballano come una Salomè da poco prezzo per eccitare, a pagamento, Scholz e la sua congrega di incolti.

Chiamatemi pure all’antica, ma preferirei che Putin e tutti gli altri leggessero i grandi della Germania, piuttosto che avere dei tedeschi imbarazzanti come Scholz e quell’insopportabile parassita della von der Leyen, che non solo trascinano nel fango quella che era stata una grande nazione, ma la affogano nella loro ignoranza e nella loro miopia.

da qui