martedì 31 dicembre 2024

Elogio della neotenia - Giuseppe Bagni

 

Con l’intelligenza artificiale tra qualche anno i professori spariranno? In realtà dimentichiamo che l’IA sa quasi tutto ma sa solo quello che si è accumulato negli anni, per questo è in grado di suggerire a grandi velocità soltanto le strade più probabili. Molti animali nascono più o meno come l’intelligenza artificiale, già grandi, il cervello umano impiega invece una ventina di anni per svilupparsi. Insomma non siamo pronti alla vita, abbiamo bisogno di cure, di imparare dagli altri grazie al linguaggio, di sperimentare creatività per risolvere i problemi che incontriamo. Siamo programmati al cambiamento. In biologia, la proprietà di alcune specie animali di tendere verso il nuovo si chiama neotenia. In classe, a volte si aprono brillanti discussioni di intelligenza collettiva più che di intelligenza artificiale

 

Cara Gessica, anche oggi hai sbagliato a non venire a scuola. Il prof ci ha fatto un discorso strano, all’inizio nessuno capiva di cosa stesse parlando, ma poi alla fine c’è piaciuto a tutti.

Allora, parto dall’inizio. Alberto, lo sai che vuol sempre farsi notare, ha detto al prof che tra un paio d’anni con l’intelligenza artificiale i professori spariranno dalla faccia della terra, ci sarà solo un computer perché l’IA – lui per fare il ganzo l’ha detto in inglese: “ei ai”, che noi si credeva si fosse fatto male! – perché sa già tutto e basterà lei per imparare. Il prof ha sorriso e ha detto che è vero che l’intelligenza artificiale sa quasi tutto, che sarà utilissima, ma sa solo quello che si è accumulato negli anni. Conosce il passato, forse potrà arrivare a conoscerlo tutto, una cosa impossibile per un singolo essere umano, per questo le scelte che ci propone di fare saranno certamente le più probabili di successo. È come un animale che nasce già “saputo”, cioè che già da cucciolo ha in memoria già tutto. Nasce grande mentre noi nasciamo piccoli, eppure è il nostro vantaggio.

Alberto gli ha chiesto: “Perché prof? Nascere “saputi” è un grande vantaggio, così non devi faticare a imparare!”.

“Voi ovviamente non sapete cos’è la “neotenia”, vero?” ci ha chiesto. “Io penso che venga dal dialetto leccese perché mia nonna viene da lì e ogni tanto racconta che quando era ragazza di soldi “nulla tenìa” per dire che erano poveri in canna” ha detto Michela.

Il prof ha fatto una bella risata, poi “No ragazzi, è una parola della biologia che viene dal greco e mette insieme le parole “nuovo” e “tendo”. Capite ora? Si riferisce alla proprietà di alcune specie animali di tendere verso il nuovo”. Poi ha continuato: “Molti animali nascono più o meno come l’intelligenza artificiale, già grandi. Per esempio il cucciolo di ragno appena nato sa fare la sua ragnatela; il puledro si alza immediatamente sulle quattro zampe e sa muoversi da solo”. “Vale a dire che la natura ha fornito gli animali di comportamenti innati e pure di istinti che permettono loro di adattarsi immediatamente all’ambiente dove vivono per soddisfare i loro bisogni. Ecco perché appena nati non serve loro molto tempo per imparare. Sanno già tutto quello che serve loro sapere”.

“E noi no prof? Siamo i più coglioni tra gli animali, che appena si nasce non siamo buoni a fare nulla da soli?” mi è scappata questa battuta un po’ pesante, ma il prof per fortuna ha sorvolato sulla parolaccia. “Come vi dicevo noi siamo una specie neotenica. Si nasce con la scatola cranica ancora non saldata, senza peli, deboli muscolarmente. Non siamo capaci di camminare e dipendiamo dalle cure di chi ci sta accanto per nutrirci e sopravvivere. Pensate che il cervello di una scimmia appena nata è già al 70 per cento delle crescita e si completa nei primi sei mesi, il nostro finisce di svilupparsi intorno ai vent’anni”. “Dai Alberto, è una buona notizia: hai ancora cinque anni di speranza di diventare quasi umano!”

“Questa nostra neotenia non è uno svantaggio – continua il professore – nasciamo molto immaturi, non pronti alla vita, privi degli automatismi che hanno altre specie perché il passato della nostra specie non ci ha lasciato tracce sicure su come comportarci. Di conseguenza siamo costretti ogni giorno a trovare nuovi modi di adattarci e risolvere i problemi che incontriamo. Dobbiamo essere creativi per colpa della nostra neotenia”.

“Ma con chat gpt scrivi testi perfetti, componi canzoni nuove piacevoli. Si può fare di tutto Prof!” insiste Alberto, il saputello. “Vero, ma appunto: le canzoni sono piacevoli perché orecchiabili, banali variazioni di ciò che è stato già composto. È tutto già ascoltato, montato in modo diverso ma già parte del repertorio infinito che la IA ha in memoria”. “Vi siete mai chiesti perché noi ci parliamo? Solo noi abbiamo un linguaggio in forma così evoluta. Pensateci: lo facciamo perché abbiamo bisogno di imparare dagli altri. Siamo animali privi di qualsiasi specializzazioni e proprio per questo siamo ricchi di potenzialità da sviluppare con il nostro pensiero e con l’aiuto degli altri individui della nostra specie. Molti scienziati hanno scritto che siamo il risultato delle molte carenze biologiche con cui veniamo al mondo, per questo siamo versatili e costretti ad essere creativi. Per colpa della nostra neotenia siamo programmati al cambiamento”.

“Quindi io mi sveglio ogni mattina alle sei e mezzo e torno a casa dopo le tre per colpa della neotenia? È lei che ci manda a scuola?” dico io. “In un certo senso sì. Diventiamo pienamente umani con la cultura. Quello che imparate a scuola e dagli altri compensa le lacune con cui veniamo al mondo rispetto ad altri animali. Pascal ha detto che la cultura è la prima natura dell’uomo”.

“Allora Alberto purtroppo non hai speranza nemmeno tra cinque anni: non sarai mai umano!” ha detto Michela per prenderlo ancora in giro (ma lo fa perché vorrebbe essere lei la più brava…).

“Tutto questo discorso complicato è per dirvi che secondo me l’intelligenza artificiale è una macchina potentissima per conoscere, ma è molto più preziosa la macchina naturale per pensare che abbiamo dentro di noi. E allora, quando volete guardare indietro e controllare tutto quello che è stato scoperto, usate tranquillamente l’intelligenza artificiale, vi sarà molto utile. Ma quando pensate al futuro che vi attende fatelo nuovo di zecca, frutto della vostra creatività. L’intelligenza artificiale vi suggerirà solo le strade più scontate, le più probabili. Voi siate imprevedibili.”

Insomma Gessica, un discorso che all’inizio mi sembrava molto sconfortante: saremmo il risultato di un sacco di carenze. Come a dire che quando si nasce siamo come un telefonino senza linea che può fare solo la chiamata d’emergenza. Però col tempo impariamo a muoverci fino a trovare segnale e allora è una cosa buona sapere che sono libera di chiamare chi mi pare a me. Anche quel ragazzo che mai si sarebbe aspettato che tra noi due la prima a farsi viva sarei stata io! È stato bello sorprenderlo, sai?

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Il lavoro e la vita - Giorgio Agamben

 

Si sente spesso elogiare la Costituzione italiana perché ha posto a suo fondamento il lavoro. Eppure non soltanto l’etimologia del termine (labor designa in latino una pena angosciosa e una sofferenza), ma anche la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz) avrebbero dovuto mettere in guardia contro una sua accezione così incautamente positiva. Dalle pagine della Genesi, che presentano il lavoro come una punizione per il peccato di Adamo, al brano tanto spesso citato dell’Ideologia tedesca in cui Marx annunciava che nella società comunista sarebbe stato possibile, invece di lavorare, «fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ne viene voglia», una sana diffidenza verso il lavoro è parte integrante della nostra tradizione culturale.
C’è, però, una ragione più seria e profonda, che dovrebbe sconsigliare di mettere il lavoro a fondamento di una società. Essa proviene dalla scienza, e in particolare dalla fisica, che definisce il lavoro attraverso la forza che occorre applicare a un corpo per spostarlo. Al lavoro così definito si applica necessariamente il secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, che è forse l’espressione suprema del sublime pessimismo cui giunge la vera scienza, l’energia tende fatalmente a degradarsi e l’entropia, che esprime il disordine di un sistema energetico, altrettanto fatalmente a aumentare. Quanto più produciamo lavoro, tanto più disordine e entropia cresceranno irreversibilmente nell’universo.
Fondare una società sul lavoro, significa pertanto votarla in ultima istanza non all’ordine e alla vita, ma al disordine e alla morte. Una società sana dovrebbe piuttosto riflettere non solo sui modi in cui gli uomini lavorano e producono entropia, ma anche su quello in cui essi sono inoperosi e contemplano, producendo quella negentropia, senza la quale la vita non sarebbe possibile.

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lunedì 30 dicembre 2024

notizie di Paolo Cognetti

 

Paolo Cognetti: “I pensieri suicidi erano all’ordine del giorno… Ho detto allo psichiatra che non era urgente vedersi, ho saltato una visita, mi sono ritrovato polizia e ambulanza sotto casa”

 

La confessione di Paolo Cognetti continua oggi sulle pagine del Corriere della Sera. L’autore di Le otto montagne, che aveva rivelato a Repubblica in un’intervista di essere caduto in depressione, è tornato su alcuni dettagli di questo lungo e tragico travaglio psicologico

 

“Restavo nella mia baita a guardare il soffitto, qualcuno provava a trascinarmi fuori, ma non mi importava più di niente, non c’era più amore né per mia madre e mio padre che erano lì ad accudirmi, né per il mio cane Lucky: il mio cuore era inaridito”. La confessione di Paolo Cognetti continua oggi sulle pagine del Corriere della Sera. L’autore di Le otto montagne, che aveva rivelato a Repubblica in un’intervista di essere caduto in depressione e di avere subito un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) con un ricovero di due settimane al Fatebenefratelli di Milano, è tornato su alcuni dettagli di questo lungo e tragico travaglio psicologico. Cognetti spiega ad esempio che i pensieri di suicidio “erano all’ordine del giorno: la corda ce l’ho, la trave ce l’ho, devo capire come salire sulla sedia”, tanto quanto l’alcolismo (“ho vissuto da alcolista duro e puro: dal caffè corretto alle 8 di mattina all’ultimo whisky all’1 di notte, passavo tutto il giorno a bere, finché mi sono sbattuto fuori casa da solo”).

Anche se il tradimento dell’amata montagna (“sono diventato il nemico: a Brusson, dove ho la baita, un bel po’ di gente si gira dall’altra parte quando passo”) dopo l’ultimo libro – Giù nella valle (Einaudi) sembra essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Cognetti viene descritto dal corrispondente del Corriere come dimagrito, senza barba e con i capelli tinti di un rosso tiziano. “Non avevo mai sofferto prima di depressione. Periodi di grande tristezza, di noia esistenziale sì, ma niente di simile a quello che è successo dopo”, ha continuato lo scrittore.

“Per qualche mese ho smesso di bere, ma poi mi sono detto: se sto così male, anche se ricomincio non potrà andare peggio, giusto? Ho ripreso e mi sono sentito meglio, ho recuperato energia e allegria, ma per il mio psichiatra stavo solo entrando in una nuova fase maniacale”. Cognetti spiega che nella sindrome bipolare c’è la fase depressiva (“che fa schifo”) e la fase maniacale (“dove hai mille idee al secondo, scriveresti dieci libri, e io ci sono ancora dentro”). Poi ha provato a fare chiarezza sull’origine del TSO che rimane comunque un atto di estrema violenza contro la volontà di una persona: “Ho detto allo psichiatra che non era urgente vederci, ho saltato una visita e mi sono trovato la polizia e l’ambulanza sotto casa. In ospedale non ho firmato l‘accettazione delle cure ed è scattato il Tso. Ho passato due settimane in un regime che potrei definire carcerario”. Cognetti, infine, sembra come citare un altro TSO riferito a “gennaio” scorso (2024?) quando sarebbe stata la sua compagna ad insistere per andare in pronto soccorso: “ tu stai delirando, diceva. Quando ho provato ad andarmene dall’ospedale mi hanno circondato in sette: ho fatto una denuncia per quell’episodio”.

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Nel buio e senza libertà: così Cognetti ha testimoniato le peripezie di chi soffre di depressione - Maurizio Montanari

 

Ha avuto coraggio Paolo Cognetti nel testimoniare la sua discesa nel mare nero della depressione raccontando lo stato di paralisi dell’anima causato dalla melanconia. La depressione maggiore è un sole nero che irradia lamine di buio tagliente che ho cercato clinicamente di descrivere qua, consapevole che si tratta della bestia più feroce che possa entrare nei nostri studi, ormai quasi settimanalmente.

Il messaggio più importante e doloroso del suo racconto riguarda l’impossibilità di trasmettere ciò che si prova quando si vive in una dimensione bipolare, limite contro il quale molti pazienti infrangono le loro speranze di essere ascoltati e capiti.

La depressione non si può dire. E’ umiliante, mortificante. Costringe il cuore, opacizza l’animo. Trasforma chi ne è colpito in un pianeta freddo obbligato ad orbitare lontano da qualsiasi luce.

Il paziente depresso riferisce molto spesso di un momento della vita nel quale, di colpo o lentamente, le luci della sua esistenza si sono spente. Una dissoluzione dei legami, una frantumazione delle identità, un collasso dello spazio-tempo costringono l’ammalato a vedere, da quel momento in poi, la fine di ogni cosa. “Il bosco è tornato solo un bosco, un torrente solo un torrente, perfino un albero non mi ha detto più niente” racconta Cognetti alla giornalista.

Tra i tanti effetti della depressione già descritti, vale la pena soffermarsi sulla contrazione del tempo e la conseguente disperazione che ne consegue. Il tempo del melanconico si accorcia arrivando a condensare una vita intera in pochi attimi che, per la loro breve durata, non valgono la pena di esser vissuti. Se la farfalla sapesse di vivere pochi giorni, dove troverebbe la forza di alzarsi in volo? Chi ne è affetto percepisce la sua vita come un doloroso sforzo finalizzato a portare un corpo in giro senza un fine che non sia il crepuscolo delle cose. Il depresso è una farfalla che sa di vivere due giorni.

Ciò detto, noi sappiamo che dalla depressione si può guarire, combinando sapientemente gli strumenti della psicoterapia con quelli della chimica, senza che l’uno si arroghi il diritto di prevalere sull’altro. Ma bisogna scavare, a fondo. Forare la superficialità del dolore e addentrarsi nelle zone inesplorate della mente e della storia del soggetto. La depressione infatti non è una malattia immobile. Al contrario, lavora nel sottosuolo. Per usare un paragone, si immagini una serie di onde marine quando c’è l’alta marea. Onde che ripetutamente e in maniera regolare schiaffano sulla battigia per poi ritrarsi, e fare spazio ad altre onde oleose, colme di pece e muschio viscoso. E ogni volta che riescono ad arrivare a lambire la sabbia, se ne mangiano un po’. Ma c’è un punto nel quale questi flutti non possono arrivare: il tempo dell’infanzia, quello della preadolescenza, o anche tempi piuttosto recenti. Tempi nei quali il soggetto viveva a pieno la propria quotidianità. Ed è da lì che si riparte quando la vita riprende a fluire e le terapie hanno effetto.

Io che di depressione ho sofferto molto tempo fa, a causa di una incauta scelta psicoterapeutica rivelatasi dannosa, quei fumi neri li ricordo bene. So bene a cosa si riferisce Cognetti quando racconta di quella montagna che gli ha voltato le spalle, di un mondo che crolla. Conosco assai bene il vento vigliacco della fuga di chi, vedendoti in difficoltà, scappa.

E’ importante soffermarsi anche su un’altra questione delicata da lui sollevata, priva di verità univoche: il trattamento sanitario obbligatorio. Il Tso è un’azione controversa, ancora molto dibattuta. Un atto che che in base ad alcuni indici prestabiliti depotenzia le libertà del malato. Dice lo scrittore: “Ero legato al letto mani e piedi (…) con una siringa in una gamba. Ventiquattr’ore al giorno in un corridoio di trenta metri con le stanze ai lati. Finestre tutte sbarrate, non un terrazzo né un cortile. La terapia in teoria puoi rifiutarla, ma se lo fai passi da paziente volontario a paziente Tso, per cui devi prendere tutto quello che ti danno. Risultato: la maggior parte dei pazienti dorme tutto il giorno“.

 

Al netto di casi di acclarata pericolosità sociale per i quali il Tso assume un valore di salvaguardia dell’incolumità del cittadino e della comunità, chi garantisce che molte crisi che incontrano la segregazione non siano cedimenti di strutture già fragili le quali, sottoposte alla privazione della libertà, peggiorano la loro condizione? “In ospedale non ho firmato l’accettazione delle cure ed è scattato il Tso. Ho passato due settimane in un regime che potrei definire carcerario”. Il primo Tso risale a gennaio: “È stata la mia compagna a insistere per andare in pronto soccorso: ‘Tu stai delirando’, diceva. Quando ho provato ad andarmene dall’ospedale mi hanno circondato in sette: ho fatto una denuncia per quell’episodio”.

Robert Pirsig ha scritto, testimoniando la sua esperienza di ospedalizzazione: “Una volta che sei dichiarato pazzo, tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia. Le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate sono paranoie… e l’istinto di sopravvivenza, meccanismi di difesa…”. Philip Dick, capace di trasporre in sublime scrittura l’essenza del disagio mentale, racconta a proposito del ricovero forzato:

Una squadra di uomini ben vestiti stava seduta di fronte a lui tutti con un blocco di carte sulle ginocchia (…) Fece tutto il possibile per convincerli che aveva ritrovato il suo equilibrio. Mentre parlava, si rese conto che nessuno gli credeva.
‘Non posso tornare a casa?’, chiese Fat
‘No, riteniamo che lei abbia bisogno di cure. Non è pronto per tornare a casa’

‘Mi legga i miei diritti’
‘Possiamo trattenerla per quattordici giorni, senza bisogno di udienza processuale. Dopo di che, con l’approvazione del tribunale, potremo, se lo riteniamo necessario, trattenerla per altri novanta giorni’
Fat sapeva che se avesse detto qualcosa, qualsiasi cosa, l’avrebbero trattenuto per 90 giorni. Così non disse nulla. Quando uno è matto, impara a stare zitto’.

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Sfatiamo la falsa credenza: la montagna non può salvarci. E Paolo Cognetti l’ha ammesso -
Alberto Marzocchi

 

La montagna non è mai salvifica, né per chi ci vive né per chi va a viverci. Semmai può contribuire a portare un temporaneo sollievo, come d’altra parte lo può fare il mare, il contatto con la natura, un nuovo inizio altrove, quando si ha la fortuna di poter scegliere di cambiare ambiente, o vita. È bene sfatare questa falsa credenza, che forse abbiamo ereditato dalla seconda metà dell’Ottocento, quando i ricchi e i letterati – spesso le due cose si sovrapponevano – scoprivano le montagne appena dopo scienziati ed esploratori, ribaltando un sentire comune e secolare che vedeva nelle terre alte insidie, difficoltà, spiriti maligni e demoni.

La montagna è fatta di brutture, come di brutture è fatto l’animo umano. Perché è questo il punto: la montagna non può salvarci, finché non facciamo i conti con noi stessi. In quanto individui e in quanto individui calati in una comunità.

Dove sono nato e cresciuto – un paese a 1000 metri di quota, in cima a una valle, che oggi conta 330 abitanti – per andare a scuola bisognava fare un’ora di bus. Partenza alle 7, ritorno a casa alle 15. Per frequentare le scuole nel capoluogo di provincia, bisognava alzarsi alle 5.30, farsi accompagnare in auto in un paese più a valle (perché a quell’ora il bus non passava) e si tornava a casa col buio, alle 6 di sera. La connessione Internet era così lenta – ora le cose sono migliorate – che era impossibile vedere un video di pochi secondi. Scherzando – ma è la verità – dico sempre che il primo porno l’ho visto a 19 anni, quando ho avuto la fortuna di studiare in città.

In montagna fa freddo nei mesi freddi, bisogna spalare la neve (quando c’è, un tempo ce n’era di più), il più delle volte non c’è nulla da fare: non ci sono musei, cinema, teatri, concerti. I ragazzi fanno uso di droghe, come i coetanei cittadini, e iniziano a fumare a dieci anni e a bere come spugne a 13-14. Quando cresci, non c’è lavoro, e sei costretto a fare il pendolare, su e giù da una valle, e passi la tua vita lavorando e guidando. Tutti ti conoscono e tutti parlano di te anche se non vuoi che lo facciano, anche se ti ritiri in casa e non frequenti nessuno. “Ah, e quello strano che sta in casa, lo avete visto? Non è tutto finito”.

In montagna le persone serbano rancori secolari, nati per una lite tra antenati, con cui si arrovellano da generazioni. Ci sono mentalità e comportamenti che più a sud prendono il nome di mafiosi. E il più delle volte è impossibile fare cambiare idea alle persone, convinte come sono di fare sempre la cosa giusta. A proposito di questo, dove sono cresciuto gli abitanti di un determinato paese prendono nomi – in dialetto – molto esemplificativi: carpini, montoni, caproni. L’ironia e la fantasia, come si vede, non mancano.

Ma per chi la sa cercare la montagna regala anche tanta bellezza. Il requisito fondamentale è sapere accettare che non ha nulla di salvifico, che è abitata da uomini e donne – nella maggior parte dei casi, sorprendentemente accoglienti – con gli stessi difetti di chi vive altrove.

Voglio ringraziare Paolo Cognetti per aver avuto il coraggio di aver espresso la propria sofferenza. E per aver ammesso che dalla montagna è stato respinto. Per quel che vale, gli mando un abbraccio e l’augurio di trovare se stesso. E la propria serenità.

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Cognetti, il ‘bagno di foresta’ e la salute mentale: la sua sofferenza mi ha disorientato - Federico Mascagni

Avrei voluto scrivere del Bagno di Foresta, una pratica terapeutica di origine giapponese che, come risulta da una ricerca (Effects of Shinrin-Yoku ‘Forest Bathing’ and Nature Therapy on Mental Health: a Systematic Review and Meta-analysis) influisce positivamente sulla salute mentale, in particolare sull’ansia e la depressione. Si tratta di migliorare il proprio mindset al contatto con il paesaggio boschivo, sia che avvenga durante una camminata oppure immergendosi nella meditazione. Avrei voluto scrivere che il nostro patrimonio forestale, a cui è dedicato un ministero, va preservato non solo per la sua bellezza paesaggistica, ma per le mille funzioni che svolge. Avrei, ma a un certo punto ho letto che lo scrittore Paolo Cognetti è reduce da un TSO. Ne ha parlato ai media con coraggio, senza temere lo stigma che ancora oggi accompagna chi soffre di un disturbo mentale.

Intervistato racconta alcune circostanze che possono portare le persone che hanno fragilità alla crisi. Lo stress dei traguardi da spostare sempre più in alto per mantenere le proprie aspettative e quelle altrui. L’abuso degli alcolici come forma di automedicazione per attenuare le depressioni dell’umore. Lo spaesamento nel troncare un rapporto sentimentale. E infine l’isolamento progressivo. Nel caso di Cognetti nel suo rifugio d’alta montagna, anche se per alcuni mesi all’anno. Proprio questo punto mi ha maggiormente disorientato nel momento in cui mi accingevo a scrivere della foresta come luogo di salute; sembrava confutare l’idea che il solo contatto con una realtà viva e incontaminata potesse influire su di noi in modo benefico.

Ma ultimamente in montagna, racconta Cognetti, chiuso nel suo rifugio, steso sul letto, osservava il soffitto in preda ai pensieri più bui. Un disturbo mentale non lo si prende come un raffreddore. È il lento procedere, come ha detto in modo splendido lo scrittore, di un antico fiume carsico che scava anno dopo anno finché una piena lo fa esplodere nel punto più fragile del percorso. Così la mente può trasportare vecchi disagi per lungo tempo fino a che non avviene una violenta frattura.

Trattandosi di un personaggio pubblico la testimonianza ha avuto una vasta eco, con un’importante attenzione sul problema della salute mentale anche, come ha voluto sottolineare lo stesso Cognetti, per chi vive queste sofferenze ma non ha voce per esprimerle pubblicamente. Il pensiero va soprattutto a chi vive in condizioni economiche e sociali in cui non è possibile una vita dignitosa e sono scarse le prospettive di remissione della malattia. Ci sono state poi opinioni dissonanti, di chi sostiene che il mestiere dello scrittore può portare alla depressione o quella dell’ex ambientalista ora manager accanito nemico dell’ambientalismo, che ritiene Cognetti rinsavito nel momento in cui dice che un albero è solo un albero e un torrente è solo un torrente, mortificando così un ragionamento di senso opposto: cioè che nella depressione si perde contatto con il significato complesso della realtà in favore di una visione monodimensionale e svuotata dell’esistenza.

Più complesso invece il discorso sul Trattamento Sanitario Obbligatorio. È un’iniziativa che si svolge con una modalità drammatica che merita riflessioni e che in alcuni casi si conclude con la contenzione, come ha denunciato Cognetti. Per questa ci sono alternative, come nel caso dei reparti SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) cosiddetti no-restraint, che prevedono per i pazienti il contatto con l’esterno, l’utilizzo di camere singole e di spazi ampli di movimento, senza l’utilizzo di alcuna contenzione in qualsiasi momento della degenza. Ma questo significa investire per ripensare le strutture e per formare il personale medico e paramedico. Una ragione in più per pretendere un Sistema Sanitario Nazionale efficiente e pubblico, che garantisca l’accesso immediato a tutti a prescindere dalle possibilità economiche, e che preveda una dialogo aperto fra istituzioni e personale medico e paramedico e fra operatori e cittadini.

Cognetti dice che ha iniziato a scrivere di questa sua esperienza; se prenderà la forma di un libro rappresenterà certamente la questione della salute mentale nella sua problematica complessità.

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Paolo Cognetti: “Ho subito un Tso per una grave depressione”. Poi: “Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle, siamo obbligati apparire sani, forti, colmi di gioia” – Davide Turrini


Un giorno dovremmo soffermarci sull’immensità dell’umano che è in Paolo Cognetti. Scrittore dal talento cristallino, uomo tormentato e fragile, essere vivente uguale tra pari. Piombato in un’epoca letteraria piatta ed egomaniacale, composta da inappuntabili professorini che danno continue lezioni di forma e sostanza, ad un certo punto ha bucato la membrana di quella che una volta si definiva ipocrisia borghese e ci ha lasciato con lunghe righe di lacrime sul viso. In una intervista a Repubblica ha raccontato di aver subito un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) per una “grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali”.

Pochi giorni fa l’autore di Le otto montagne è stato infine dimesso dopo due settimane dal reparto di psichiatria dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Tra le pagine del racconto giornalistico di Cognetti, un romanzo in essere, in vita, in continua dolorosa mutazione, c’è tutta la fatica e il pianto che il male di vivere appiccica addosso ai viventi. Cognetti spiega così le ragioni del ricovero: “In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione. Nelle scorse settimane invece, sceso dal mio rifugio sul Monte Rosa, ero in una fase bella e creativa. Un giorno mi sono accorto che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane”. Lo scrittore ricorda che nelle fasi maniacali “si può perdere il senso del pudore o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”.

Il 4 dicembre il medico dispone un Tso e nel giro di poche ore i ritrova sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza: “Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire. Resto un anarchico, ma in ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto”. Dice Cognetti che avrebbe cercato di guarire “risalendo piuttosto in montagna o partendo per un viaggio”. Lo sguardo e la speranza che cercano strade battute, i sentieri che hanno fatto stare bene, la montagna come rifugio e isolamento da un reale che soffoca. “Mi sono illuso di poterlo fare. L’innamoramento è durato quattro anni: per due ho fatto il cameriere e mi sono sentito parte di una comunità. Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere l’umanità della montagna mi ha respinto”.

Intarsiato al “ritiro” personale e professionale sembra esserci anche un sentimento e una passione che pesano addosso: “Dopo dieci anni avevo lasciato una ragazza da vigliacco. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità, le ho fatto credere che me ne andavo per ritirarmi in montagna. Mentire rende soli, ma soli non si vive”. Tra le possibili cause dell’abisso paradossalmente l’apice: “Per imparare quasi scrivere ho impiegato 40 anni. Dopo il successo con Le otto montagne, una storia urgente e necessaria, mi sono chiesto: E adesso cosa faccio? Non ho trovato una risposta convincente. Forse ho temuto che il mio massimo editoriale, con il Premio Strega, fosse stato toccato: la popolarità è spietata e ha un prezzo significativo”. Infine lo squarcio: “Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle. Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi i gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato”.

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Scuola, università, media: gli artefici del pensiero unico


domenica 29 dicembre 2024

La realtà dei conflitti mondiali oltre la propaganda e le rimozioni - Alberto Bradanini

 

1. Il deprimente riflesso dei media occidentali – ai quali ci sforziamo di sfuggire quanto possibile – ci condurrebbe alla più profonda depressione, se non fossimo soccorsi dalla fede nell’avanzare dell’autocoscienza dell’uomo nella storia, poiché nel tempo breve non v’è alcuna speranza di intravedere nemmeno l’ombra di un orizzonte più sereno. Più vivo – affermava G. B. Shaw – più sono convinto che questo pianeta sia usato da altri pianeti come manicomio dell’universo. Ed è difficile dargli torto. Eppure, se occorre dar senso al tempo che rimane da vivere, esso è quello di distruggere con l’arma della verità tutto ciò che può essere distrutto.

Non passa giorno che Israele non uccida intenzionalmente giornalisti palestinesi a Gaza[1] (196 negli ultimi 14 mesi, tra i 45.000 palestinesi uccisi e 150.000 feriti!), mentre impedisce a chi è fuori di entrare nella Striscia per nascondere i disumani massacri di cui si rende colpevole davanti all’umanità, alla giustizia internazionale, all’etica delle nazioni e alla storia, protetto e armato dai loro complici occulti, gli Stati Uniti d’America.

In Siria, in contemporanea, l’esercito d’Israele, che insieme ai conniventi americani e turchi, ha dato il via libera ai tagliagole jihadisti, si espande oltre il Golan – che occupava illegalmente dal 1967 – e invade altre terre siriane (che B. Netanyahu dichiara non verranno restituite mai più!) nel garbato silenzio di Usa ed Europa, vocianti propugnatori del Diritto Internazionale. Non solo, mentre sulla carta firma il cessate il fuoco con Hezbollah, lo Stato Ebraico non smette di bombardare villaggi libanesi già martoriati, facendo ogni santo giorno decine di vittime. Tutto ciò sotto lo sguardo appagato della presidente della Commissione Ue, la tossica von der Leyen, caporal maggiore del cupo esercito Nato e la cui unica caratteristica degna di nota è l’obbedienza al globalismo atlantico. Nella Nato, si pensava di aver toccato il fondo con il tramonto di Jens Stoltenberg, dal nome altamente evocativo, ma non è così! Al suo posto quale Segretario Generale abbiamo ora tale Marc Rutte, anch’egli con un nome onomatopeico, che dispone per nostro conto di ridurre gli stanziamenti a pensioni e sanità per produrre armi destinate, secondo cotanta testa, a sconfiggere la Russia! Ecco, in un mondo coerente, la stirpe dei Rutte dovrebbe dare il buon esempio, abdicando alle cure dei superbi ospedali Nato, rinunciando sin d’ora a percepire le ricche pensioni che aspettano i camerieri come lui e partire subito per il fronte a salvare l’Europa!

Davanti a tale turpitudine, la replica dei nostri governanti è stata fiera e indignata. Essi hanno immediatamente reagito agli spropositi ruttiani, qualificando tutto ciò per quello che è, vale a dire un ulteriore affronto alla nostra Costituzione e alla nostra (ahimè perduta!) sovranità. Tanto più che, come qualcuno lassù ha affermato, l’Italia sa notoriamente badare a sé stessa. Un concetto che tradotto in linguaggio fattuale sta per: non c’è bisogno di un Rutte qualunque per impoverire la nostra gente e ingrassare i produttori di armi, sappiamo farlo da soli.

2. A dispetto del diluvio di propaganda, salta agli occhi che gli orchestrali di turno sono guidati dalla malata plutocrazia dell’impero, un impero in declino, ma ahimè non rassegnato. Il modus è collaudato: quando taluno si attenta a sollevare una domanda impertinente, questa è sbeffeggiata, screditata o semplicemente occultata. Se poi insiste a riemergere, viene sommersa da un effluvio di inutili notiziole che riempiono uno spazio che potrebbe essere occupato da interrogativi seri.

Nessuno discute nemmeno più di rispetto di minimo comun denominatore di una democrazia, che le evolute nazioni dell’Occidente concepiscono solo come una religione formale. I mezzi di disinformazione di massa aggrediscono rumeni, georgiani e moldavi, colpevoli solo di essersi svegliati dal Lungo Sonno, insieme ai venezuelani, che in mezzo a mille difficoltà, sanzioni e minacce, cercano a modo loro di uscire dal sottosviluppo senza piegarsi agli ordini imperiali. A proposito di Venezuela, il 17 dicembre scorso, la Presidente dell’impalpabile Europarlamento, Roberta Metsola, ha consegneto il Premio Sacharov 2024 per la libertà di pensiero a María Corina Machado e a Edmundo González Urrutia, quest’ultimo riconosciuto presidente legittimo e democraticamente eletto del Venezuela. Invece dei cittadini venezuelani, nel distopico pianeta Terra sono i parlamentari di altri continenti a decidere chi ha vinto le elezioni in un paese lontano che nessuno ha nemmeno visitato una volta. Ridicolo e oltraggioso! Forse qualcuno potrebbe sospettare che l’ostilità statunitense nei confronti della minacciosa nazione venezuelana abbia a che fare con tutto ciò. Si tratta solo di un sospetto, beninteso. In tale scena angosciante, d’altra parte, a nessuno importa qualcosa di Nazioni Unite, diritto internazionale, principio di coesistenza pacifica e non interferenza negli affari altrui.

3. Se persino bambini di cinque anni, per far felici i genitori, fingono di credere alle fiabe ascoltate prima di addormentarsi, resta un doloroso mistero irrisolto che milioni di individui adulti, in apparente salute mentale, possano piegare l’intelletto davanti alla montagna di menzogne che sfida quotidianamente le leggi della fisica. In un infinito elenco, proviamo a illustrane alcune.

Nel 2020, l’ex-futuro presidente degli Stati Uniti confessava con candore (l’intervista è ascoltabile sul web[2]) di aver ordinato alle truppe americane (in Siria dal 2011, in violazione della Carta delle Nazioni Unite, del principio di non interferenza e di ogni norma immaginabile) di non abbandonare quella terra, perché lì c’era il petrolio! Chi legge ritiene forse che l’espressione sia esagerata, che la riflessione di quell’autorevole capo di stato fosse più articolata. Invece no, si è espresso proprio così. Anzi, per paura di non essere compreso, D. Trump ha ripetuto più volte petrolio, petrolio (!), affinché anche ai sordi fosse chiara la ragione per la quale i soldati americani venivano lasciati in Siria (dove si trovano tuttora, raddoppiati a 2000 unità).

Quel petrolio – dimenticava di precisare l’allora inquilino della Casa Nera (il colore bianco, nel nostro immaginario, si addice ad altri luoghi) – era di proprietà del governo siriano, un dettaglio insignificante, sfuggito al Principe Atlantico, nobile guida della sola nazione indispensabile al mondo (B. Clinton, 1999). Non fa meraviglia che la Siria – colpita da dure sanzioni sin dal 2011 – non sia stata in grado di difendersi dai terroristi armati e pagati dal reo-confesso saccheggiatore di petrolio altrui.

Sebbene fosse un paese multietnico e multireligioso, perla rara in Medioriente, la Siria di al-Assad non era certo una democrazia scandinava. E proprio per questo andava aiutata a progredire attraverso commercio, investimenti, scambi scientifici e culturali. Nessuno può ora escludere che la storia si prenda la sua vendetta, tramutando in veleno la gustosa pietanza iniziale. I terroristi oggi diversamente colorati potrebbero rendere pan per focaccia agli invasori turchi (i mercenari si vendono al primo offerente!), agli israeliani (quanto potrà durare la tregua dell’odio che li anima contro i figli di Sion?) e agli americani (riusciranno questi a trattenere i turchi intenzionati a liberarsi una volta per tutte dei curdi del Rojava?). A sua volta, è plausibile sia coinvolto anche l’Iraq, un paese che ha già pagato con una guerra insensata e ingiustificata che ha fatto un milione di morti, una guerra voluta dagli Stati Uniti per servire insieme Israele e la loro patologia di dominio universale, una guerra che gli smemorati ambienti occidentali tengono nascosta sotto un vergognoso tappeto.

Pensavamo di essere vaccinati davanti a tante menzogne. Continuiamo invece a stupirci all’ascolto del megafono mediatico, le maschere interscambiabili della politica, i venerabili predicatori televisivi, le maggioranze silenziose, queste sempre inquiete, tuttavia. In un effluvio assordante di vocaboli e concetti, tra cause ed effetti, etica e realismo, storia e leggenda, si staglia maestoso il faro celestiale del Regno del Bene propugnatore di Pace, valori umani, Progresso, libertà di pensiero, difesa di Costituzioni proprie e altrui, e via angelicando.

Magari in tale mondo incantato, come riconoscono persino i suoi più ortodossi difensori, non manca qualche difetto, ma – vivaddio! – la perfezione non è di questo mondo. Sappiamo bene – echeggia quella Voce dall’alto – che il mondo non va nel migliore di modi e che dovrebbe andar meglio, ma attenzione, potrebbe anche andar peggio, anzi molto peggio, ed è una fortuna che lassù vi sia qualcuno capace di contenere caos e barbarie: l’amichevole consiglio è dunque quello di giudicare con moderazione le vicende del mondo e non agitarsi troppo!

Dal 2021, la Casa Nera ha poi avuto un nuovo inquilino (che lì rimarrà fino al 20 gennaio 2025), un anziano signore il cui idioma è compreso solo dagli esquimesi, se escludiamo gli studiosi di sanscrito, e che sarà ricordato dai posteri per le atrocità contro il popolo palestinese di cui è corresponsabile insieme a Israele, per la guerra contro la Russia con il sangue e il territorio ucraini, per le coperture delle furfanterie figliolesche, per l’inclinazione a inciampare sulla scaletta degli aerei e la perdita d’orientamento al termine delle conferenze-stampa. Ci scapperebbe un sorriso pacificatore, se non avessimo a che fare con morti e devastazioni, e se quell’anziano signore non fosse portatore di una valigetta che può mettere la parola fine al genere umano. Quando si solleva timidamente tale questione, i difensori dell’Impero del Bene replicano seccati che in realtà quella valigetta si trova nelle mani di persone con la testa sulle spalle. Ma se è davvero così, di grazia, chi sono costoro, chi controlla siffatti controllori, chi ha loro delegato tale gigantesca responsabilità? Interrogativi che restano drammaticamente senza risposta.

3. Un’altra tra le infinite perle del Padrone Unipolare ci conduce a tale Pompeo Mike, ex-direttore della CIA (2017-2018) e segretario di stato (2018-2021), che in un momento di inattesa verità ammette[3] pubblicamente che la CIA è pagata per rubare, ingannare, frodare. Ascoltando tale insolita confessione, il pubblico presente (Università del Texas!), invece di chiamare la forza pubblica, esplode in una empatica risata seguita da un affettuoso applauso. Di tutta evidenza, non solo per il reo-confesso, ma anche per l’etica accademica americana rubare, ingannare e frodare è considerato un prestigioso compito istituzionale di un corpo dello stato.

Tra le nazioni che a tutela della loro sicurezza fruiscono dei disinteressati servigi dell’Impero Occidentale troviamo beninteso l’Ucraina. Accantoniamo pure il complesso di onnipotenza insieme all’infantile rimozione che un paese entrato in guerra per la sua sopravvivenza e che dispone di 6500 testate nucleare, prima di essere sconfitto ricorrerebbe all’arma atomica. L’Ucraina resta comunque una nazione devastata, governata da un mediocre attore comico, vincitore di un’elezione con un programma di pace, appassionatosi poi alla guerra con il sostegno di una miracolosa polverina bianca. Costui, arresosi alle carezze nostalgiche di una neodemocrazia dalla croce uncinata, insieme ai nobili valori atlantici (i dollari), quando non è in crociera per il mondo vestito da furiere (al fronte è bene che ci vadano gli altri!) trascorre il tempo a intitolare piazze e strade ai veneratori del padre della patria ucraina, l’eroico massacratore di polacchi ed ebrei, Stepan Bandera. L’orologio batte tutto, la memoria svanisce, la coscienza tace.

Ma facciamo un passo indietro. Nel marzo 2007, Wesley Clark, ex-generale a quattro stelle, comandante NATO nella guerra in Kosovo, rilascia un’intervista[4] che andrebbe letta e meditata. Il 20 settembre 2001, dopo un colloquio con il Segretario alla Difesa Rumsfeld e il suo vice Wolfowitz, Clark viene informato (da un suo superiore di cui tace il nome) che gli Stati Uniti intendono attaccare l’Iraq. Al suo sconcerto: “Stiamo aggredendo l’Iraq? perché?”, gli viene risposto: “Non lo so, forse non sanno cos’altro fare”. “hanno trovato qualche prova che collega Saddam ad al-Qaeda?” “No, non c’è niente di nuovo. La decisione di andare in guerra con l’Iraq è stata presa perché, immagino non sappiano bene cosa fare dopo l’11 settembre. Se si ha a disposizione un martello, si vedono chiodi dappertutto”.

In un altro incontro, qualche settimana dopo, Clark chiede: “ma davvero faremo la guerra all’Iraq?” E l’altro: “Oh, è peggio di così” e allungando la mano sulla scrivania, prende un foglio di carta e dice: “Me l’hanno dato poco fa all’ufficio del Segretario alla Difesa. Si tratta di un memo che descrive come far fuori sette paesi in cinque anni, prima Iraq, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e infine l’Iran”. Prima di congedarsi, Clark chiede: “ma si tratta di un documento classificato?” e l’altro: “certamente”. “Beh, allora non farmelo vedere”. Dopo un anno, Clark incontra di nuovo quel generale e chiede: “Ti ricordi di quel promemoria?” e l’altro: “ma che dici? Non ti ho mai fatto vedere quel promemoria!”. Clark termina l’intervista affermando: “se ripenso a tale episodio e vedo quanto accade in Medioriente, beh allora tutto si chiarisce”.

Sei di quei paesi sono stati invasi/destabilizzati, milioni di morti, feriti e rifugiati, infrastrutture rase al suolo e un’ambiente sociale restituito alla mera sopravvivenza. Ne manca solo uno all’appello, l’Iran, e sentiamo già battere i tamburi. L’aggressione a quel paese, ammesso che Teheran non si doti prima dell’arma nucleare, incendierebbe il Medioriente, colpirebbe a morte le economie occidentali, farebbe milioni di morti, ma andrebbe a beneficio di chi siede in cima alla piramide e all’espansionismo coloniale israeliano, nell’orgoglio compiaciuto di una nazione, gli Usa, che in 250 anni è vissuta in uno stato di pace solo 16 anni e che con il 4,3% della popolazione mondiale intende dominare un pianeta di 8 miliardi di individui!

4. Quanto alla Libia, fino al 2011 per le Nazioni Unite quel paese era quello col più alto indice di sviluppo umano di tutta l’Africa. In quell’anno, il paese viene bombardato e destrutturato dalla Nato senza alcuna plausibile ragione e beninteso in barba al diritto internazionale, per di più contro gli interessi europei e in particolare dell’Italia, all’epoca legata da vantaggiose relazioni con M. Gheddafi, aprendo per di più la porta a un’immigrazione da allora fuori controllo. Per gli Usa quella guerra era in linea con il cosiddetto ordine basato sulle regole (rules-based order), principio che definire comico è un complimento, basato sulla quotidiana volubilità delle gerarchie imperiali e citato a manetta dall’algido blateratore di falsità, Blinken Antony – tra i peggiori segretari di stato che la storia americana ricordi, in coppia con il suo compagno di merende, il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan Jake, anche lui in fondo alla lista della sua categoria. Un ordine incantevole quello basato sulle regole, difesa anche dalla Presidente del Consiglio italiana in visita a Pechino alcuni mesi orsono, chissà, forse nel convincimento che i cinesi avessero l’anello al naso e prendessero sul serio il suo arguto ragionare di geopolitica mondiale.

Della cupa Unione Europea abbiam detto più volte, un’entità colonizzata e assuefatta alla violazione di rilevanti principi di etica pubblica e privata. Aiuta ad attenuare la depressione la circostanza che essa non sia più, da tempo, protagonista della scena internazionale. Quanto all’Italia, il solo aspetto degno di nota è la cura che i suoi dirigenti riservano nella lucidatura dei bottoni della livrea da maggiordomo, che indossano però, questo non può essere sottaciuto, con gran dignità! È motivo di relativa consolazione che il Sud nel mondo – le nazioni resistenti e/o emergenti – sia in ricerca di altri orizzonti, verso un mondo plurale e multipolare non più asservito alla finanza globalista guidata dalle corporazioni americane e dallo stato profondo e bellicista degli Stati Uniti. I Brics, la Sco, l’Unione economica eurasiatica, la Rcep e altri raggruppamenti continentali costituiscono un’incoraggiante manifestazione di recupero di quella sovranità di ciascun popolo che un giorno potrebbe proiettare una benefica influenza persino sull’Occidente.

Il trucco c’è, dunque, si vede ma non importa niente a nessuno! Distrazione, offuscamento dell’intelletto, confusione prefabbricata, affollamento di notizie, scetticismo pervasivo e altro ancora è tuttavia condito dal convincimento che la società è un dato immodificabile. E questo è un male.

Eppure, mentre una palingenesi della società americana non è alle viste, resta quindi la speranza di un bilanciamento che l’asse della resistenza potrà indurre attraverso il consolidamento della barricata di resistenza. Non possiamo anticipare i tempi, ma prima o poi gli uomini di buona volontà vedranno l’’alba di un nuovo orizzonte. Noi non ci saremo, pazienza. Sarà sufficiente il ricordo che anche noi abbiamo contributo.

Dove prevale la menzogna, la verità incute terrore, genera disordine, annienta l’illusione solipsista del Potere, emerge come un gigantesco salto nel buio. Essa resta d’altra parte imprescindibile per chi cerca la salvezza. Se l’uomo vorrà distruggere il mondo dei fabbricatori di morte e sopravvivere, non potrà sottarsi a quell’orizzonte. La verità annienterà quel che deve essere annientato. Lorsignori possono starne certi.

“A bloccare la via – affermava J. M. Keynes, il grande economista liberale del XX secolo, difensore di un’economia etica a favore del benessere condiviso e dei bisogni essenziali degli uomini.- vi sono solo alcuni anziani signori, stretti nei loro abiti talari, che hanno bisogno di essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e buttati giù come birilli”.

In una società dove la maggioranza appare rassegnata alla schiavitù di un’alienazione pervasiva, narcotizzata nel torpore smartfonico e davanti a uno schermo televisivo, soccorre il pensiero salvifico di Franz Grillparzer: se poi il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare.


[1] https://www.caitlinjohnst.one/p/that-which-can-be-destroyed-by-the?utm_source=post-email-title&publication_id=82124&post_id=153183786&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=true&r=13lc4d&triedRedirect=true&utm_medium=email

[2] https://www.newsweek.com/donald-trump-us-troops-syria-oil-bashar-al-assad-kurds-wisconsin-rally-1482250

[3] https://www.youtube.com/watch?v=ZCjWAq7563I

[4] https://www.globalresearch.ca/we-re-going-to-take-out-7-countries-in-5-years-iraq-syria-lebanon-libya-somalia-sudan-iran/5166 https://genius.com/General-wesley-clark-seven-countries-in-five-years-annotated

 

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Genocidio come cancellazione coloniale

 

Intervista a Francesca Albanese (di Anna Maria Selini da Altreconomia), relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, che a fine ottobre ha presentato all’Assemblea generale il suo ultimo lavoro. Riguarda la distruzione della popolazione civile in atto nella Striscia di Gaza ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme. “C’è un genocidio in corso, preparato dall’impunità che è stata garantita a Israele”


Continua a ripetere che non è lei la notizia e non si lascia intimorire dagli attacchi. “Sono più gli attestati di stima”, assicura Francesca Albanese, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, che a fine ottobre ha presentato all’Assemblea generale dell’Onu il suo ultimo rapporto intitolato “Genocidio come cancellazione coloniale”. L’abbiamo intervistata.

Albanese, nel precedente rapporto affermava che vi erano elementi per parlare di atti genocidiari a Gaza. Questo rapporto ne è l’evoluzione?
FA In qualche modo è l’evoluzione del precedente, anche se non avrei mai immaginato di dover scrivere anche questo. Credevo che tutto questo si sarebbe fermato, vista anche la crescente pressione internazionale dopo l’accusa del Sudafrica a Israele di aver violato la Convenzione sul genocidio. E, invece, non solo la violenza non si è fermata, ma si è andata intensificando e allora ho continuato a documentare. Ho visto che certi atti potenzialmente criminosi venivano commessi anche se con intensità differente, in Cisgiordania e a Gerusalemme, e allora ho cominciato a unire i puntini soprattutto alla luce della giurisprudenza sul genocidio. Non mi spiego tuttavia come tutto che quello che abbiamo e sappiamo sul genocidio, non ci aiuti a prevenirlo.

A quali conclusioni è arrivata?
FA
 Che c’è un genocidio in corso, preparato dall’impunità che è stata garantita a Israele. E non solo a Gaza, ma in tutto il territorio palestinese occupato: in un anno, solo in Cisgiordania, sono stati uccisi un quinto di tutti i bambini palestinesi che Israele ha ucciso in 24 anni in questa parte del territorio palestinese; qui sono state uccise oltre 700 persone, una cifra dieci volte più elevata rispetto alla già alta media annuale degli ultimi anni. Israele ha violato per decenni il diritto internazionale e varie convenzioni, come quella sull’apartheid. Ha violato risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale Onu: quest’anno ha commesso crimini nei confronti delle Nazioni Unite, colpendo il 70% delle strutture dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) a Gaza, e uccidendo oltre 200 dipendenti Onu. Come se non bastasse, ha lanciato una campagna diffamatoria nei confronti dell’Unrwa, fino a renderla illegale; ha dichiarato persone non gradite relatori indipendenti come me e persino il Segretario generale Onu António Guterres. Ha condotto vere e proprie campagne intimidatorie nei confronti dei funzionari delle Nazioni Unite ed è ormai noto che i servizi segreti israeliani abbiano minacciato alti funzionari della Corte penale internazionale. Che cos’altro si deve aspettare per considerare Israele uno Stato che non ha il diritto di voto all’interno dell’Assemblea generale, finché non cambi condotta? E soprattutto, perché Israele è al di sopra della legge?

Quando inizia il genocidio? È precedente o è una risposta al 7 ottobre?
FA
 Alcuni storici parlano di vari stadi del genocidio: ci sono dei precursori e l’eliminazione della presenza e dell’identità palestinese in quello che resta della Palestina storica è uno, oltre che un elemento fondamentale per la realizzazione di Israele come “Stato unico degli ebrei” dalla riva al mare (tale è il progetto del “Grande Israele”). L’odio ideologico contro i palestinesi è da tempo diventato dottrina politica. Quando si disumanizza l’altro e non lo si vede più come un essere umano, ma come una massa informe -in cui le persone non sono più adulti o bambini, musicisti, giuristi o panettieri, dottori o muratori- questa massa può essere trattata semplicemente come dei numeri, che non fanno più breccia nel cuore delle persone. Ma la disumanizzazione dell’altro non è soltanto opera di Israele: il razzismo aleggia nelle nostre società occidentali ed è evidente nei confronti dei palestinesi, sterminati a dozzine ogni giorno da 14 mesi senza che si riesca a empatizzare con loro. Questo ci dice che non abbiamo capito nulla né del passato, né del terribile presente che ci troviamo ad affrontare.

In Italia il dibattito è soprattutto sull’uso del termine genocidio.
FA
 C’è una cultura del diniego, una determinazione quasi ossessiva di non volere affiggere tale termine a quello che Israele sta facendo e, invece, è importante usarlo, non perché il genocidio sia più grave di altri crimini: è un crimine diverso ed è proprio la definizione che non può mancare qui, perché i palestinesi soffrono la commissione di crimini contro l’umanità e crimini di guerra da anni. Ma ora emerge chiaramente proprio l’intento di distruggerli e lo si vede attraverso la commissione di almeno tre dei cinque atti che l’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio indica appunto come costitutivi di genocidio: attraverso uccisioni, lesioni gravi dell’integrità fisica o mentale dei membri di un gruppo in quanto tale e il fatto di sottoporli deliberatamente a condizioni di vita intese a procurarne la distruzione. Quindi, basandomi sulla giurisprudenza esistente, ho proposto un approccio analitico che si impernia su una “tripla lente”: si deve guardare, cioè, alla totalità dei crimini e delle condotte commesse da Israele, contro la totalità dei palestinesi in quanto tali, nella totalità della Terra. I motivi di un attacco militare non vanno confusi con l’intento, che è la determinazione di commettere un genocidio, ormai evidente. Tanto più che l’obiettivo di una guerra è sconfiggere il nemico, non distruggere un gruppo in quanto tale: quello è appunto l’obiettivo di un genocidio. È chiaro che lo Stato e l’esercito d’Israele non stiano commettendo tanta violenza “solo” per liberare gli ostaggi, che altrimenti sarebbero stati liberati a questo punto, o per uccidere i membri di Hamas: ormai hanno eliminato tutta la leadership, perché continuare allora tanta violenza? Quando i ministri israeliani hanno cominciato a parlare di assedio assoluto, di sospensione dei viveri, del carburante e dei farmaci, si intuiva che cosa sarebbe successo e gli altri membri del governo non hanno fatto nulla per impedirlo, così come il Parlamento israeliano: c’è una palese responsabilità dello Stato.


La senatrice Liliana Segre ha ribadito che secondo lei non si tratta di genocidio, ma di crimini contro l’umanità e di guerra. Che cosa ne pensa?

FA Continuo a pensare che tanti in Italia abbiano una grandissima difficoltà a capire che cosa Israele stia facendo. Molti accettano persino l’accusa di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, accuse gravissime, ma non quella di genocidio. Come ripeto spesso, a costituire un genocidio non è l’esperienza personale, per quanto dolorosa, e nemmeno la nostra percezione di che cosa sia un genocidio, ma la legge. Quello che mi sento di dire è che questo momento è fondamentale per capire quello che molti si ostinano a non vedere. Mi preoccupa molto che si svilisca così agevolmente la forza preventiva del diritto rispetto a un crimine gravissimo del diritto penale internazionale.

Cioè?
FA
 I genocidi si possono prevenire quando vengono identificati sul nascere e qui, il genocidio, nonostante sia stato identificato -la Corte internazionale di giustizia ne ha riconosciuto la plausibilità nel gennaio 2024- è stato oscurato, incluso in Paesi come l’Italia. La storia dell’Olocausto avrebbe dovuto insegnarci che il genocidio comincia con la disumanizzazione dell’“altro”: è la storia di tutte e tutti noi, soprattutto di chi è erede di quei Paesi europei che hanno commesso il crimine di genocidio nei confronti degli ebrei e che si sentono responsabili di impedirne altri.

Nel suo rapporto parla anche del “Grande Israele”. Perché?
FA
 Perché è il contesto da cui non si può prescindere: da oltre 75 anni si rivendica un diritto esclusivo degli ebrei in Palestina, che vari governi israeliani hanno fatto di tutto per consolidare. E il genocidio è il culmine della violenza che un’opera di acquisizione della terra a danno dei suoi abitanti originari comporta, inclusa la discriminazione e la disumanizzazione dei palestinesi.

Qual è il suo bilancio di questi primi due anni e mezzo di mandato?
FA
 È un impegno gravoso, ma tra le poche cose che mi riconosco, c’è l’aver “liberato” certe parole e aver mostrato che il mondo non va in frantumi se si osa dire la verità, il che purtroppo pare un atto rivoluzionario. L’altra cosa che riconosco al mio mandato è la capacità di accendere la speranza nelle persone, la forza di sapere che dal proprio impegno dipende il cambiamento. La mia speranza è di contribuire a smuovere le coscienze di tanti e muoverli all’azione.

La Corte penale internazionale ha emesso i mandati di arresto per il leader di Hamas, Mohammed Deif, l’ex ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant e il primo ministro Benjamin Netanyahu. La Francia ha detto che non arresterà i leader israeliani, l’Italia è stata ambigua. Che cosa ne pensa?
FA
 Penso che la Francia abbia messo l’amicizia, la convenienza e l’interesse politico al di sopra del diritto internazionale: è gravissimo ed è un illecito ai sensi dello Statuto di Roma (il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale, ndr). L’Italia è stata ambigua e mi dispiace. Su queste cose bisogna essere interamente dalla parte della legalità, che impone l’obbligo di cooperare con la Corte penale internazionale e quindi la presenza di una persona inquisita dalla Corte richiede l’arresto in caso di presenza sul territorio della Repubblica. Questo impone il rispetto del diritto internazionale, che nell’ordinamento italiano è fonte di diritto, secondo la Costituzione italiana. Mi colpisce quanto in Italia si parli poco della Costituzione. Neanche i costituzionalisti sembrano ribellarsi alla distruzione costante che si fa dei principi costituzionali e questo mi fa grande tristezza. 

Per parole come queste ha ricevuto minacce e l’accusa di antisemitismo. Non ha paura?
FA
 Per fortuna sono molti di più quelli che esprimono il loro apprezzamento e sostegno. Le organizzazioni ebraiche, che continuano a lanciare e sostenere il comunicato a mia difesa, sono ormai 50 in tutto il mondo. Io sostengo che lo Stato di Israele, in quanto membro delle Nazioni Unite, si debba conformare al diritto internazionale e che non lo possa violare impunemente. E nel momento in cui commette atti di genocidio, apartheid e continua a mantenere un’occupazione, che la Corte internazionale di giustizia ha definito illegale, deve affrontare le conseguenze. Anche in Italia ci sono ebrei che stanno facendo sentire la loro voce contro l’orrore che Israele va portando avanti nei confronti dei palestinesi, come il Laboratorio ebraico antirazzista (LƏA). Succede in tante parti del mondo e per questo ho molta fiducia e sono fiera dei rapporti forti che ho costruito con tanta società civile in vari paesi del mondo: ovunque, in prima linea, ci sono comunità ebraiche progressiste. Al tempo stesso provo grande tristezza e dolore nel vedere come reagisce larga parte di quelle italiane, la cui postura si scontra profondamente con quello che emerge dall’impegno che in questi due anni e mezzo di vicinanza a tanti ebrei, soprattutto accademici, ho compreso: che l’ebraismo è la religione dell’oppresso, naturalmente vicina alle vittime di ingiustizie, non all’oppressore. Il trauma collettivo di un popolo non può essere usato per tenere in ostaggio la giustizia.

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