E' innegabile che le nuove tecnologie rappresentino
un’evoluzione nei processi di scrittura, archiviazione, informazione e
comunicazione. Un adulto minimamente colto che le demonizzasse tout
court risulterebbe ridicolo, come sarebbe ridicolo chiunque
rimpiangesse l’inchiostro e il calamaio negando la praticità della biro. Tanto
più se insegnante. Scrivere un testo, preparare un compito in classe o una
mappa concettuale, formulare una programmazione o un progetto, inviare o
chiedere informazioni, materiali o documenti e-mail, osservare e mostrare
immagini e video: questi sono solo alcuni esempi delle tante attività inerenti
al nostro lavoro che le nuove tecnologie hanno reso più agevoli. Senza contare
le potenzialità offerte da Internet: trovare rapidamente in rete prove d’esame,
riferimenti bibliografici e sitografici, notizie, articoli, interventi e testi
implica indubbiamente il risparmio di un tempo che può essere più proficuamente
occupato.
E' innegabile che le nuove tecnologie debbano
costituire un supporto anche nell’attività di apprendimento: già
sufficientemente abile nel copiare le versioni o leggere i riassunti dei
testi on line (così come noi copiavamo dagli Avia
Pervia o studiavamo sui Bignami), ogni studente del terzo millennio
deve imparare ad accedere criticamente a Internet, deve conoscere i principali
motori di ricerca, deve saper maneggiare i più efficaci sistemi applicativi,
deve saper individuare e costruire una sitografia attendibile. E su questi
aspetti della questione l’attenzione di docenti di tutte le discipline deve
essere sempre vigile e costante. Ciononostante, non solo ritengo inutile
servirmi di un portatile e di uno schermo o di una lavagna interattiva durante
le mie lezioni ma, piuttosto, e proprio perché inutile, potenzialmente dannoso.
La vita delle nuove generazioni, non a caso
definite dei “nativi digitali”, è radicalmente pervasa dalle nuove tecnologie.
Il computer è sempre acceso sulle loro scrivanie, così come il display dei loro
telefonini, magari silenziosi ma mai spenti, lo schermo televisivo nelle cucine
e nei salotti delle loro case: la comunicazione si moltiplica, a scapito
dell’esperienza. A scuola, e solo a scuola, usano i libri. Se io sostituisco la
pagina cartacea con lo schermo, se sostituisco la mia voce che recita i versi
di Dante con quella di un attore famoso, se io proietto una poesia sul muro e
chioso il testo con un pennarello colorato sulla lavagna interattiva invece che
sul libro non ho potenziato le loro capacità cognitive, non ho agito
positivamente sulle loro modalità di apprendimento, che, per quanto riguarda la
lettura, restano necessariamente legate alla percezione lineare e sequenziale
della visione alfabetica. E se ho scelto i nuovi strumenti didattici
multimediali della case editrici più scaltramente all’avanguardia, che mescolano
suoni, immagini e parole, magari con un po’ di interattività, in un sapere che
sembra efficacemente sinestetico ma è solo confusivamente multitasking, ho
fatto un’operazione di puro marketing didattico, rendendo il testo in apparenza
più fruibile proprio perché assimilato al codice semiotico dell’immagine,
attualmente dominante nell’immaginario dei cantori postmoderni della scuola
2.0.
Non solo. Come afferma Raffaele Simone nel
suo La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza
2002) , la lettura e il libro chiamano in causa una forma specifica
di intelligenza sequenziale: analitica (che distingue, cioè,
idee e eventi nei loro componenti e stabilisce relazioni precise tra i diversi
elementi evidenziati), referenziale (che indica persone, oggetti,
entità e luoghi, assegnando a ciascuno un ruolo), strutturata (che
colloca i dati nello spazio e nel tempo, collegandoli tra loro e con il
contesto extralinguistico, in una rete di riferimenti in reciproca
connessione), gerarchica (che tende, cioè, a dare ad ogni
elemento un suo peso specifico nell’insieme, distinguendo posizioni e ruoli).
Aggiungerei che la lettura e il libro, stimolando l’immaginazione e la
possibilità di formulare ipotesi e inferenze nella solitudine e nella
concentrazione dell’atto, favoriscono l’assunzione di un altro punto di vista,
ampliano i confini della nostra visione del mondo, potenziano le nostre
capacità simboliche e, infine, che nessuna slide, per definizione icastica e
sintetica, può restituire sullo schermo la complessità di un ragionamento
analitico accuratamente elaborato.
Dunque, non metterò i miei studenti e le mie
studenti di fronte a uno schermo anche la mattina, anche durante
una lezione di letteratura. Non li priverò della possibilità di toccare un
libro, di sfogliarne e annusarne le pagine, di glossarlo con la loro matita o
con il loro evidenziatore; non negherò loro la possibilità di desiderare di
comprarne uno. Non li ingannerò assecondando le sirene della facilità e
dell’attrattività e non allevierò loro la fatica di decifrare solo le parole e
l’universo simbolico che possono evocare attraverso la lettura, la riflessione
e l’analisi: strumenti impegnativi, faticosi, lenti, forse desueti, ma che
costituiscono ancora il principale accesso alla conoscenza e alla
rappresentazione del mondo.
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