venerdì 31 gennaio 2025

È davvero deplorevole che milioni di cittadini vivano in una Ue così sottomessa agli Usa - Fabio Marcelli

L’arrivo di Trump al potere sta notevolmente aumentando il tasso di marasma mentale e demenza più o meno senile dei cosiddetti governanti europei e dei loro sottopancia nazionali. Costoro oscillano fra l’ansia di sottomissione servile al nuovo padrone, l’evidente invidia per i suoi progetti devastanti e la comprensibile stizza dovuta al fatto che il furbo Donald ha deciso di scaricare sull’Unione Europea buona parte dei suoi problemi, sia sotto forma di dazi, che di sganciamento dagli impegni Nato, all’ombra della quale erano abituati da tempo immemorabile a vegetare.

Si alternano quindi velleitari proclami guerreschi, come quelli lanciati ad ogni piè sospinto da Kallas, Rutte, von der Leyen, ecc., e intenzioni per nulla nascoste di imitare le ricette che Trump vorrebbe propinare alla popolazione statunitense e al mondo intero. È davvero deplorevole che 446.735.291 cittadini europei, un numero ben superiore alla popolazione degli Stati Uniti, debbano sottostare alle pericolosissime fanfaluche di una responsabile della politica estera, tale Kallas appunto (ma non Maria, dato che invece di armoniosi gorgheggi emette stridule urla bellicose) che proviene da un minuscolo staterello baltico, ha un conto personalissimo aperto con la Russia e blatera a ogni piè sospinto della necessità di prepararsi alla guerra. La stragrande maggioranza della popolazione in Italia ma anche nel resto d’Europa è assolutamente contraria a questa roulette russa che favorisce e fa ingrassare solo i trafficanti di armi e le lobby energetiche statunitensi, mentre colpisce duramente, oltre che le tasche dei cittadini colpite dal caro-energia e dalla destinazione alle spese militari di quelle sociali, le industrie italiane e di altri Paesi che da sempre hanno intrattenuto rapporti di mutuo beneficio con la Russia, così come con la potenza economica cinese con la quale vanno intensificati i rapporti di cooperazione su tutti i piani.

Crosetto e, sia pure con minor cognizione di causa come gli è abituale, Salvini – e altri – mugugnano senza costrutto. Né si può sperare che abbiano il coraggio di dire apertamente, una volta tanto, qualcosa che vada a vantaggio del popolo italiano che vuole la pace (e anche i condizionatori, nei limiti del possibile). Il Pd dal canto suo oscilla in modo schizoide tra l’appoggio al riarmo sfrenato e il sorprendente voto contrario sulla risoluzione maccartista del Parlamento europeo che inaugura una nuova stagione di caccia alle streghe equiparando dissennatamente nazismo e comunismo, senza tenere conto del fatto che la falce e il martello sono stati e continuano ad essere in moltissimi casi simboli di civiltà e di progresso, e che il nazismo fu sconfitto proprio grazie al sacrificio immenso del popolo sovietico, come riconosciuto di recente perfino da Donald Trump.

La nostra Giorgia Meloni è data unanimemente in pole position nei rapporti tra il nuovo imperatore dai capelli tinti e l’Europa, date le affinità ideologiche e i rapporti amichevoli che ha saputo costruire sia con Trump che con Musk. Ma occorre chiedersi a cosa le servirà questa corrispondenza di amorosi sensi quando si parlerà, e già se ne parla, di dazi da infliggere o di spese militari da scaricare, dato che Donald è persona estremamente concreta e pragmatica e da quell’orecchio non ci sente proprio.

Nel frattempo, l’Italia è sicuramente in prima fila dal punto di vista dell’imitazione servile dei peggiori aspetti del trumpismo. Si veda l’approccio al tema dei migranti, che le destre vorrebbero relegare in eterno nel limbo dei senza-diritti, destinati solo ad essere sfruttati selvaggiamente o spinti alla disperazione e alla delinquenza per avere modo di riaffermare le proprie politiche repressive e liberticide, nei confronti degli stessi migranti ma anche di un numero crescente di indigeni italiani. Oppure l’ostilità nei confronti della Corte penale internazionale: dopo l’immunità preventiva concessa a Netanyahu nonostante il mandato di cattura che lo ha raggiunto, il governo ha toccato nuovi livelli di inaccettabile antigiuridicità col rifiuto di ottemperare all’ordine di arrestare il criminale libico Almasri, probabilmente per evitare che facesse nomi e cognomi di politici o funzionari italiani che, sotto il tetto degli Accordi italo-libici, sono stati suoi complici nella commissione dei crimini contro l’umanità, comprensivi di sequestri, uccisioni, torture e stupri che gli vengono addebitati.

L’ostilità nei confronti dello Stato di diritto e della magistratura non servile costituisce in effetti un sicuro aspetto di convergenza tra Meloni e Trump, entrambi impegnati nel tentare di travolgere ogni ostacolo di ordine normativo e giudiziario alle loro azioni e progetti più o meno folli, si tratti di muro alla frontiera con il Messico o di lager albanesi. Meno zelante appare invece Meloni nel promuovere la pace con la Russia, dato che in tal caso decide di subordinarsi alla von der Leyen, a Rutte e alla suddetta Kallas. In fondo ci ricorda un po’, da brava sottonista, l’Arlecchino servitore di due padroni di goldoniana memoria, favorita, in questo suo sforzo di saltimbanco della politica, dell’appoggio tacito e palese di buona parte del Pd.

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giovedì 30 gennaio 2025

Nazisti su Marte - Marco Sommariva

 

Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di deportare in massa i vecchi o a chi ha deciso di deportare in massa su un pianeta-penitenziario, tutti coloro che sulla Terra disturbano l’equilibrio della società.

 

Leggo che ieri, 20 gennaio 2025, Donald Trump ha detto e poi ripetuto che “l’età dell’oro dell’America comincia in questo momento”; l’ha fatto all’inizio e alla fine del discorso d’inaugurazione che voleva celebrare la rinascita di un Paese “forte, ricco, sicuro, in crescita e in espansione territoriale, e che nessuno potrà fermare”.

Fra le tante cose, “Trump ha anche promesso di «riprendersi il canale di Panama» […] di mettere fine alle politiche ecologiche del New deal verde (e alle quote di veicoli elettrici fissate da Joe Biden) per dichiarare una «emergenza energetica nazionale» che autorizzerà la più grande trivellazione di petrolio e gas della storia [e che questa] ondata di «oro liquido» finanzierà a sua volta un’espansione dell’apparato militare americano che metterà gli Stati Uniti in condizione di «vincere come non mai»”.

Non che quanto sopra m’abbia sorpreso, sia chiaro: duranti i mesi scorsi, spesso s’era letto delle intenzioni del tycoon, deportazione di massa compresa.

In un articolo pubblicato il novembre scorso su Avvenire  avevo letto che, durante la campagna elettorale, Donald Trump aveva promesso che la deportazione di massa non porterà che benefici: “Ci libereremo dai criminali e i salari dei cittadini statunitensi smetteranno di scendere” – la deportazione di massa in questione prevedeva l’arresto, detenzione ed espulsione dagli Stati Uniti di circa undici milioni d’immigrati.

L’articolo proseguiva facendo presente che gli esperti di immigrazione mettevano in dubbio la riuscita di un’operazione del genere, sottolineando il fatto che presentava ostacoli, costi ed effetti negativi enormi.

Non vorrei dilungarmi troppo su ostacoli, costi ed effetti negativi, ma ammetto di non esser rimasto indifferente nel leggere che, logisticamente, arrestare detenere ed espellere undici milioni circa di persone è “un’impresa ciclopica, impossibile da realizzare nei quattro anni di mandato di Trump” – parole di Aaron Reichlin-Melnick, direttore dell’American Immigration Council – e che, più nello specifico, ogni anno, per deportare un milione di immigrati, servirebbero ottantotto miliardi di dollari.

Mi ha pure impressionato leggere che “se effettivamente l’operazione riuscisse, i ricercatori concordano che equivarrebbe a un «disastro economico» per gli Stati Uniti. La rimozione dalla forza lavoro di così tante persone comporterebbe infatti perdite di decine di miliardi di dollari in tasse federali e statali e in contributi previdenziali, oltre a 256 miliardi di dollari di potere di spesa degli immigrati stessi” oltre al fatto che “il contraccolpo dell’assenza di manodopera sarebbe sentito con forza anche nell’ambito dell’ospitalità, delle pulizie, della produzione manifatturiera e dei servizi agli anziani […] le cucine dei ristoranti si svuoterebbero, e nessuno pulirebbe più le stanze degli alberghi”.

Ma la cosa che più di tutto mi ha spaventato è stato l’utilizzo della parola deportazione: “President-elect Donald Trump intends to launch a «light speed» mass deportation campaign as soon as he «puts his hand on that Bible and takes the oath of office», top aide Stephen Miller has boasted”, ossia, “Il presidente eletto Donald Trump intende lanciare una campagna di deportazioni di massa «alla velocità della luce» non appena «metterà mano su quella Bibbia e presterà giuramento», si è vantato il principale aiutante Stephen Miller”.

Per la Treccani, il significato di deportazione è la “pena mediante la quale il condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del commesso reato o di residenza e relegato in un territorio lontano dalla madrepatria”, e a questo punto mi vengono in mente le parole di Albert Camus che, nel ’58, scrisse: “Per ristabilire la giustizia necessaria, esistono altre vie che non siano la sostituzione di un’ingiustizia con un’altra ingiustizia” – una frase presa da un libro intitolato Ribellione e morte, che raccoglie diversi suoi saggi politici.

Di questo volume vale la pena ricordare altre due affermazioni dello scrittore e filosofo francese, stavolta datate 1948: “Tutti, con poche eccezioni di mala fede, da sinistra a destra, pensano che la propria verità sia la più adatta a rendere felici gli uomini. Tuttavia, tutte queste buone volontà congiunte mettono capo a un mondo infernale dove gli uomini sono ancora uccisi, minacciati, deportati, dove si prepara la guerra e dove è impossibile dire una parola senza essere subito insultati o traditi” e “Soffochiamo tra gente che crede di aver assolutamente ragione, ragione in nome delle macchine o delle idee”.

Ricordo bene le deportazioni di milioni di persone in lager, gulag e strutture similari, ma ho deciso di non avventurarmi in qualsivoglia parallelismo perché sono certo finirei col commettere errori e sono altrettanto sicuro che, coi tempi che corrono, a nulla servirebbe spiegare la mia buonafede.

Detto questo, torno a ragionare sulla “deportazione” chiedendo aiuto alla letteratura. Nel 1971 viene pubblicato un romanzo di Friedrich Dürrenmatt, La caduta; è un libro spietato in cui l’autore mette a nudo le ipocrisie e le ambiguità delle strutture al potere, dove gli uomini più potenti di un partito al potere di un paese imprecisato ne decidono le sorti stando comodamente seduti intorno a un tavolo: “I tredici del segretariato politico disponevano di un potere immane. Decidevano le sorti di quell’immenso impero, mandavano innumerevoli persone in esilio, in carcere e alla morte, intervenivano nell’esistenza di milioni di cittadini, facevano nascere industrie intere dal nulla, deportavano famiglie e popoli, fondavano grandi città, reclutavano eserciti innumerevoli, imponevano la guerra o la pace, ma poiché il loro istinto di conservazione li costringeva a spiarsi a vicenda, le simpatie e le antipatie che provavano l’uno per l’altro influenzavano le loro decisioni assai più che i conflitti politici e le circostanze economiche a cui si trovavano di fronte. Il potere e di conseguenza il terrore reciproco erano troppo grandi per poter fare della pura politica. La ragione non riusciva a spuntarla”.

È così, non c’è dubbio, chi dispone di un potere immane può intervenire nell’esistenza di milioni di persone, deportare popoli interi. È così, la Storia lo insegna. Il problema è che siamo noi a non essere in grado d’imparare, e alla fine commettiamo sempre gli stessi errori, consegniamo poteri immani nelle mani di qualcuno.

Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di deportare in massa i vecchi, così come racconta l’argentino Adolfo Bioy Casares nel suo romanzo del ’69, Diario della Guerra al Maiale, dove i giovani di Buenos Aires decidono un bel giorno che chiunque abbia più di cinquant’anni è inutile alla società scatenando, così, una strana e misteriosa guerra durante la quale, per una settimana, i giovani s’impegnano a dare la caccia ai vecchi, e a sterminarli: persino il loro erotismo verrà considerato pura perversione, un’oscenità da eliminare. Nel Diario della Guerra del Maiale i vecchi si vedono costretti a improvvisare una difesa disperata: imparano a muoversi per la città in orari improbabili e a vivere nascondendosi dai giovani, compresi i loro figli: “In questi giorni ho sentito parlare di un progetto di compensazione: l’offerta, alla gente anziana, di terre nel Sud”, “Lo dicano chiaramente e direttamente che vogliono deportare in massa i vecchi”.

Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di deportare in massa su un altro pianeta i ribelli, i criminali, i non-conformisti, tutti coloro che sulla Terra disturbano l’equilibrio della società, tutti quanti spediti su un pianeta-penitenziario e qui, magari, lasciati in totale libertà, nessuna prigione, niente celle, sbarre o carcerieri, si regolino a loro piacere, s’ammazzino pure: sarà mica per questo che, durante il suo discorso d’insediamento, Trump ha nuovamente ricordato che gli U.S.A. pianteranno la loro bandiera su Marte? Gli appassionati di fantascienza avranno già capito che questa mia elucubrazione s’è ampiamente ispirata al romanzo del 1960 di Robert Sheckley, Gli orrori di Omega, dove, tra le altre cose, si racconta di astronavi che pattugliano l’orbita del pianeta-penitenziario perché i galeotti non abbandonino il mondo su cui son stati esiliati: sarà mica per questo che due amici di Trump – Jeff Bezos ed Elon Musk – hanno dato vita alla corsa allo spazio, a una sfida stellare?

Dico che Bezos e Musk sono amici di Trump perché, insieme a Mark Zuckerberg e Tim Cook, c’erano anche loro accanto al tycoon durante l’Inauguration Day. Spero mi perdonerete se vi confido che quest’immagine del neopresidente degli Stati Uniti e di questi quattro signori, mi ha fatto venire in mente il discorso d’insediamento a Cancelliere del Reich di Adolf Hitler quando, a Berlino, nel febbraio del 1933, orbitavano intorno al fuhrer personaggi quali Josef Goebbels, Hermann Goering, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; chiedo sinceramente scusa per questo mio corto circuito, ma credo sia scaturito per via del fatto che, così come Hitler nel ‘33 preannunciava durante il discorso d’insediamento il suo piano per riportare grande la Germania, similmente Trump ha preannunciato durante il discorso d’insediamento il suo piano per riportare grande gli Stati Uniti d’America; ma, molto probabilmente, la più grande responsabilità di questa mia fantasia poco ortodossa e assai irrispettosa, lo ammetto, sarebbe da addebitare all’aver assistito al saluto romano di Musk dal palco di Washington dopo il discorso di Trump. Anche se, alla fin fine, “quel gesto, che alcuni hanno scambiato per un saluto nazista, è semplicemente Elon, che è autistico, che esprime i suoi sentimenti”, come dice il referente di Musk in Italia, Andrea Stroppa.

E nulla cambia se, alla fine, i saluti col braccio destro alzato e il palmo della mano rivolto verso il basso dovessero risultare due e non uno: sono certo nulla c’entrino simpatie come quella dimostrata verso l’Alternative für Deutschland – partito politico tedesco di estrema destra –, ma che si tratti di sana e genuina esternazione di entusiasmo e felicità, insomma, di semplice espressione di sentimenti.

La grandezza della Germania… quella degli Stati Uniti d’America… le deportazioni di massa… mi viene in mente cosa scrisse Orwell: “Tutti i nazionalisti hanno la straordinaria capacità di non cogliere la rassomiglianza tra serie simili di fatti. […] Le azioni non sono buone o cattive di per sé ma in relazione a chi le compie e non esiste quasi alcun genere di violenza – la tortura, l’uso di ostaggi, il lavoro forzato, le deportazioni di massa, l’arresto indiscriminato, la mistificazione, l’assassinio, le bombe sugli inermi – che non cambi significato morale se commessa dalla “nostra” fazione” – frase tratta da una raccolta di suoi saggi intitolata Nel ventre della balena.

Data la mia personalissima impressione che le nuove ideologie sembrino assomigliarsi sempre più a quelle vecchie, chiuderei con un’altra frase di Camus, anche questa del ‘48: “non si tratterebbe di edificare una nuova ideologia, ma soltanto di ricercare uno stile di vita. […] per parlare con più concretezza […] opporre, in ogni circostanza, l’esempio alla forza, la predicazione alla dominazione, il dialogo all’insulto e il semplice onore all’astuzia […]”.

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arriva DeepSeek

 


I tre motivi per cui DeepSeek rappresenta una svolta epocale - Loretta Napoleoni

Ironia della sorte vuole che la prima iniziativa high tech che avrà un impatto positivo per il ben comune arriva dalla Cina. DeepSeek, il nuovo sistema di intelligenza artificiale Made in China che lunedì ha fatto crollare i listini di borsa imponendo ai big del settore tecnologico una perdita di 750 miliardi di dollari prima dell’apertura del mercato americano, la settimana scorsa ha pubblicato la metodologia del funzionamento del suo modello R1. E’ un evento epocale per una serie di motivi.

In primis, la scelta dell’open source, i.e. la divulgazione della metodologia, cozza contro il sistema di segretezza e la struttura oligopolista del settore high tech statunitense. Nel secondo caso, l’obiettivo e’ quello di massimizzare i profitti, principio cardine del capitalismo, nel primo caso, invece, DeepSeek ‘regala’ al mondo le sue scoperte e l’innovazione tecnologica incoraggiandone l’uso per migliorare l’efficienza dell’intelligenza artificiale. Un gesto che e’ stato apprezzato dall’industria high tech mondiale e che potenzialmente potrebbe polverizzare il monopolio statunitense in questo settore.

In secondo luogo, DeepSeek ha utilizzato capitale umano ad altissimo livello pagandolo molto, capitale umano reclutato esclusivamente in Cina e proveniente dalle migliori università cinesi, non americane. La scelta riflette la volontà di produrre un prodotto interamente cinese ed il successo di DeepSeek e’ un segnale che in termini di ricerca ed innovazione tecnologica la Cina ormai cammina da sola. Ci troviamo di fronte ad un sorpasso? La risposta per ora e’ negativa, ma stiamo assistendo ad una rimonta che potrebbe tradursi in un sorpasso per un semplice motivo, la legge dei grandi numeri. La Cina dispone di un potenziale capitale umano da cui attingere molto piu’ grande di quello a disposizione degli Stati Uniti, anche includendo quella fetta del mondo da cui questi ultimi attingono capitale umano regolarmente.


La scelta Made in China di Liang Wenfeng, il fondatore e creatore di DeepSeek, ricorda quella di Mao che a differenza dell’élite rivoluzionaria cinese, come ad esempio Deng Xiaoping, non subì mai il fascino dell’occidente e non viaggiò, ne’ studiò mai in Europa. E la storia dimostra che aveva ragione.

In terzo luogo, DeepSeek ha ottenuto risultati simili a quelli dei modelli americani di intelligenza artificiale con costi molto piu’ bassi ed utilizzando una frazione dell’hardware, in particolare i microconduttori. Il motivo? Il tipo di intelligenza creato. DeepSeek è strutturato per far pensare l’intelligenza artificiale, la risposta alle domande scaturisce da un processo che mimica il ragionamento umano. Invece di pescare la risposta giusta in un pozzo di dati colmo fino all’orlo, DeepSeek utilizza solo una frazione di quei dati per generare autonomamente la risposta giusta. Il pozzo a disposizione di DeepSeek e’ solo per metà pieno, e questo spiega i costi piu’ bassi ed il minor utilizzo di hardware.

Se il nuovo processo cognitivo avrà successo, come si pensa, allora il modello americano, che poggia sull’espansione dell’hardware, su quella del consumo energetico, su investimenti da capogiro diverrà obsoleto. Allo stesso tempo il protezionismo dell’high tech Made in America che Donald Trump si accinge a mettere in atto non avrà alcun impatto, con le immaginabili apocalittiche conseguenze per il mercato azionario occidentale.

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mercoledì 29 gennaio 2025

Il sottomarino Kronos: ovvero come le autorità ucraine continuano a sottrarre soldi al bilancio dello Stato italiano - Eugenio Fratellini

 

Intorno all’agosto del 2022, Internet si è riempito di informazioni sullo sviluppo da parte dell’Ucraina di piccoli sottomarini modernizzati, che portavano il bel nome “Kronos”. Ufficialmente, lo sviluppo è stato portato avanti dall’azienda ucraina “Ukroboronprom” insieme alla società britannica Highland System, i cui impianti di produzione si trovano nella città di Ras El Khaimah, negli Emirati Arabi Uniti. Inoltre, l’azienda italiana Leonardo, che, come tutti sanno, riceve uno stanziamento significativo dal bilancio statale d’Italia, è stata direttamente coinvolta nello sviluppo di questi prodotti del futurismo militare in termini finanziari.

Il dispositivo in sé è una “navicella spaziale” subacquea (lunghezza – 9 metri, larghezza – 7,4 metri, velocità sulla superficie dell’acqua – 80 km/h, sott’acqua – circa 60 km/h, in grado di trasportare fino a 10 membri dell’equipaggio e fino a 10 tonnellate di carico. Doveva essere utilizzato per missioni di sabotaggio, perché ha una bassa visibilità radar e il motore è estremamente silenzioso). Su fonti ucraine cominciarono ad apparire anche diversi video che mostravano presunti test di successo di questa “wunderwaffe”. Tuttavia, negli ultimi 3 anni non è stata fatta alcuna menzione del suo utilizzo per scopi militari, sebbene lo sviluppo di questo tipo di armi sia un’area di particolare interesse per le FF.AA. ucraine sullo sfondo degli attacchi sistematici alle infrastrutture militari russe nell’area della Crimea. Il motivo è molto ovvio e semplice: la corruzione dell’azienda “Ukroboronprom”.

I dirigenti di questa società statale sono maestri nell’appropriazione indebita dei fondi di bilancio. Ad esempio, nell’ottobre del 2022 hanno dichiarato di essere al lavoro su un nuovo drone ucraino in grado di raggiungere Mosca (raggio d’azione: fino a 1000 chilometri, massa della testata: 75 chilogrammi). Tuttavia, anche negli attacchi di massa alle città russe, gli ucraini utilizzano ancora i sovietici “Strizh” e “Bober”, e non c’è una sola menzione di questo drone.

Un anno fa questa azienda aveva promesso di avviare la produzione di armi leggere secondo gli standard della NATO, ma finora tutti i militari ucraini sono ancora riforniti di Kalashnikov sovietici e i fucili occidentali vengono acquistati esclusivamente con i propri soldi o con donazioni.

E di recente hanno introdotto un nuovo missile “Peklo”, in grado di colpire oggetti a una distanza fino a 700 chilometri. Ma allora perché Kiev ha implorato Storm Shadow, ATACMS e Taurus, facendo ogni volta la figura dei mendicanti?

Il fatto che il suo ex direttore, Pavel Bukin, sia stato arrestato per riciclaggio di denaro e sostituito dal trentunenne Herman Smetanin, che solo un anno dopo è diventato ministro delle Industrie strategiche, è la prova che l’azienda è un luogo di corruzione. Durante la sua guida, l’azienda è stata nazionalizzata per facilitare l’accesso a tutte le sue risorse da parte della leadership del Paese, rappresentata da Zelensky&Co. Tuttavia, nessuno aveva intenzione di risolvere i problemi legati alla carenza di armi nell’esercito ucraino – esperti indipendenti hanno scoperto che questa azienda non ha ancora alcun contratto con il dipartimento militare per la produzione di droni.

Che ne sarà di Kronos? Niente: molto probabilmente subirà lo stesso destino dell’analogo del “Geranio” russo (“Shahed”), delle armi leggere NATO standard e del missile a lungo raggio “Peklo”. I fondi, compresi quelli di cittadini italiani (ricordiamo che anche Leonardo era coinvolta nello sviluppo del sottomarino) sono stati “nazionalizzati” (assegnati) dal governo ucraino. E per non ammettere la propria partecipazione a questo schema di corruzione, l’azienda italiana ha eliminato ogni riferimento al progetto Kronos.

Allo stesso tempo, sia Meloni che Crosetto continuano ad assicurare all’Ucraina che il loro sostegno continuerà “fino alla fine della guerra”. Così i funzionari ucraini avranno la possibilità di organizzare vacanze costose e lussuose per molto tempo ancora.

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Montblanc, il lusso del Daspo sindacale - Marco Sommariva

 

La ricchezza aumenta, ma chi ti salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il sindacalista.

A ottobre dell’anno scorso ho letto sul quotidiano Avvenire  della protesta di un gruppo di lavoratori di Campi Bisenzio, dipendenti di due ditte cinesi che realizzavano borse per l’azienda tedesca Montblanc: immigrati di origine asiatica – quasi tutti pachistani e afghani – chiedevano di poter continuare a fare il loro mestiere in condizioni dignitose. La mobilitazione s’è spostata dai capannoni industriali alle vie del centro di Firenze, dove ha sede la boutique che, accanto alle storiche penne, vende borse e altri oggetti di pelletteria. Nel frattempo, altri presidi erano stati organizzati davanti ai negozi di Milano, in galleria Vittorio Emanuele, e a quelli di Napoli, Roma, Bologna e Verona.

In quell’occasione, il sindacato Sudd Cobas aveva denunciato “la vergogna di operai pagati tre euro l’ora per turni di dodici ore al giorno che producono borse da 1.700 euro” e chiesto alla Regione Toscana di convocare al tavolo il gruppo Richemont, proprietario del marchio Montblanc, in merito alla vicenda del taglio e successivo azzeramento delle commesse alle ditte cinesi: scelta non dettata da motivazioni di carattere produttivo, ma da una ritorsione rispetto alla mobilitazione sindacale avviata nel 2023 per chiedere salari e orari equi.

Riguardo la spinosa situazione creatasi, il gruppo svizzero Richemont – uno dei giganti del lusso mondiale specializzato in gioielli, orologi e accessori di moda con un fatturato di oltre 20 miliardi di euro e un utile operativo di quasi cinque miliardi nel 2024 – parrebbe aver rilasciato, all’epoca, la sola dichiarazione che l’interruzione del rapporto con le due ditte è il risultato del loro mancato rispetto del codice etico del Gruppo.

Il 21 gennaio scorso, il quotidiano La Nazione – titolando l’articolo Montblanc chiede il ’daspo sindacale’  – è tornato sull’argomento per informare che, per tutelare “la propria reputazione”, il brand del lusso ha richiesto al Tribunale di Firenze (Sezione Civile) di emettere nei confronti del Sudd Cobas un divieto a manifestare nel raggio di cinquecento metri dalla boutique di via Tornabuoni, nel salotto buono di Firenze, pena sanzioni da cinquemila euro.

Da una parte, Montblanc accusa il sindacato e alcuni suoi appartenenti d’aver “ripetutamente formulato, e continuano a formulare, accuse false e diffamatorie nei confronti dell’azienda in merito a presunte condotte scorrette nei confronti dei dipendenti di un ex fornitore”; dall’altra, i Sudd Cobas accusano Montblanc d’aver “deciso di scrivere una delle pagine più indegne della storia delle politiche antisindacali di questo paese”.

Ho provato a parlare di questa vicenda con amici e colleghi, ma nessuno era a conoscenza dell’episodio e, per il sottoscritto, già questo è un interessante argomento su cui riflettere.

Informati a grandi linee dell’accaduto, ho raccolto diversi commenti.

C’è chi mi ha detto che è tutto inutile, che la protesta di questi lavoratori non servirà a nulla, ma non mi hanno convinto: ero e resto d’accordo con quanto scritto da Stig Dagerman nel suo libro La politica dell’impossibile: “[…] è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza […] che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici. E tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna”.

Ecco, intanto s’inizi a non morire di vergogna, prima di morir di fame.

C’è chi ha detto che i sindacalisti che si stanno esponendo rischiano grosso e su questo, invece, son d’accordo: “Conosco l’ambiente dell’industria, perché l’ho visto, sono entrato nelle fabbriche, nelle officine; ho visto i padroni seduti al tavolo delle trattative o nel proprio ufficio, mi hanno indicato le loro case, mi hanno mostrato le loro proprietà, ho visto le loro auto davanti alla fabbrichetta, e sono entrato nei loro negozi; […] uno l’ho guardato da vicino, vicinissimo, quando ha tentato di investirmi” – scriveva Paco Ignacio Taibo II nella sua raccolta di racconti intitolata E doña Eustolia brandì il coltello per le cipolle.

C’è anche chi ha detto il contrario, ossia che i sindacalisti sono quelli che rischiano meno di tutti perché, a breve, verranno sicuramente avvicinati da “qualcuno” e convinti a passare dall’altra parte della barricata, e questa purtroppo non è una novità: “[…] ti buttano addosso merda a palate, e poi ti dicono, vieni con noi, qui c’è un buon posto, farai i soldi in fretta… ma quello che vogliono da te è che diventi obbediente come un cane, e che tutto quello che hai imparato come sindacalista lo usi per controllare i lavoratori” – ancora Taibo II.

C’è anche chi ha detto a chiare lettere che i sindacalisti sono solo dei rompicoglioni, un po’ come scriveva il buon Valerio Evangelisti nel suo bel romanzo One Big Union: “Siamo usciti dalla crisi della fine degli anni Novanta. Stiamo entrando in un periodo di prosperità. C’è lavoro, si produce, la ricchezza aumenta. I poveri non sono più per strada a fare lavori inutili, disposti da sindaci e governatori troppo buoni. E chi ti salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il sindacalista, il socialista, l’anarchico”.

In One Big Union, il protagonista – un giovane meccanico americano, religioso, affezionato alla famiglia, con pregiudizi razziali e un patriottismo che sconfina nel nazionalismo – s’infiltra nei sindacati col fine di combattere gli scioperi e riportare la disciplina fra i lavoratori, per conto di agenzie investigative come la Pinkerton e la Burns (da cui nascerà l’FBI) – agenzie pagate da industriali e grandi proprietari. Attraverso le sue vicissitudini, si seguono i grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento sino all’epopea, nei primi vent’anni del Novecento, dell’Industrial Workers of the World, l’organizzazione che cercò di unificare gli operai precari e non specializzati di tutte le etnie, usando armi inedite quali i volantini multilingue, la canzone e il fumetto.

Ma torniamo agli operai precari di tutte le etnie dei giorni nostri.

Fra le varie reazioni, c’è stato anche chi ha sostenuto che il sindacato continua ad avere troppo potere, e così mi è venuto in mente 1985, l’interessante romanzo di Anthony Burgess basato sull’opera di George Orwell, 1984, da cui trae spunto per il titolo. È un libro dove, in un futuro dominato dai sindacati e oramai completa­mente allo sfascio, il protagonista decide di non sottostare alla disciplina collettiva e così, dopo aver ascoltato le ultime parole della moglie bruciata viva in un ospedale durante uno sciopero dei pompieri – «Non permettere che vadano impuniti» –, inizia la sua lotta solitaria, ca­parbia e disperata, in nome della libertà di scelta tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra la volontà e la convenienza.

Ascolto tutti, son fatto così.

Ascolto tutti, ragiono sull’elucubrazioni altrui e poi vedo cosa m’è rimasto in mano.

Stavolta resto con la sensazione che, tempo fa, per non danneggiare la propria immagine, una ditta come la Montblanc non si sarebbe avventurata in una querelle di questo genere e che se, invece, oggi succede è perché s’è pensato che, al contrario, l’immagine non solo non verrà danneggiata ma, chissà, magari ne trarrà addirittura qualche giovamento, un beneficio. Ma, ripeto, è solo una mia personalissima sensazione, frutto anche dei commenti da me raccolti, poco o nulla in sintonia coi lavoratori pachistani e afghani.

Purtroppo, è tutto qui quanto m’è rimasto in mano.

Se penso alle marce e alle battaglie ferocissime ascoltate, viste e vissute per decenni, per la conquista di diritti sociali e civili…

Meno male che i Miei non son più qui a veder tutto ‘sto sfacelo.

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Roger Waters - Il buono, il brutto e il cattivo

 


martedì 28 gennaio 2025

LA SCUOLA, I SAPERI - Alberto Giovanni Biuso

Nel novembre del 2024 (esattamente il 16 e 17) si è svolto a Vicenza un convegno dal titolo Salvare i saperi per salvare la scuola. Ad aprirlo è stata Elisabetta Frezza. In un quarto d’ora Frezza è riuscita a sintetizzare con grande chiarezza (e coraggio) le radici dell’ignoranza che affligge sempre più le scuole e le università italiane e occidentali, a partire dalla colonizzazione da parte della mentalità e della pedagogia statunitense, la quale ha totalmente fallito in quel Paese ma – come diceva Elémire Zolla – gli italiani hanno un particolare talento a nutrirsi dei rifiuti altrui.

In realtà, anche a partire dalla mia esperienza di docente liceale e universitario, io credo che la scuola sia semplicemente morta. Ad apparire è un suo fantasma, destinato naturalmente presto a dissolversi nel virtuale, negli algoritmi, nel digitale. Di per sé, il virtuale, gli algoritmi e il digitale possono essere utili ma soltanto se e quando rimangono nella loro dimensione propria, che è quella di tecnologie rivolte a degli scopi ben precisi e circoscritti. Se invece, come sta accadendo con una progressione all’apparenza inarrestabile, diventano la linfa della vita collettiva, il corpo sociale si ammala di leucemia. E muore nella sostituzione dei professori e degli insegnanti, delle persone vive, con dei software magari dotati di interfaccia robotica. I docenti che sostengono con masochistico entusiasmo o con passiva rassegnazione queste modalità non si rendono conto di tagliare il ramo sul quale siedono. Se la lezione viva viene sostituita da un insieme di tecnologie digitali, perché non sostituire l’intero corpomente del docente con un software/robot, come accade già in altri ambiti della vita sociale? Credo che questo sia uno degli obiettivi ultimi dell’ideologia didatticista impartita in modo ossessivo e autoritario anche ai docenti che si preparano ai concorsi. Una didattica che farà a meno di loro.

Insegnare e apprendere costituiscono invece una corporeità vivente e vissuta. Non un insieme astratto di parole, di dati, di informazioni ma un corpo che si confronta con altri corpi in uno spaziotempo condiviso. Insegnare significa abitare un luogo politico fatto di dialoghi, di conflitti, di confronto fra concezioni del mondo e pratiche di vita. Insegnare non significa erogare informazioni ma scambiare saperi.

L’effetto di tale inaridimento, il cui primo obiettivo è cancellare la storia e i saperi millenari dell’Europa, è che, certo, arrivano ancora in università studenti di grande intelligenza, i quali – se metodologicamente indirizzati – sanno raggiungere risultati eccellenti. Ma questo è il vertice. La base, che vedo affluire anno dopo anno, è composta in media da persone che semplicemente non sanno leggere, anche perché nessuno glielo ha insegnato; non conoscono la lingua italiana, la storia, la geografia, la matematica, anche perché nessuno glielo ha insegnato; non sanno di conseguenza scrivere, commettendo errori di grammatica e sintassi elementare, anche perché nessuno ha insegnato loro la fatica e la gioia della scrittura. Hanno ricevuto la pietra delle ‘competenze’ (impalpabili e inesistenti) invece del pane delle conoscenze.

Su queste basi, l’Italia e l’Europa sono destinate a fornire alla globalizzazione soltanto manodopera generica e di basso livello. Nelle scuole indiane, cinesi, russe, si chiede invece agli studenti un impegno totale (a volte persino esagerato) e chi non riesce a raggiungere livelli adeguati di preparazione passa semplicemente ad altre mansioni. In Italia una laurea invece non si nega a nessuno, figuriamoci un diploma di scuola secondaria. Li si regalano, semplicemente, perché non valgono niente. Ed è facile regalare ciò che non ha valore – la plastica, ad esempio –, molto meno ciò che valore invece possiede, come l’oro. I cittadini italiani conseguono diplomi e lauree di plastica, dopo aver ottenuto le quali vengono gettati in pasto al tritacarne socioeconomico del capitalismo globalizzato.

La scuola è morta e l’università è moribonda e tuttavia l’integrale disincanto, necessario per vivere e per pensare tenendo conto del principio di realtà, non deve mai essere separato dalla tenacia e dalla lucidità con le quali agire nel mondo. La formula di Burckhardt e dei Greci sul pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà deve guidare ogni pensiero e ogni respiro di chi insegna.

Questo è il testo di presentazione del convegno vicentino:

«Dopo il primo convegno dedicato all'istruzione, dal quale è nato il libro Per una scuola che torni a essere scuola con il convegno Salvare i saperi per salvare la scuola ContiamoCi! prosegue l’analisi del sistema scolastico italiano, la cui febbrile degenerazione impone con urgenza di reagire. Lungi dal porre rimedio ai danni già prodotti da decenni di sperimentazione pedagogica su modello americano, si sta procedendo a una velocità sempre più vertiginosa verso la demolizione di ogni baluardo di cultura. Nel regno delle competenze, dell'ideologia e del digitale, dove non c'è più spazio per i saperi, i docenti sono relegati al ruolo di assistenti e di animatori. E l’inestimabile patrimonio di conoscenze e di bellezza frutto di secoli e secoli di storia rischia di restare inaccessibile alle generazioni a venire, lasciate in balia degli algoritmi nella spirale dell’ignoranza e della alienazione».

E questo è il link al video di Frezza, la quale nulla trascura, mostrando in modo limpido le ragioni e i modi che hanno condotto al dramma educativo e politico nel quale siamo immersi:

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ricordo di Gianfranco Manfredi

 











Ciao Gianfranco…… Ma chi ha detto che non c’è…. - Marco Sommariva

Quest’oggi io non voglio essere triste. Fu Gianfranco Manfredi a convincermi che ero uno scrittore. E’ morto all’età di 76 anni Gianfranco Manfredi: cantautore, fumettista, scrittore, attore, sceneggiatore. Il ricordo di Marco Sommariva

Nel 2008 Marco Tropea pubblicò un mio romanzo. S’intitolava Il venditore di pianeti ed era già uscito due anni prima per le edizioni di Sicilia Punto L. Come aveva fatto Tropea a scoprirmi? Semplice. Fu Gianfranco Manfredi, all’epoca edito da Marco, a segnalarmi. Gianfranco aveva letto alcune mie cose grazie a un mio lettore della provincia di Parma che gliele aveva spedite a casa perché riteneva io meritassi, bontà sua, una vetrina più ampia. Gianfranco cosa fece secondo voi? La cosa che nessuno s’aspetta da una persona che, solitamente, “ha ben altro da fare”: prese i miei libri inviatigli, li lesse, chiese il mio numero di cellulare al lettore che perorava la mia causa e mi chiamò per dirmi che, anche secondo lui, meritavo una vetrina più ampia spiegandomi che, tra Guanda e Marco Tropea, secondo lui, per i miei scritti, era meglio il secondo.

In realtà, il mio numero di cellulare non era mio ma della ditta per cui lavoravo e così, quando lo vidi suonare molto oltre l’orario di lavoro, decisi di non rispondere a quel numero sconosciuto. Non un grande esordio, insomma, ma per fortuna mi richiamò poco dopo e per fortuna decisi di rispondere.

Ora immaginatevi la scena del sottoscritto che, dall’altra parte del telefono, sente una persona col fiato corto che si presenta come Gianfranco Manfredi: non avreste risposto “Sì, va be’, e io sono Napoleone!”? Ma non ebbi il tempo di farlo perché la seconda cosa che subito mi disse Gianfranco fu: “Non sto scopando, ho il fiatone perché ho appena finito di spalare neve davanti a casa mia”. Pensai… questo dev’essere Manfredi veramente: da uno come lui mi aspetto proprio questa schiettezza.

Ovviamente, al primo appuntamento a Milano con Marco Tropea – era l’11 marzo 2004, il giorno degli attentati a Madrid – e, poi, pure al secondo incontro, volle esserci anche lui: entrambe le volte pranzammo tutti e tre in un ristorante vicino alla casa di editrice di Marco. Era tutta un’altra Italia, si respirava tutta un’altra aria: la prima volta mi presentarono Massimo Coppola, in quel momento impegnato nel fondare la casa editrice ISBN, la seconda volta mi presentarono Enrico Deaglio che ho poi rivisto ultimamente alla Fiera del Libro di Torino quando ho rilasciato l’intervista sulla letteratura distopica, ai tipi del programma Wonderland di Rai4.

I primi due pranzi furono, per me, una specie di terzo grado, ma non da parte di Gianfranco, bensì da parte di Tropea che aveva bisogno di capire chi fossi: lui non aveva ancora letto nulla di mio.

I pranzi che duravano circa un paio d’ore, si svolgevano pressappoco così: Marco chiedeva, io rispondevo guardando Gianfranco e Gianfranco ascoltava e sorrideva soddisfatto. Credetemi, senza quei suoi sorrisi non avrei mai trovato il coraggio di dire a Marco Tropea ciò che pensavo, e ciò che pensavo non erano sempre cose bellissime da ascoltare. Mi spiego meglio. Quando Tropea mi chiese se avessi mai letto libri pubblicati dalla sua casa editrice e se questi mi erano piaciuti, risposi che li avevo letti ma che, specialmente l’ultimo, non mi erano piaciuti – non chiedetemi perché neppure in occasioni come queste non riesco a raccontare una balla, non lo so.

Ovviamente, spiegai il perché di quella mia risposta, lo feci con calma e onestà intellettuale, ma sempre aggrappato al salvagente delle labbra di Gianfranco che parevano dirmi “Vai così che vai bene”.

Pensate mi sia fermato qui? Macché! Son pure arrivato a parlar male di un romanzo di Sepúlveda, al che il buon Tropea, stavolta un po’ piccato, mi chiese: “Tu sai chi ha portato Sepúlveda in Italia?” Non lo sapevo e… esatto!… era stato proprio lui.

Credetemi, in due pranzi ho inanellato una serie di risposte da far accapponar la pelle, tutte quelle che dovrebbe evitare chi brama d’esser pubblicato da un editore ben strutturato a livello nazionale, ma io ero sereno: già mi pubblicavano, e pazienza se era una casa editrice di dimensioni più ridotte ma, soprattutto, la tranquillità me la trasmetteva lui, Gianfranco che, e qui forse mi sto un po’ allargando, a volte pareva proprio gongolare per certe mie uscite: era lui che mi aveva portato a quel tavolo e pareva esserne fiero.

Come al lettore che gli spedì i miei lavori, anche a Gianfranco devo molto: probabilmente non sarei neppure qui a scrivere di lui se non mi avesse instradato.

Fu lui a scrivere una prefazione al mio romanzo Fischia il vento che già ne vantava una di don Gallo, e un’altra la scrisse per il mio saggio Pillole situazioniste.

Si pose nei miei confronti sempre in maniera orizzontale, mai salì su alcun pulpito.

Mi fece sempre dei gran complimenti, e forse il più grande fu l’unica volta in cui mi “sgridò”: più di vent’anni fa mi convinse che ero “un qualcosa” a cui non mi decidevo a credere, ossia, che ero uno scrittore, e usò più o meno queste parole: “Vengono pubblicati libri distribuiti in tutta Italia col tuo nome in copertina, quindi, quando ti firmi, quando ti presenti, devi dire che sei uno scrittore, se continuerai a nasconderti dietro il tuo lavoro in fabbrica sembrerà che non credi in quello che scrivi, e questo non è vero, io lo so, quindi, forza!, dài!”

Ha sempre risposto alle mie mail e ai miei messaggi: quando a marzo dell’anno scorso gli scrissi che stavo andando alla Fiera del Libro di Torino per conoscere di persona Marco Philopat, perché occorreva che mi mettessi d’accordo per un libro che spero esca l’anno prossimo per Agenzia X, lui mi rispose: “Philopat è una brava persona. Ti troverai bene”. Un po’ quello che mi disse di Tropea, quando mancavano pochi giorni al primo appuntamento.

Arrivammo persino a fantasticare di un romanzo da scrivere a quattro mani.

Insomma, Gianfranco mi adottò a fine 2003 e non mi mollò più, neppure quando era già malato, a marzo dell’anno scorso, appunto.

Col tempo s’allontanò leggermente rispetto ai primi anni, ma unicamente perché io crescessi ulteriormente, perché non mi venisse neanche lontanamente l’idea di restare nell’orbita di qualcun altro: dovevo camminare con le mie gambe, anzi, correre. Lo capii quasi subito, solo un leggero spiazzamento iniziale, poca roba: un po’ come quando si lascia la casa dei genitori per andare a vivere da soli.

Mi fermo qui perché non vorrei finire con l’annoiare ma oggi, 24 gennaio 2025, ci ha lasciato una persona che, per come l’ho conosciuta io, si comportava nella vita di tutti i giorni così come ve l’ho raccontato, in linea con i suoi scritti, le sue sceneggiature, le sue canzoni e, quindi, per il mio modo di vedere, si comportava bene, in quel modo che mi appartiene molto: resistere sempre, ogni momento, anche nella quotidianità, anche da soli, con parole e fatti.

Non so se ho fatto bene a ricordarlo in questa maniera, senza neppure elencare un’opera da lui realizzata, ma ho preferito così, e ho come l’impressione che ‘ste righe non gli sarebbero dispiaciute.

Lo scrittore Marco Sommariva, oggi, si sente un po’ più solo ma, sapete che vi dico?, forse sono un po’ svanito ma il domani non esiste e quest’oggi io non voglio essere triste.

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lunedì 27 gennaio 2025

Donald Trump e la “vittoria americana” sulla Germania nazista - George Zotov*

 

… bisogna ricordare come l'esercito USA avesse assestato un forte colpo ai tedeschi il 5 dicembre 1941, ricacciandoli di 200-300 chilometri da Washington. Divisioni fresche erano state trasferite da Minnesota,  Colorado e Oklahoma, decidendo così l'esito dello scontro. Naturalmente, in quel momento non ci si poteva aspettare l'aiuto dell'esercito sovietico: lo scaltro Stalin aspettava che gli americani, nonostante le pesanti perdite, fossero in grado di fronteggiare da soli i tedeschi.

Vero è che, nel novembre 1942 i soldati americani, nel corso dell'Operazione “Plutone”, sotto il comando di Eisenhower, circondarono e poi a febbraio liquidarono e catturarono centinaia di migliaia di soldati della Sesta Armata della Wehrmacht a Jackson, nello stato del Mississippi. Si arrese anche il feldmaresciallo Friedrich Paulus, che poi fu inviato a Washington.

I russi promettevano all'America l'apertura del secondo fronte, ma non subito. Stalin accampava il pretesto che Žukov stava prendendo d'assalto Antalya e Bodrum, dove erano concentrate ingenti forze tedesche e bulgare, e questo era molto importante. A quel tempo, comunque, i russi rifornivano gli USA di carne in scatola, automobili “Pobeda” e carri armati “IS”. Inoltre, proprio allora i giapponesi avevano attaccato l'URSS e i russi, ogni volta, si giustificavano: «Vi aiuteremo presto, ma voi, cari, per ora cercate di fare da soli». Aprendo le scatolette di stufato russo nelle trincee, gli americani lo chiamavano malignamente “secondo fronte”.

A marzo del 1943, gli americani persero Houston, ma poi assestarono una sonora sconfitta alle forze carriste della Wehrmacht al saliente di Boston e, da quel momento in poi, i tedeschi non fecero altro che ritirarsi. Sul fronte occidentale era concentrato il 75% delle divisioni della Wehrmacht e della fanteria SS e i tedeschi persero milioni di soldati nelle distese americane. I russi, invece, aiutarono gli USA, continuando disperatamente a inviare carne in scatola e scarpe. Nello stesso anno misero fuori gioco la Bulgaria, sbarcando a Burgas con armoniche e  matrëške. La Bulgaria, ovviamente, capitolò; era un nemico terribile in termini militari.

L'anno successivo, gli americani si scatenarono completamente. Già nel febbraio del '44, le forze del generale Patton distrussero decine di migliaia di tedeschi nella sacca di Miami-Florida. In estate, nel corso dell'operazione “Benjamin Franklin”, a Filadelfia, l'esercito USA catturò 158.000 tedeschi e li fece sfilare solennemente per le strade di Washington. Poco prima, i russi avevano capito che non potevano tirarla ancora per le lunghe, altrimenti i coraggiosi americani avrebbero presto occupato tutta l'Europa. Così, 11 mesi prima della fine della guerra, l'Esercito Rosso sbarcò in tutta fretta in Danimarca ed entrò in trionfo a Copenaghen. D'altronde, gli americani erano diventati inarrestabili. Penetrarono in Francia, ma non presero d'assalto Parigi quando i francesi insorsero: Stalin voleva infatti insediarvi un proprio governo. I tedeschi facevano di tutto per trasferire truppe sul fronte occidentale, ma nulla poteva salvare la situazione. Al Reich non restavano ormai che pochi mesi.

Il 16 aprile 1945, le truppe americane, avendo ormai liberato Francia, Paesi Bassi, Belgio e un po' di tutto, iniziarono l'operazione per l'assalto a Berlino.

Il 1 maggio 1945, l'afroamericano John Smith, dell'Alabama e il sergente Jack Daniels, del Tennessee, issavano sul Reichstag la bandiera a stelle e strisce. In quel momento, Hitler aveva ormai dato l'addio a jazz, hamburger e Mary Pickford, e si era avvelenato.

Goebbels ne seguì l'esempio. La guarnigione di Berlino si arrese. Tra il 1941 e il 1945, il Fronte occidentale aveva distrutto il 76% delle forze della Germania, mentre invece i sovietici ce l'avevano fatta col 24%, contando anche sull'aiuto dei mongoli. Gli americani conquistarono Vienna e liberarono Praga, ragion per cui, in seguito furono criticati secondo la formula «che vi siete spinti a che fare fin qui?». Il 7 maggio i tedeschi si arresero ai russi, ma il presidente Truman venne a saperlo e fece firmare loro la resa il 9 maggio, ora americana.

Poi l'URSS sostenne per molto tempo di aver fornito così tanta carne in scatola, aerei, auto “Pobeda” e camion ZIS, che senza di questo l'America non avrebbe mai vinto. Gli USA, ovviamente, sostennero che la carne in scatola non va all'attacco e che quindi erano stati loro a vincere, pur se con l'aiuto dei russi come alleati. Poi tutti  si imbestialirono e ebbero altro di cui occuparsi.

Così che Trump ha detto assolutamente il vero quando, nel suo discorso, ha affermato che la Russia ha aiutato gli USA a ottenere la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Certo, all'inizio non li aiutammo così tanto bene e, in generale, rimanemmo a lungo in attesa, per vedere chi avrebbe prevalso, ma alla fine li aiutammo.

Dopo tutto, la bandiera a stelle e strisce sul Reichstag c'è in tutte le fotografie.

E questo fatto non può essere cancellato da nessuno. 


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Post Facebook del 24 gennaio 2025

(traduzione FP)

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Zone rosse

 

Zone rosse…di vergogna incostituzionale - Vincenzo Scalia 

L’istituzione delle zone rosse nelle grandi città, attraverso la direttiva ministeriale del 17 dicembre 2024, rappresenta il punto di arrivo di un processo di ridefinizione degli spazi urbani e della vita sociale iniziato oltreoceano negli anni novanta del secolo scorso.

(da Sinistra Sindacale)

Il sociologo statunitense Mike Davis, analizzando il contesto metropolitano di Los Angeles di trent’anni fa, evidenziava una tendenza alla distruzione dello spazio pubblico. I luoghi urbani abdicavano al loro ruolo di aggregazione, di incontro, di scambio, per trasformarsi in contesti deputati al mero consumo e alle interazioni di mercato, da fruire e attraversare per il periodo di tempo necessario ad usare gli esercizi commerciali.

In altre parole, si può prendere un hamburger al Mc Donald’s, visitare i negozi delle catene internazionali, ma poi bisogna andarsene. La presenza nei centri urbani è consentita solo per scopi funzionali. Non a caso, nei paesi anglosassoni, esiste il reato di “loitering”, ovvero di bivacco, che colpisce chi non ha una ragione giudicata fondata dalle autorità per trovarsi in un luogo.

La posta in gioco in questo processo, come mostrò la politica di “tolleranza zero” implementata sul versante orientale, a New York, dal sindaco Rudolph Giuliani, è evidente. Da un lato si punta a portare avanti progetti di riqualificazione urbana che assecondano le esigenze della rendita fondiaria: centri direzionali, alberghi, shopping center e negozi di generi di lusso sono molto più lucrativi del fornaio di quartiere o del biciclettaio dell’angolo. Dall’altro lato, la realizzazione di questi progetti si compie attraverso una vera e propria opera di bonifica sociale, che incrocia la domanda di sicurezza, ovvero la paura del pubblico, nei confronti di individui e gruppi sociali considerati pericolosi.

Nomadi, migranti, senzatetto, sex workers, attivisti politici, vale a dire gli esclusi, gli oppositori e i marginali della società del consumo globale, percepiti come una minaccia dalla società affluente, vanno rimossi dal tessuto urbano, sia in quanto elementi antiestetici e disfunzionali, sia come potenziali molestatori.

La direttiva ministeriale, oltre a muoversi in questo solco, si spinge anche oltre. In primo luogo perché individua delle specifiche categorie sociali giudicate pericolose. Si parla esplicitamente di persone che hanno precedenti penali, in particolare per furto, reati connessi al possesso e all’uso di sostanze, alla violazione delle leggi sul porto d’armi e ai reati contro la persona. Una definizione a maglie strette, ma assolutamente gravida di pregiudizi. Innanzitutto perché presuppone la recidività, stabilendo l’esistenza di una vera e propria propensione a delinquere da parte di chi commette certe tipologie di reato. Inoltre perché, su una questione controversa relativamente all’uso e al consumo di sostanze, sorvola sul fatto che il processo di criminalizzazione è stato portato avanti sull’onda di due leggi molto discutibili, come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini. Laddove altri paesi, cominciando per esempio a legalizzare la cannabis, si muovono su binari diversi.

In secondo luogo, la direttiva delega al controllo capillare da parte delle forze dell’ordine l’individuazione dei presunti profili criminali. Se da un lato non potrebbe essere diversamente, dal momento che i microchip che Philip Dick immaginava nei suoi romanzi sono ancora (per fortuna) di là da venire, dall’altro lato è fin troppo evidente chi saranno i destinatari dell’azione selettiva dei corpi preposti alla repressione.

Dubitiamo che un poliziotto fermerà mai un manager in grisaglia per controllare il contenuto della sua 24 ore, o una signora in tailleur Armani per accertarsi che il secchiello dernier cri di Luis Vuitton non contenga sostanze illecite. Né accerterà le loro generalità in questura per conoscerne la fedina penale.

Ad essere fermati saranno i soliti noti, quelli che hanno il colore sbagliato della pelle, che parlano male italiano, che vestono in modo trasandato, che stonano con l’immensa vetrina a cui, ormai da anni, sono stati ridotti i nostri centri storici. Controlli che si aggiungono a quelli che già questi gruppi sociali subiscono quotidianamente nei loro luoghi di residenza, destinati ad alimentare la spirale di criminalizzazione.

Se poi mettiamo le zone rosse in relazione con il decreto anti-rave varato dalla coalizione governativa al momento del suo insediamento, e pensiamo al Ddl 1660 in fase di approvazione, ecco che il cerchio si chiude. Le zone rosse re-introducono in modo surrettizio il controllo su adunate presuntamente sediziose di persone che pensano che le città non siano delle Disneyland a cielo aperto, ma luoghi da vivere profondamente e quotidianamente.

Si tratta di una direttiva che viola palesemente le libertà civili, a cui bisogna rispondere mettendo in pratica un vecchio slogan: riprendiamoci la città. Ma facciamolo presto. Prima che ce la tolgano per sempre.

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Il triste spettacolo delle Zone Rosse - Legal Aid – Diritti in Movimento

Dopo Milano, Napoli, Bologna e Firenze, le Zone Rosse volute dal governo arrivano a Roma, a cominciare dall’Esquilino. L’obiettivo dell’odioso, inquietante e anticostituzionale provvedimento dei prefetti, che limita la libertà di movimento ad alcune categorie di persone, resta elevare la percezione della sicurezza (negli ultimi dieci anni in Italia i reati sono calati quasi del 20%). Insomma uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano. In una puntuale riflessione del team di “Legal Aid – Diritti in Movimento” di Roma (attivo nel Polo civico dell’Esquilino sui temi dell’accoglienza e dell’inclusione sociale), tra l’altro, si legge: “Ciò incontriamo nelle nostre missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa dalle maglie urbane dei diritti sociali…”


Le ordinanze prefettizie che istituiscono le famigerate Zone Rosse, che a Roma sono ancora oggetto di dibattito politico, rappresentano quella ormai storica strategia ideata per consolidare le azioni di prevenzione e di contrasto della criminalità, non tanto per assicurare la massima sicurezza sociale, come vedremo dopo, ma per elevare la percezione della sicurezza con un atto performativo, uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano, dove le più grandi conseguenze dell’emarginazione sono visibili. Si tratta dello stesso spettacolo che va in scena nelle frontiere europee dove parte dell’umanità viene detenuta e controllata, se non criminalizzata, alimentando una percezione di invasione. Lo strumento utilizzato da questi provvedimenti riguarda il divieto di attraversamento e stazionamento per persone già denunciate per alcuni reati indicati nell’ordinanza. Dal 2018 queste ordinanze si sono ripetute in alcune città sollevando diverse critiche da autorevoli associazioni di giuristi oltre che censure dei giudici amministrativi (TAR Toscana). 

Da un punto di vista giuridico, un genere di divieto ad attraversare zone specifiche rivolto a intere categorie di persone, attraverso azioni che vengono demandate alle forze di polizia, viola la Costituzione che con gli artt. 13 e 16 garantisce senza distinzioni sia la libertà di movimento che la libertà personale. Inoltre, sul piano del diritto amministrativo sembra gravare di irragionevolezza quando si determina l’automatismo tra le passate denunce e i presunti comportamenti incompatibili con la “vocazione delle aree definite come zone rosse” dalle ordinanze. Si presume infatti che le persone da allontanare dalle aree, come per esempio la stazione di Roma Termini, possano “impedire ad altri cittadini di fruire ed accedere a quei luoghi…”. Si tratta di una stigmatizzazione tramite ostracismo di persone presuntivamente pericolose.

I presupposti delle ordinanze tendono a scavalcare, mediante l’impiego dell’art. 2 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (un testo del 1931 che in linea con il contesto dell’epoca offriva uno strumento di potere prefettizio “a tutela dell’ordine pubblico”), i poteri sindacali ordinari demandati agli enti locali proprio per gli stessi scopi attraverso i regolamenti della polizia urbana, ai sensi del TUEL. Già la Corte Costituzionale con sentenza n. 26/1961, ha dichiarato illegittimo questo disposto normativo del TULPS proprio in relazione al potere prefettizio che in tale previsione lede i principi dell’ordinamento giuridico, ovvero il sistema di controllo politico e civico degli organi di rappresentanza popolare come i consigli comunali e le giunte.

Ma seppur fosse giustificabile tale deroga in virtù di una specifica emergenza sociale o di ordine pubblico, l’azione di tali provvedimenti prefettizi non è ad oggi confortata dai dati: negli ultimi dieci anni in Italia i reati sono calati quasi del 20%. Per quanto riguarda le stazioni ferroviarie, nel 2024 nelle aree delle grandi stazioni sono state controllate poco più di 4 milioni di persone con un risultato alquanto modesto che vede poco più di 1.000 arresti, circa 11.000 indagati e il sequestro di 50 kg di droga e di 250 armi (fonte Ministero Interno). Insomma, una incidenza che non desta una straordinaria preoccupazione e che sarebbe del tutto gestibile con le iniziative già esistenti nelle policy di prevenzione delle Grandi Stazioni come il programma Stazioni Sicure, il Rail Safe Day, le Action Week, e le operazioni “Oro Rosso”. Tuttavia diversi fattori contribuiscono alla costruzione dell’ansia sociale da sicurezza; il discorso mediatico è supportato da dichiarazioni politiche che sottolineano la necessità di interventi per ristabilire l’ordine e la sicurezza, come l’uso del Daspo urbano e l’aumento della videosorveglianza. La sicurezza urbana viene costruita come problema attraverso una narrazione mediatica che enfatizza la percezione di insicurezza e degrado, associando specifici fenomeni e soggetti marginali a minacce per l’ordine pubblico. In sintesi anche se l’emergenza non c’è magicamente appare. 

Le zone rosse non richiamano certo criteri di efficienza ed efficacia. Resta fuor di dubbio che si tratta di azioni che non proteggono la sicurezza dei residenti né dei turisti ma aumentano la percezione dell’insicurezza e specialmente per chi abita al di fuori del perimetro di queste aree “interdette”. Ricerche sociali hanno da sempre evidenziato e dimostrato che la sicurezza urbana si garantisce con una rosa di strumenti tra i quali certamente non figura l’allontanamento di persone “indesiderate” dalle aree vetrina verso altre più remote o periferiche. Come correttamente osserva l’Associazione dei Magistrati “Area Democratica per la Giustizia”, “spostare i fattori di rischio nascondendoli altrove, rischia di creare zone nere”, fuori dalle zone rosse. In uno stato democratico per le autorità responsabili dell’ordine pubblico, “la sfida dovrebbe essere quella di garantire il massimo della sicurezza e dei diritti per tutti e tutte senza limitare le libertà personali e costituzionali”.

 

A Roma si sta discutendo della zona rossa o di azione di controlli rafforzati tra la Stazione Termini e l’Esquilino, in un botta e risposta tra l’Amministrazione Locale e il ministero dell’Interno. A fronte dell’ennesima azione securitaria messa in campo nella zona, diverse reti come il Polo Civico, del quale facciamo parte come associazione Legal Aid, attiva nella rete di Spintime, periodicamente portano avanti attività per l’accoglienza, l’orientamento e l’inclusione sociale delle persone senza dimora, che sostano oppure gravitano in quell’area vista la presenza di una pluralità di servizi di tutelaCiò che incontriamo nelle nostre missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa dalle maglie urbane dei diritti sociali. Richiedenti asilo senza accoglienza, persone senza casa per via di un mercato delle locazioni razzista e classista, persone migranti in transito e talvolta minori migranti non accompagnati. Una campagna securitaria permanente, che magnifica queste situazioni di marginalità senza risolverle ma rendendole problemi da “spostare”, trasmette un concetto di “sicurezza” sempre più lontano dall’idea di sicurezza sociale che potrebbe essere promossa da politiche di solidarietà e di inclusione e dalla garanzia dei diritti sociali, civili e politici, senza alcuna distinzione.

Il DDL 1660, noto come Disegno di Legge Sicurezza, è la cornice nella quale questi scenari troveranno una sistematizzazione attraverso un sistema giuridico differenziato basato sulla nazionalità o sullo status sociale, alimentando un’ossessione per la sicurezza e giustificando politiche repressive. Sono strategie politiche frutto di scelte ben ponderate che accresceranno la solitudine e divideranno la comunità degli abitanti anziché renderla coesa.

 

Dunque, c’è da chiedersi, quale sicurezza urbana? Quella della città sotto assedio? Bisogna riappropriarsi dello spazio urbano come spazio pubblico, area di coesione sociale e di consolidamento dei rapporti sociali e di solidarietà. Il giubileo che ha questo profondo significato, non deve essere strumentalizzato per giustificare questa guerra alla povertà.

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