La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
venerdì 31 maggio 2024
Il nazismo non è mai tramontato
di Francesco Masala
L’illusione della libertà continuerà fino a che è vantaggioso che continui. Nel momento in cui la libertà diventerà troppo costosa, tireranno giù la scenografia e il sipario, toglieranno i tavolini e le sedie e potrai vedere il muro di mattoni in fondo al teatro. (Frank Zappa)
Nel romanzo La svastica sul sole, a volte intitolato L’uomo nell’alto castello, Philip K. Dick racconta di un mondo nel quale, alla fine della seconda guerra mondiale, i vincitori sono stati i nazisti (qui e qui se ne parla in bottega, qui una recensione); un romanzo distopico, dicono alcuni, in realtà oggi si può leggere come un romanzo d’anticipazione.
I nazisti non se ne sono mai andati, non si sono estinti, sono in ottima salute.
E godono di ottima stampa, quanto sono simpatici i nazisti del battaglione Azov che leggono Kant, mentre “Il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è scagliato contro il presidente russo Vladimir Putin, colpevole, secondo lui, di aver citato l’iconico filosofo tedesco Immanuel Kant”, scrive qui Declan Hayes.
Il 22 settembre del 2023 il Parlamento canadese ha celebrato Yaroslav Hunka, un combattente contro i russi, durante la seconda guerra mondiale (qui).
Tutti sanno che un combattente contro i russi, durante la seconda guerra mondiale, poteva essere solo un nazista.
Il nazismo non è mai tramontato
Da secoli la Gran Bretagna (e non solo) cerca di invadere la Russia, adesso per mezzo dell’Ucraina, fino all’ultimo ucraino, dicono a Londra (e a Washington).
Anche nei tre paesi baltici (i paesi chihuhua, li chiamano) non mancano quelli che vogliono invadere la Russia.
Durante la seconda guerra mondiale ci provò attraverso l’esercito nazista (un altro proxy degli anglosassoni?).
Adesso il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, senza vergogna, apre all’Europa nazista (qui)
Lo storico Ariel Umpierrez ricorda un po’ di cose poco conosciute.
Per esempio si può scoprire che bastarono qualche centinaio di migliaia di soldati Usa per sedersi al tavolo dei vincitori (fra soldati e civili in Unione Sovietica morirono fra 25 e 27 milioni durante la seconda guerra mondiale).
Il ritardo ad intervenire in guerra da parte di inglesi e Usa fu dovuto all’attesa della sconfitta sovietica?
I sovietici sconfissero i nazisti da soli.
È interessante ascoltare ¿Quién ganó la Segunda Guerra Mundial? La version de Hollywood (QUI)
Il fascismo e il nazismo sono uno strumento dell’Occidente collettivo.
Tutto parte dal Colonialismo, il peccato originale dell’Occidente collettivo.
Il Colonialismo, l’Imperialismo, il Suprematismo bianco usano il razzismo, il fascismo e il nazismo per portare avanti i disegni malati di un Occidente collettivo (che speriamo tiri le cuoia in fretta), fascismo e nazismo non sono corpi estranei, ma ben integrati, al bisogno.
Quando vediamo le foto dei presidenti dei paesi della Nato, tutti d’accordo come un sol burattino, neonazisti nell’anima, in un coro diretto dalla CIA, per distruggere con un genocidio la Palestina e per distruggere con una guerra la Russia, sembra di vedere quella conferenza di Berlino, del 1884, quando quei pochi e maledetti vampiri si dividevano il mondo.
Ma il mondo è cambiato, adesso molti resistono, per fortuna ci sono la Russia e la Cina, e i Brics.
QUI la sintesi delle guerre degli Usa, per la democrazia e la pace, naturalmente, fra il 1775 e il 2020.
Qui o qui si può leggere qualcosa sul ruolo della CIA nella nascita dell’Unione Europea.
Le porte girevoli
Chissà come s’incazzerebbero De Gaulle e Pertini sapendo che Pompidou e Macron (tra gli altri) sono stati dirigenti della Banca Rothschild, e Draghi e Sunak sono stati (tra gli altri) dirigenti di Goldman Sachs.
giovedì 30 maggio 2024
La commedia del lavoro – Tersite Rossi
Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche
Prima puntata di due
“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la
commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa
assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca
danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse
nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io,
nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di
lavorare.
Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un
ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo
che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a
nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne
stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare
significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente
inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la
facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.
Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di
navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo
ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire
cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a
quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente
rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso
ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo
dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla
paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà
bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e
psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o
meglio un insieme di macchine.
Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di
Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire
dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto.
Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard
ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con
l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare
con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li
rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e
prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non
dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di
lavoro”.
In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi,
e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo
ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi
disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere,
che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto
il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le
mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per
nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il
fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva
tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi
nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora
avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo
licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito
dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona
parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose
spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano
quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella
spiegazione e continuai il mio giro.
Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè,
chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in
realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e
sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a
tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti,
perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e
quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale
dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si
ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì,
Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo,
mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla,
così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il
caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così
tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar
come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa
dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente
inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è
il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine
anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare
davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa
la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano
cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto
quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era
distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col
caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era
una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere
il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.
Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo
storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca
completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai.
Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che
non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del
lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì,
il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il
libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione
di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva
sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano
ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La
gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo
silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro
non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai
leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il
bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario,
scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le
capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling
le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il
bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e
il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati,
così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente.
Lo ringraziai e uscii.
https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1
La commedia del
lavoro (2)
Seconda e ultima puntata
Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi
del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai,
intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di
lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio
che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a
bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato
era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era
finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare
tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la
conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si
tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a
essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile,
disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato
ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di
una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano
alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano
alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era
bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano
costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella
città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito
di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate
di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di
aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale,
un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui
sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti
di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di
lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e
irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse,
danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.
Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno
dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti,
trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai,
e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e
cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il
cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o
peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto
Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora
lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era
un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per
dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel
dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il
sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per
così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in
quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di
quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre
che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse
nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in
un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il
dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo
devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in
un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il
dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo
aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava
guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il
dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese,
semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo
vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo
ringraziai e me ne andai.
Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun
lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di
lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo
dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la
verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti
era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse
che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto
offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello,
ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica
all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi,
producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino.
Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti
mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza
eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni,
disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non
lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non
stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce
cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della
vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il
fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o
meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto
incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un
effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo
cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così
il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il
mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del
tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non
serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo
tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna
che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora
tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà
in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa
finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a
tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei
passi.
Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e
dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato,
ricominciai a fingere di lavorare.
Le frasi
di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di
Andreina Lavagetto).
mercoledì 29 maggio 2024
Il debito di guerra - Marco Bersani
Se qualcuno volesse comprendere la cifra profonda del tempo che stiamo
attraversando, potrebbe affidarsi al discorso di apertura della campagna
elettorale per le elezioni europee, tenuto ad Atene dalla presidente della
Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel febbraio 2024.
La Grecia è il luogo dove nel 2015 si è
consumata la peggiore frattura tra l’oligarchia politico-finanziaria che
determina le scelte dell’Unione europea (Ue) e un intero popolo in lotta per
difendere diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia. Conosciamo il
nefasto esito di quello scontro: nonostante il popolo greco si fosse nettamente
pronunciato per il no all’accettazione del Memorandum, l’allora
governo di sinistra guidato da Alexīs Tsipras non ebbe il coraggio, né la forza
di essere conseguente e capitolò di fronte alle imposizioni dell’Ue. E l’intero
Paese fu schiacciato da politiche di austerità, nonché messo letteralmente in
vendita pezzo per pezzo. Nove anni dopo la presidente della Commissione
europea torna sul luogo del delitto, ma questa volta per complimentarsi con
l’attuale governo greco: “Sono venuta ad Atene perché la Grecia
rappresenta un modello per l’Europa, che tutti i membri Ue dovrebbero
imitare: è infatti l’unico fra i 27 Paesi che già dedica oltre il 2%
del Pil alle spese militari. Siccome la guerra non appartiene al passato,
la spesa per la difesa dev’essere il segno distintivo del futuro dell’Europa”.
In questo passaggio senza soluzione di continuità da una Grecia osteggiata
per la difesa dei diritti a una Grecia osannata per gli investimenti nelle
spese militari risiede la drammaticità del tempo nel quale siamo immersi.
Ma le due fasi sopra riportate sono due facce della stessa
medaglia: la trappola del debito e l’economia di guerra. E costituiscono la
doppia dimensione che la crisi del ciclo capitalistico basato sulla
globalizzazione dei mercati cerca di imporre alle popolazioni per garantirsi la
sopravvivenza.
La riproposizione delle politiche di austerità, attraverso la
reintroduzione – dopo tre anni di sospensione post pandemia – del Patto di
stabilità “riformato”, vuole richiudere la gabbia a qualsiasi possibilità di
inversione di rotta sulla conversione ecologica e la difesa dei beni comuni,
sul diritto al reddito e al lavoro, sui diritti sociali e la difesa dei servizi
pubblici, a partire da sanità e istruzione.
Poco importa che il “nuovo” Patto di stabilità (per certi versi addirittura
peggiorativo del precedente, in quanto indirizza all’1,5 % e non più al 3% il
deficit possibile) sia considerato di fatto impraticabile, essendo già oggi ben
13 i Paesi che hanno un rapporto debito/Pil molto superiore al mitico 60%
previsto dai vincoli di Maastricht.
Il Patto di stabilità non serve a garantire la stabilità finanziaria (altrimenti
qualcuno dovrebbe prendere atto del fallimento, essendo il debito di tutti i
Paesi notevolmente aumentato in questi decenni di austerità), serve a garantire
la stabilità dei profitti dei grandi interessi finanziari, anestetizzando e/o
impedendo qualsiasi rivendicazione popolare di un futuro differente. E serve
a imporre la rassegnazione di fronte alla trasformazione della società verso
un’economia di guerra, la costruzione della quale fa magicamente scoprire
che i soldi ci sono, ma che non vi è nessuna intenzione politica a destinarli
all’interesse generale.
Del resto, è un terreno arato da tempo che le recenti guerre e conflitti,
che stanno scuotendo l’asse geopolitico mondiale, hanno fertilizzato come mai
prima d’ora.
Secondo l’ultimo Rapporto della Stockholm International Peace Research
Institute (Sipri), il bilancio mondiale delle spese in armamenti è
salito al livello record di 2.440 miliardi di dollari e, per la prima volta,
siamo di fronte a dati in crescita in tutti e cinque i continenti.
L’innalzamento delle spese è stato del 6,8% tra il 2022 e il 2023.Il più
consistente dal 2009. Stati Uniti (37%) e Cina (12%) sono i Paesi che spendono
di più, con un aumento rispettivamente del 6% e del 2,3%.
Secondo il Rapporto, Russia, India, Arabia Saudita e Regno Unito seguono a
notevole distanza ma con un incremento medio delle spese militari pari al 7,9%,
mentre la spesa in Medio Oriente è aumentata del 9% (con Israele che svetta con
un +24%) raggiungendo i 200 miliardi di dollari, dato che rende quest’area del
mondo la regione con la più alta spesa militare in percentuale del Pil nel
mondo (4,2%).
Se volgiamo lo sguardo all’Europa, scopriamo che, nell’ultimo
decennio, la Germania ha aumentato la spesa militare reale del 42%, l’Italia
del 30% e la Spagna del 50% e che la spesa per armamenti nei Paesi
membri della Nato ha raggiunto i 64,6 mld di euro (+270% nel decennio).
Per rimanere all’Italia, quest’anno, per la prima volta nella storia, il
bilancio del ministero della Difesa supera i 29 miliardi, 10 dei quali – anche
questo è un record – saranno destinati all’acquisizione diretta di armamenti. É forse utile
ricordare come la somma di 10 miliardi, diversamente destinata, potrebbe
garantire 140mila posti di lavoro nell’istruzione, 120mila nella sanità, 100mila
nel settore ambientale.
Seguendo questi dati, lo scenario diventa chiaro: la spesa pubblica si
orienta verso l’economia di guerra e i vincoli finanziari, ribaditi nel “nuovo”
Patto di stabilità, servono a rendere impossibile ogni diversa destinazione
delle risorse disponibili.
Non vi è alcuna possibilità di uscita, se non rivoluzionando il paradigma.
Anche perché il nuovo scenario permette alle élite finanziarie
di far pace con la propria, interessata, schizofrenia. È il caso della più
grande banca d’affari degli Usa, JP Morgan, che solo quattro anni fa ammoniva i
propri associati affermando la necessità di una drastica inversione di
rotta: “Sebbene non siano possibili previsioni precise, è chiaro
che la Terra si trova su una traiettoria insostenibile.
Qualcosa dovrà cambiare se vogliamo la sopravvivenza della razza umana e
l’intero sistema dovrà modificare la direzione allo scopo di non spingere la
Terra in una situazione che non vediamo da molti milioni di anni” e oggi scrive
agli stessi: “Il contesto odierno è completamente mutato: i tassi di interesse
più elevati, i debiti dei governi in forte crescita e un equilibrio geopolitico
messo a rischio dalla crescente tensione in Medio Oriente e tra Russia e
Occidente, rendono la transizione energetica un processo che richiederà diversi
decenni e l’obiettivo net zero potrà forse essere raggiunto
solo tra diverse generazioni”.
Probabilmente JP Morgan sta cercando semplicemente di giustificare i propri
continuativi investimenti nelle fonti fossili (101 miliardi di dollari), ma
certo il quadro complessivo creato dai governi consente questa indegna
ritirata.
Serve un doppio passo di radicalità rivoluzionaria, se vogliamo sostituire
l’attuale economia del profitto con l’orizzonte di una società della cura.
Il primo passo consiste nella consapevolezza di come la guerra sia il massimo
dell’incuria. La guerra distrugge vite, famiglie e relazioni. Devasta territori
e ambiente. Sradica le esistenze delle persone, esaspera le disuguaglianze
sociali, ingabbia le culture, sottrae la democrazia. Lo strumento della guerra
è figlio legittimo della cultura patriarcale, quella che persegue il dominio e
la sopraffazione, e rimuove ogni consapevolezza sulla fragilità dell’esistenza
e sull’interdipendenza fra le persone e con l’ambiente che abitano. Opporsi
alla guerra con ogni mezzo diventa quindi necessario per aprire la strada a
un’alternativa di società.
Ma quest’orizzonte non potrà essere praticabile senza effettuare il
secondo passo, smascherando la narrazione ideologica e artificiale
costruita attorno al debito.
Una narrazione che ha l’unico scopo di fermare le rivendicazioni sociali e
ambientali, dichiarandole inattuabili data la presunta necessità della
stabilità dei conti finanziari. E che si prefigge non solo di governare il
tempo presente delle persone, bensì di predeterminarne anche il futuro,
garantendosi un’organizzazione della società modulata intorno alle scadenze
previste per onorare il debito contratto, destinando a questo buona parte della
propria ricchezza collettiva.
Il dilemma resta il medesimo: scegliere tra la Borsa e la vita. È giunto il
tempo di scegliere, senza ulteriori indugi, la vita. Tutte e tutti insieme, la
vita.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato
in pace“
La parabola dell'occidente e i nuovi Potlatch - Andrea Zhok
Nel quadro politico internazionale che caratterizza questa fase storica c’è
un fattore che trovo estremamente preoccupante. Si tratta della combinazione,
nel mondo Occidentale, di 1) un fattore strutturale e 2) un fattore culturale.
Provo a tratteggiarne in modo volutamente schematico gli aspetti di fondo.
1) IL RETROTERRA STRUTTURALE. L’Occidente ha notoriamente
acquisito una posizione globalmente egemonica negli ultimi tre secoli. Lo ha
fatto in grazia di alcune innovazioni (europee) che gli hanno permesso di
incrementare in modo decisivo la produzione industriale e la tecnologia
militare.
Nel corso dell’800 l’Occidente ha imposto le proprie leggi, o i propri contratti,
sostanzialmente a tutto il mondo. Alcune parti del mondo come il Nord-America e
l’Oceania hanno
cambiato radicalmente configurazione etnica, divenendo insediamenti stabili di
popolazioni di origine europea. Imperi asiatici millenari si sono trovato in
condizione di protettorato, colonia o comunque di sottomissione. L’Africa è
diventata un cespite cui attingere liberamente forza lavoro e materie prime.
Tutto ciò è avvenuto alla luce di un modello economico che aveva
strutturalmente bisogno di crescere costantemente per mantenere la propria
funzionalità, inclusa la pace interna.
La dinamicità espansiva occidentale è stata spinta in modo decisivo dal fatto
che il sistema aveva bisogno di margini costanti di profitto e le imprese
estere garantivano cospicui ritorni (rendendole perciò robustamente
finanziabili).
Questo processo è continuato tra alti e bassi fino all’inizio del XXI secolo.
Più o meno con la crisi subprime (2007-2008) si segnala una difficoltà
rilevante nel mantenere il dominio su un sistema-mondo demograficamente,
politicamente, culturalmente troppo vasto. Il sistema di sviluppo occidentale,
ampiamente basato sulla libera iniziativa decentrata, nella sua ricerca di
margini di profitto ha commesso alcuni errori imperdonabili per un potere
imperiale, quale ne frattempo era divenuto (prima come impero britannico, poi
come impero americano). Siccome la sfera finanziaria presenta maggiori margini
di profitto rispetto alla sfera industriale si è assistito in Occidente ad uno
spostamento costante delle manifatture in paesi remoti con salari bassi. Mentre
quest’operazione è riuscita in alcuni paesi con un’organizzazione interna
fragile, che sono stati e rimangono dei semplici produttori sussidiari,
politicamente subordinati a potenze occidentali, questo non è riuscito in
alcuni paesi che offrivano per ragioni culturali maggiore resistenza, Cina in
testa.
L’emergere di alcuni contropoteri nel mondo è oramai un dato storico
incontrovertibile e inemendabile. Un Occidente che ha giocato per anni tutte le
sue carte sul predominio finanziario e tecnologico si ritrova sfidato da
contropoteri capaci di opporre efficace resistenza sia sul piano economico che
militare. In questo senso la guerra russo-ucraina, con gli errori fatali
commessi dall’Occidente, rappresenta un momento di passaggio storico: aver
spinto Russia e Cina ad un’alleanza obbligata ha creato l’unico polo mondiale
realmente invincibile anche per l’Occidente unificato. Gli USA erano così
preoccupati di interrompere una possibile proficua collaborazione tra Europa
(Germania in particolare) e Russia che hanno trascurato una collaborazione
molto più potente e decisiva, quella tra Russia e Cina appunto.
Ma cosa accade nel momento in cui un Occidente a guida americana si trova
di fronte ad un contropotere insuperabile? Molto semplicemente il modello –
sperimentato nell’ultima fase sotto il nome di “globalizzazione” - basato
sull’aspettativa di un’espansione incontrastata e di margini continuamente
dilatabili di profitto si arresta bruscamente. Le catene di fornitura appaiono
sovraestese e incontrollabili, nel momento in cui gli USA non sono più l’unico
pistolero del paese. Si profila l’incubo sistemico del modello
liberal-capitalistico: la perdita di un orizzonte di espansione. Senza
prospettive di espansione l’intero sistema, a partire dalla sfera finanziaria,
entra in una crisi senza sbocchi.
2) IL RETROTERRA CULTURALE
Ed è qui che subentra il secondo protagonista dello scenario corrente, ovvero
il fattore culturale. La cultura elaborata negli ultimi tre secoli in Occidente
è qualcosa di assai caratteristico. Si tratta di un approccio culturale
universalistico, astorico, naturalistico, che – anche grazie ai successi
ottenuti sul piano tecnoscientifico – ha finito per autointerpretarsi come
Ultima Verità, sul piano epistemico, politico ed esistenziale. La cultura
occidentale, che ha conquistato il mondo non per le capacità persuasive delle
proprie virtù morali, ma per quelle dei propri obici, ha però immaginato che
una cultura capace di costruire obici così efficienti non poteva che essere
intrinsecamente Vera.
L’universalismo naturalistico ci ha disabituato a valutare le differenze
storiche e culturali, assumendone il carattere contingente, di mero pregiudizio
che verrà superato. Quest’impostazione culturale ha creato un danno devastante,
che ha coinciso in Europa con la galoppante americanizzazione delle proprie
grandi tradizioni: l’Occidente, divenuto il sistema di vassallaggio del potere
americano, appare oggi culturalmente del tutto incapace di comprendere il
proprio carattere di determinazione storica, non serenamente universalizzabile.
L’Occidente, pensandosi come incarnazione del Vero (la Liberaldemocrazia, i
Diritti Umani, la Scienza) non ha dunque gli strumenti culturali per pensare
che un altro mondo (e anzi più d’uno) sia possibile.
3) IL VICOLO CIECO DELLA STORIA OCCIDENTALE
Ecco, se ora uniamo i due fattori, strutturale e culturale, che abbiamo
menzionato ci ritroviamo con il seguente quadro: l’Occidente a guida americana
non può mantenere il proprio statuto di potere, garantito dalla prospettiva
dell’espansione illimitata, e d’altro canto non può neppure immaginare alcun
modello alternativo, in quanto si concepisce come l’Ultima Verità.
Quest’aporia produce uno scenario epocale tragico.
L’Occidente a guida americana non è in grado di riconoscere alcun “Piano
B”, e d’altro canto comprende che il “Piano A” è reso fisicamente
impercorribile dall’esistenza di contropoteri innegabili. Questa situazione
produce un’unica pervicace tendenza, quella a lavorare affinché quei
contropoteri internazionali vengano meno.
Detto in termini semplificati: gli USA non hanno alcuna prospettiva diversa
in campo da quella di ricondurre in una condizione subordinata – come fu in
passato – i contropoteri euroasiatici (Russia, Cina, Iran-Persia; l’India è già
sostanzialmente sotto controllo). Ma questa sottomissione oggi non può che
passare attraverso un conflitto, o una guerra aperta o una sommatoria di guerre
ibride volte a destabilizzare il “nemico”.
Ma, a questo punto, la situazione è resa particolarmente drammatica da un
altro fattore strutturale. Per quanto gli USA sappiano di non poter affrontare
una guerra aperta senza esclusione di colpi (nucleare), hanno un fortissimo
incentivo a che la guerra non si mantenga sul piano ibrido “a basso voltaggio”.
Questo per la ragione strutturale vista in precedenza: c’è bisogno di una
prospettiva di incremento produttivo.
Ma come si può garantire una prospettiva di incremento produttivo in una
condizione in cui l’espansione fisica non è più possibile (o è troppo incerta)?
La riposta purtroppo è semplice: una prospettiva di incremento produttivo sotto
queste condizioni può essere garantita solo se simultaneamente vengono create
delle fornaci dove poter bruciare costantemente quanto prodotto. C’è la
necessità sistemica di inventarsi dei colossali, e sanguinosi, Potlatch, che
diversamente dai Potlatch dei nativi americani, non devono distruggere solo
oggetti materiali, ma anche esseri umani.
In altri termini, l’Occidente a guida americana ha un interesse,
inconfessabile ma imperativo, a creare in modo crescente ferite sistemiche da
cui far defluire il sangue, in modo che le forze produttive siano chiamate a
lavorare a pieno ritmo e i margini di profitto si vitalizzino. E quali forme
possono prendere queste ferite che distruggono ciclicamente, e in modo
poderoso, le risorse?
Di primo acchito direi che ne vengono in mente due: guerre e pandemie.
Solo un nuovo orizzonte di sacrifici umani può consentire alla Verità Ultima
dell’Occidente di rimanere in piedi, di continuare ad essere creduta e
venerata.
E se nulla cambia nella consapevolezza diffusa delle popolazioni europee –
i principali perdenti di questo gioco – credo che queste due carte distruttive
saranno giocate senza scrupoli, reiteratamente.
martedì 28 maggio 2024
IMMANUEL KANT VA IN GUERRA - Declan Hayes
Sebbene Kant sia innegabilmente tedesco come il gasdotto Nord Stream, Putin (e chiunque altro, ovunque) ha il diritto di citarlo mattina, mezzogiorno e sera.
Innanzitutto, tanto di cappello a Russia Today (e
alla VPN che mi permette di accedervi) per avermi fatto sapere che il
cancelliere tedesco Olaf Scholz si è scagliato contro il presidente russo
Vladimir Putin, colpevole, secondo lui, di aver citato l’iconico filosofo
tedesco Immanuel Kant. Visto che Putin aveva citato il filosofo in occasione di
un evento per il 300° anniversario della nascita di Kant, Scholz ha accusato
Putin di aver cercato di “appropriarsi” del grande pensatore e di averne
travisato le idee.
La storia, a prima vista, è così ridicola che ho dovuto cercare su Google per assicurarmi di non
essere stato preso in giro da quel mercuriale camaleonte della NATO chiamato
“disinformazione russa”. Comunque, dato che molte fonti occidentali hanno poi
verificato la storia, possiamo procedere.
Die Zeit cita Scholz che, all’Accademia delle Scienze di
Berlino-Brandeburgo, avrebbe detto: “Putin
non ha il minimo diritto di citare Kant, eppure il regime di Putin continua ad
impossessarsi di Kant e della sua opera, quasi ad ogni costo“.
Fermiamoci un attimo. Kant era nato nel 1724 a Koenigsberg
(l’attuale Kaliningrad), che all’epoca apparteneva al Regno di Prussia, prima
di entrare a far parte dell’Impero Russo. Il filosofo, famoso per i suoi lavori
sull’etica, l’estetica e l’ontologia filosofica, è giustamente considerato uno
dei pilastri della filosofia classica tedesca. Sebbene sia innegabilmente
tedesco come il gasdotto Nord Stream, Putin (e chiunque altro, ovunque) ha il
diritto di citarlo mattina, mezzogiorno e sera. Anche se Kant è tedesco come
Tolstoj (che si considerava un filosofo e non uno scrittore) è russo, la loro
genialità appartiene al mondo. Scholz, in altre parole, è libero di citare
Tolstoj, quando, naturalmente, avrà imparato a leggere.
Poiché Putin aveva tenuto il suo discorso nel famoso
luogo di nascita di Kant, era ovviamente del tutto appropriato che Putin
citasse il grande filosofo e Scholz, se non fosse un ignorante, avrebbe dovuto
sfruttarlo a suo vantaggio, invece di apparire come l’ovvio babbuino che è.
Si dà il caso che Putin abbia trascorso gran parte della
sua vita lavorativa in Germania e che parli la lingua di Kant, Schiller e
Goethe almeno con la stessa scioltezza di Scholz. Non solo, ma Putin ha
elogiato e citato Kant per decenni ed è persino arrivato a dire che il filosofo
dovrebbe diventare un simbolo ufficiale della regione di Kaliningrad. La
Germania e i tedeschi come Kant hanno sempre avuto un effetto profondo e spesso
benevolo sulla Russia fin da prima che Vasili III, Gran Principe di Mosca,
fondasse il Quartiere Tedesco di Mosca nel XV secolo. Caterina
la Grande, che in realtà era nata in Prussia, e il tedesco Putin,
ammiratore di Kant, hanno portato avanti questi legami in tempi più moderni.
E, anche se Caterina la Grande, purtroppo, non è più tra
noi, Putin lo è, e le sue osservazioni sul fatto che Kant sia “uno dei più
grandi pensatori del suo tempo e del nostro” non solo sono degne di rispetto,
ma sono anche considerazioni che leader tedeschi più colti di Scholz avrebbero
sfruttato a loro vantaggio.
Scholz, che si considera una specie di filosofo da bar,
non ne vuole sapere. Ritiene che il ruolo della Russia nelle aree russofone
dell’Ucraina contraddica gli insegnamenti fondamentali di Kant
sull’interferenza degli Stati negli affari di altre nazioni e difende la
decisione di Kiev di non impegnarsi in colloqui di pace con Mosca, a meno che
non siano alle condizioni di una resa incondizionata della Russia nei confronti
della NATO. Scholz, senza alcun senso dell’ironia o dell’autocoscienza riguardo
agli abortiti accordi di Minsk, ha detto che Kant credeva che i trattati
imposti con la forza non fossero il modo per raggiungere la “pace perpetua” –
un riferimento diretto a Per la pace
perpetua, una delle opere principali e più influenti di Kant.
Ma Kant era un filosofo, non uno statista, e aveva
scritto quella tesi nel 1795, proprio quando le guerre
rivoluzionarie francesi e un certo Napoleone Bonaparte iniziavano a
farsi avanti.
Grazie alla Germania, che ha rinnegato gli accordi di
Minsk, che è stata complice nell’attentato al Nordstream e che armato fino ai
denti il regime nazista di Kiev, altre guerre si stanno ora intensificando e,
al momento in cui scriviamo, non è affatto certo che tutti noi usciremo indenni
dall’Armageddon, di cui si parla sempre più spesso.
Ma le chiacchiere, come la filosofia, ci portano fino a
un certo punto e non oltre. Nel bene o nel male, la Koenigsberg di Kant è ora
la Kaliningrad della Russia e, a prescindere da ciò che si pensa, è evidente la
saggezza di Stalin nell’aver effettuato attacchi preventivi contro la Finlandia
e i bastardi Stati baltici perché, senza quegli attacchi, probabilmente la “più
grande generazione tedesca” (di nazisti) avrebbe ottenuto ciò che il
perfido Scholz sta cercando di fare ora, mettere in ginocchio la Russia e molto
altro.
Scholz può rivendicare Kant come esclusivamente tedesco
o, come è consuetudine intorno al Dnieper, rivendicarlo come proprio
dell’Ucraina, per quel che importa. Ma ciò che non può e non deve fare è
incoraggiare il regime nazista in Estonia ad attaccare i monasteri cristiani
ortodossi solo perché non vogliono rompere con il Patriarcato di Mosca. E, se
Scholz vuole fare la figura del Kant, dovrebbe rinfrescarsi la memoria su ciò
che sia Kant che Mendelssohn avevano da dire
sul tipo di oppressione religiosa che vediamo praticare dagli Stati estoni,
ucraini e simili nei confronti dei Cristiani ortodossi.
Ma veniamo al dunque. Scholz e gli americani a cui deve
rispondere non hanno alcun interesse per Kant, Mendelssohn o qualsiasi altro filosofo
tedesco o di altro genere degno di nota. Se Putin si riferisce con favore a
Kant, Mendelssohn, Goethe, Schiller o a qualsiasi
altro tedesco universalmente ammirato di un tempo, allora dovrebbe essere
affrontato su questo piano nello spirito dell’Inno
alla gioia di Schiller, che si riflette nella Nona
di Beethoven (il tedesco) e, in modo appropriato forse per quanto
riguarda Scholz, negli inni
razzisti della Rhodesia e dell’Europa, entrambi i quali infangano
Schiller, Beethoven e tutte le cose buone della Germania.
Se gli occidentali vogliono citare Pushkin, Dostoevskij,
Tolstoj o qualsiasi altro grande russo per prendersela con Putin, beh, allora
dovrebbero, come dicono gli americani, darci dentro. Ma l’impegno non sembra
più essere il loro forte. Sono finiti i giorni in cui il più grande dei
tedeschi (e degli europei), Leibniz, dava risalto alla corte di Pietro il Grande, ora sono
arrivati i pagliacci come Zelensky, che ballano come una Salomè da poco prezzo
per eccitare, a pagamento, Scholz e la sua congrega di incolti.
Chiamatemi pure all’antica, ma preferirei che Putin e
tutti gli altri leggessero i grandi della Germania, piuttosto che avere dei
tedeschi imbarazzanti come Scholz e quell’insopportabile parassita della von
der Leyen, che non solo trascinano nel fango quella che era stata una grande
nazione, ma la affogano nella loro ignoranza e nella loro miopia.