La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
mercoledì 31 ottobre 2012
Victor Jara
un omaggio a John Lennon e Victor Jara
martedì 30 ottobre 2012
dice Luc (Enrique Vila-Matas)
Ho sempre pensato che ci sono molte maniere di arrivare e che la cosa migliore sia non partire.
Deporre i poveri dalla croce: Cristologia della Liberazione - (a cura di) Leonardo Boff
“Il
fratello che è aiutato dal fratello è come una città inespugnabile” (Pr
18,19): questa è l’esperienza che noi teologi e teologhe vogliamo trasmettere
al nostro fratello Jon Sobrino, sottoposto a una penosa tribolazione
a causa della sua riflessione e meditazione della fede, che è quello che
si chiama “teologia”. Che egli si senta, con il nostro appoggio di
fratelli e sorelle, forte come una fortezza.
Un debole
più un altro debole non fanno due deboli ma un forte, perché la
solidarietà genera forza e crea la solidità della fraternità. Per quanto
individualmente deboli, siamo molti al suo fianco, costituendo la forza
del sacramentum fraternitatis, il sacramento della fraternità.
Manifestiamo
la nostra fraternità, facendo quello che Jon Sobrino ha sempre fatto
con serietà e compassione: pensare la fede in Cristo nel contesto
dei popoli crocifissi. Questo è stata sempre, questo è, e, soprattutto, questo è
determinata a continuare ad essere, la nostra “cristologia della
liberazione”, quella che tutti noi scriviamo, facciamo e viviamo: sì, una
teologia militante, che lotta per “far scendere dalla croce i poveri”, senza
pretese neutralità o ipocrite equidistanze. Tutti i
lavori che compongono questo libro digitale colgono l’occasione
propizia offerta dalla notificazione vaticana su alcuni punti della sua
cristologia, per portare avanti quello che, a nostro giudizio, egli ha
scritto, da parte sua, in maniera tanto pertinente, ortodossa e ortoprassica, sul
significato della fede in Gesù Cristo a partire dall’umanità umiliata
di milioni di fratelli e sorelle delle nostre società periferiche.
Jon
Sobrino ci ha insegnato come le Chiese possono unire le forze nella resurrezione di questi
crocifissi. Abbiamo
coscienza della limitatezza dei nostri lavori. Non sono
niente di fronte alla ricchezza che è Cristo. “Tacete, raccogliete l’Assoluto”,
diceva Kierkegaard in riferimento a Cristo. Ma se, malgrado ciò,
parliamo, non lo facciamo su Cristo come un oggetto che ci sfida,
ma a
partire da Cristo come Colui che è il nostro Liberatore e la nostra Speranza
che c’è ancora salvezza per il mondo, soprattutto per gli ignorati emarginati
delle nostre società.
Facciamo
nostre le parole di San Giovanni della Croce, mistico ardente. “Molto
c’è da approfondire in Cristo, essendo egli come una ricca
miniera con molte cavità piene di tesori, e per quanto si scavi non si giunge
mai alla fine né si arriva ad esaurirla; al contrario, si vanno
scoprendo
in ogni cavità nuovi filoni e nuove ricchezze, qui e lì, come testimonia
San Paolo quando dice dello stesso Cristo: in Cristo sono nascosti tutti i tesori della
sapienza e della scienza (Col 2,3)”.
Leonardo Boff
domenica 28 ottobre 2012
lavorando all'ipermercato
…una mamma che ha un bambino
molto piccolo e che fa un lavoro parttime
perché, vivendo a Milano oppure a
Torino, ha bisogno di avere un po’ più di
soldi in casa perché non ce la fa
con il solo stipendio del marito che lavora anche lui
precariamente. Bon.. fa un
part-time, e, in questo part-time, sapendo che ha un
bambino, le danno uno spezzato,
un’apertura e chiusura che va a puntare, diciamo
così, il dito sull’orario in cui
lei deve portare il figlio a scuola. Allora questa donna si
rivolgerà al suo capo e gli dirà:
- “Senti, io cosa posso fare? Cosa potete fare voi? Io a
quell’ora devo portare mio figlio
a scuola, non ho né una baby-sitter, né una zia,
come faccio?” – “Parliamone” –
risponderanno – “Si può fare, noi ti facciamo un
contratto in cui ti garantiamo
che in quella fascia tu non verrai mai messa nelle
turnazioni, ma tu però ci
garantisci che il primo Maggio, che il giorno di Natale, a
Pasqua tu verrai a lavorare,
perché non porti tuo figlio a scuola. È uno scambio. Noi
ci rendiamo disponibili a risolvere
il tuo problema ma tu ti rendi disponibile a
risolvere il nostro”.
Così lei andrà a lavorare e non
prenderà i soldi del supplemento di lavoro in orario
festivo, niente, prenderà
semplicemente l’equivalente di un giorno di lavoro perché
c’è stato questo tipo di scambio. È un “privilegio”
come vedete: - “Se tu non accetti quello, io ti metto fuori dall'inclusione dei
programmi dell’azienda, lo posso fare non perché sono cattivo, bestialmente
aggressivo nei confronti delle madri che hanno dei figli, no, semplicemente
perché c’è un sistema di leggi”…
… Angosce, ansie, paure: tutto
ciò porta, dal punto di vista delle modalità del pensiero
umano, a quello che alcuni hanno
definito come “pensiero della sopravvivenza”. Un
lavoro che è partito dal
guardare, dai gulag ad oggi, a un pensiero semplice ed
essenziale che è: la
sopravvivenza di un singolo quanto costa a quei signori?
Sopravvivere a ogni costo cosa
vuol dire in concreto nella vita? È chiaro che nei
gulag sopravvivere a ogni costo
significa sopravvivere al posto di un altro e nei
campi di concentramento idem: - “
Io faccio il kapò o la pulizia etnica e casomai
sopravvivo, ma tu intanto muori e
casomai sopravvive un vicino; io e te, nella
struttura, non siamo diversi,
siamo due internati. Uno, io, devo sopravvivere a
qualunque costo. Perché? Ma per
motivi futili, banali, perché ho un figlio, gli voglio
bene, devo uscire dal campo di
concentramento, non so perché sono qua, chi mi ci ha
messo? Non ho fatto niente… ho
tutte le ragioni del mondo per voler sopravvivere e
nel momento in cui io voglio
sopravvivere ad ogni costo sarà a costo tuo”.
Qua sorge il primo grosso
problema, un problema etico: sopravvivere ad ogni costo
significa sopravvivere al costo
di un altro e quindi chiede la definizione di un limite
etico della propria vita, chiede
alle persone di definire un orizzonte etico che non
sono disposti a superare nonostante sia in gioco la
loro stessa vita…
sabato 27 ottobre 2012
Les bourgeois - Jacques Brel
I BORGHESI (Les bourgeois)
[Jacques Brel]
Il cuore ben al caldo,
gli occhi nella birra
dalla grassa Adrienne de Montalant
con l'amico Jojo
e con l'amico Pierre
andavamo a berci i nostri vent'anni.
Jojo si credeva Voltaire
e Pierre, Casanova
e io, io che ero il più fiero
io, io mi credevo me stesso.
E quando verso mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall'Albergo dei Tre Fagiani
gli mostravamo il culo e le buone maniere
cantandogli:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie.
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano ...[coglioni (ma non viene pronunciato)]
Il cuore ben al caldo,
gli occhi nella birra,
dalla grassa Adrienne de Montalant
con l'amico Jojo
e con l'amico Pierre
andavamo a bruciarci i nostri vent'anni.
Voltaire danzava come un vicario
e Casanova non osava neanche
e io, io che rimanevo il più fiero
io ero sbronzo quasi quanto me.
E quando verso mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall'Albergo dei Tre Fagiani
gli mostravamo il culo e le buone maniere
cantandogli:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie.
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano ...[coglioni (ma non viene pronunciato)]
Il cuore a riposo,
gli occhi bene a terra,
al bar dell'Albergo dei Tre Fagiani
con il dottor Jojo
e il dottor Pierre
tra noi notai si passa il tempo
Jojo parla di Voltaire
e Pierre di Casanova
e io, io che sono rimasto il più fiero,
io, io parlo ancora di me
ed è proprio uscendo verso mezzanotte, Signor Commissario,
che, ogni sera, dall'osteria della Montalant
dei rozzi giovinastri ci mostrano il didietro
cantantoci:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie,
- son loro che lo dicono, Signor Commissario -
I borghesi sono come i porci
più diventano vecchi e più .... Bah!
[Jacques Brel]
Il cuore ben al caldo,
gli occhi nella birra
dalla grassa Adrienne de Montalant
con l'amico Jojo
e con l'amico Pierre
andavamo a berci i nostri vent'anni.
Jojo si credeva Voltaire
e Pierre, Casanova
e io, io che ero il più fiero
io, io mi credevo me stesso.
E quando verso mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall'Albergo dei Tre Fagiani
gli mostravamo il culo e le buone maniere
cantandogli:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie.
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano ...[coglioni (ma non viene pronunciato)]
Il cuore ben al caldo,
gli occhi nella birra,
dalla grassa Adrienne de Montalant
con l'amico Jojo
e con l'amico Pierre
andavamo a bruciarci i nostri vent'anni.
Voltaire danzava come un vicario
e Casanova non osava neanche
e io, io che rimanevo il più fiero
io ero sbronzo quasi quanto me.
E quando verso mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall'Albergo dei Tre Fagiani
gli mostravamo il culo e le buone maniere
cantandogli:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie.
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano ...[coglioni (ma non viene pronunciato)]
Il cuore a riposo,
gli occhi bene a terra,
al bar dell'Albergo dei Tre Fagiani
con il dottor Jojo
e il dottor Pierre
tra noi notai si passa il tempo
Jojo parla di Voltaire
e Pierre di Casanova
e io, io che sono rimasto il più fiero,
io, io parlo ancora di me
ed è proprio uscendo verso mezzanotte, Signor Commissario,
che, ogni sera, dall'osteria della Montalant
dei rozzi giovinastri ci mostrano il didietro
cantantoci:
I borghesi sono come i porci;
più diventano vecchi e più diventano bestie,
- son loro che lo dicono, Signor Commissario -
I borghesi sono come i porci
più diventano vecchi e più .... Bah!
di questa canzone esiste una versione in italiano, cantata da Duilio Del Prete, in un cd doppio, intitolato "Duilio Del Prete canta Brel", per chi non lo conosce è un cd imperdibile - franz
giovedì 25 ottobre 2012
Il fantasma di Tom Joad
...…Un uomo ad Arezzo vive nella sua auto perché
ha perso il lavoro, la casa. Si chiama Gianluca, la crisi gli ha portato via
tutto. La sua voce è il blog con il quale ha deciso di raccontare la propria
vita. Il fantasma di
Tom Joad è il suo
blog, leggetelo, leggetelo attentamente. In questo articolo trovate la sua storia. Se
pensate di aver bisogno di quello che fa scrivetegli, se conoscete qualcuno che
possa aiutarlo in questo senso fate girare la voce, allora forse potremo dire
che i nostri blog saranno serviti a qualcosa.
da qui
da qui
ignoranti e incapaci (per tacere del resto) al potere
...A tuonare contro la «tassa sui ricchi» per ampliare la platea degli esodati che verrebbero garantiti, è stato Aurelio Regina, vicepresidente degli Industriali: «è un provvedimento iniquo» che colpisce «una fascia di popolazione che è l’unica che spende, minacciando ulteriormente i consumi»...
da qui
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Intervista di Philip Roth a Primo Levi (1986)
ROTH: Nel Sistema periodico, il tuo libro sul sapore forte e amaro della tua esperienza di chimico, tu parli di una collega, Giulia, che spiega la tua mania di lavorare con il fatto che tu, poco più che ventenne, eri timido con le donne e non avevi una ragazza. Ma credo che sbagliasse. La tua effettiva mania di lavorare ha un'origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. "Arbeit Macht Frei," il “Lavoro rende liberi”:sono le parole incise dai nazisti all'ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un'orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall'irridente cinismo con il quale i tuoi da tori di lavoro di Auschwitz l'avevano sfregiata. Faussone ti dice: "Ogni lavoro che incomincio è come un primo amore". Gli piace parlare del suo lavoro quasi quanto gli piace lavorare. Faussone è l'Uomo Lavoratore, reso realmente libero dalla sua fatica.
LEVI: Non credo che Giulia avesse torto nell'attribuire la mia mania di lavorare alla mia timidezza di allora con le ragazze. Questa timidezza, o inibizione, era un dato di fatto, concreto, doloroso e pesante. A quel tempo, era molto più importante per me che non la passione per il lavoro: del resto, il lavoro nella fabbrica di Milano che ho descritto nel capitolo Fosforo del Sistema periodico era un falso lavoro, in cui io non credevo; la catastrofe dell'armistizio italiano era già nell'aria, e non avrebbe avuto molto senso ignorarla per immergersi in un lavoro fittizio e scientificamente insensato. Non ho mai cercato seriamente di analizzare la mia timidezza sessuale di allora, ma è certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi razziali; anche altri miei amici ebrei ne soffrivano, alcuni nostri compagni di scuola << ariani >> ci deridevano, dicevano che la circoncisione non era altro, in sostanza, che una castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci (aiutati in questo dal puritanesimo che dominava nelle nostre famiglie). Di conseguenza, credo che a quel tempo il lavoro fosse effettivamente per me un equivalente sessuale piuttosto che una passione. Tuttavia, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole che dopo il Lager il lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e tuttora hanno, un'importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che l'uomo normale è biologicamente costruito per un'attività diretta a un fine, e che l'ozio, o il lavoro senza scopo (come l'Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il lavoro si identifica con il “problem solving,” il risolvere problemi. Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.ROTH: Se questo è un uomo si conclude con un capitolo in titolato Storia di dieci giorni, nel quale tu descrivi, in forma di diario, come hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di malati e moribondi nell'infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi suona come la storia di Robinson Crusoe all'inferno, con te, Primo Levi, nei panni di un Crusoe che strappa ciò che gli serve per vivere ai magmatici avanzi di un'isola irriducibilmente spietata . Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale, nell'uomo della precisione, nell'uomo che verifica esperimenti e cerca il principio dell'ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto ciò che per lui era un valore. Sì il pezzo numerato di una macchina infernale, ma un pezzo numerato con un'intelligenza metodica che deve sempre capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: “penso troppo per resistere sono troppo civilizzato.” Ma secondo me l'uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola.
mercoledì 24 ottobre 2012
Gli autonauti della cosmostrada ovvero un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia - Julio Cortázar e Carol Dunlop
le cose minori di Cortázar sono capolavori, e non basteranno le parole per ringraziarlo di averci fatto leggere i suoi scritti.
questo è un libro particolare, sembra una piccola cronaca di uno strano viaggio, insieme alla moglie Carol, poi ti distrai un attimo e ti accorgi che stai leggendo cose che la maggior parte degli scrittori neanche si sognano.
se queste poche parole sono un invito a leggere tutto Cortázar, ebbene sì, lo sono - franz
questo è un libro particolare, sembra una piccola cronaca di uno strano viaggio, insieme alla moglie Carol, poi ti distrai un attimo e ti accorgi che stai leggendo cose che la maggior parte degli scrittori neanche si sognano.
se queste poche parole sono un invito a leggere tutto Cortázar, ebbene sì, lo sono - franz
…Julio e Carol hanno anticipato
l'elogio della lentezza, nel senso che hanno vissuto la loro esperienza non in
funzione di un traguardo spazio-temporale, ma dell'esperienza imponendosi di
fermarsi in tutte le aree di sosta, creando così un percorso personalizzato,
originale e irripetibile. Esperienza che oggi - con mezzi e intenti diversi -
fanno altri utenti dell'autostrada, quelli per esempio che ad una certa ora
della notte si ritrovano all'autogrill, capovolgendo il concetto di autostrada inteso come uno dei
non-luoghi teorizzati da Marc Augé. Che luogo sia l'autostrada lo si scoprirà
leggendo questo diario scritto, con un linguaggio molto particolare, quasi come
un trattato scientifico ma con lo stupore delle fiabe corredato da disegni e
chiarimenti utili al lettore, che non può nemmeno immaginare quali sorprese,
incontri, disavventure si possono vivere su una striscia d'asfalto di ottocento
chilometri…
…A lo largo de Los
autonautas de la cosmopista, escrito visiblemente a dos manos e
ilustrado por las fotografías de Carol y los dibujos de cada parador que, más
tarde, hiciera su hijo de catorce años, Cortázar y Dunlop despliegan su asombro ante el
micromundo que cada rincón de la autopista representa para ellos. Asistimos
como lectores a los detalles tales como su aprovisionamiento de comida, los
paisajes, los cantos de los pájaros que escuchan, los camiones que se detienen
en los paradores y que por momentos les hacen compañía y por momentos los
molestan. Todo narrado con un gran sentido del humor y un “espíritu científico”
que impone respeto.
Los autonautas de la cosmopista es también una historia de amor profunda y conmovedora, entre dos personas que se entendían gracias a las palabras pero también más allá del lenguaje escrito, y que toman por sorpresa al lector con una prosa de intensa ternura. A su vez, el libro es una despedida: Carol Dunlop murió antes de poder ordenarlo y publicarlo, y Cortázar, quien también moriría un tiempo después, tuvo que terminarlo solo. Los derechos de la venta del libro fueron cedidos al pueblo de Nicaragua…
Los autonautas de la cosmopista es también una historia de amor profunda y conmovedora, entre dos personas que se entendían gracias a las palabras pero también más allá del lenguaje escrito, y que toman por sorpresa al lector con una prosa de intensa ternura. A su vez, el libro es una despedida: Carol Dunlop murió antes de poder ordenarlo y publicarlo, y Cortázar, quien también moriría un tiempo después, tuvo que terminarlo solo. Los derechos de la venta del libro fueron cedidos al pueblo de Nicaragua…
… Esas cartas de Puig las tengo
ahora al lado de las cartas de Julio Cortázar, y de un libro, Los
autonautas de la cosmopista, que es en puridad el último libro que
escribió (con Carol Dunlop, su joven mujer, a la que sobrevivió algún tiempo,
hasta que él murió en febrero de 1984); ahora ese libro lento, tranquilo, un
viaje de París a Marsella en una furgoneta, y cuyo subtítulo era Un
viaje atemporal, precisamente, se puede leer como un símbolo de esa
manera de matar (con mate) el tiempo, de hacerlo quieto, como se hizo quieto en Rayuela;
mientras la gente conversa no es necesario el sueño, hay que seguir viajando,
no se te pueden cerrar los ojos si aún has de escuchar jazz o palabras.
Claro que ese libro (como aquella
manera de conversar de Puig, o de Manuel Mújica Laínez, el autor de Bomarzo,
o de muchos de los autores que ustedes puedan imaginar y que son hoy autores de
Buenos Aires) es también un grito contra la inminencia del fin del tiempo;
Cortázar estaba persuadido de que su mujer iba a morir, le estaba regalando
tiempo y palabras, que era lo que a él le apasionaba y le sobraba; me decía
Juan Bedoian, el director de Ñ, la revista cultural de Clarín,
que cuando Cortázar le concedió aquella última entrevista de la que hablamos en
la crónica de ayer, era diciembre de 1983, más de un año después de aquel
viaje, y Cortázar se pidió un whisky y luego otro y luego otro y también se
pidió un puro y luego y luego otro, como si estuviera tapiando el tiempo, como
si quisiera hacer del día una noche y por tanto un viaje extraordinario,
permanente, eterno…
martedì 23 ottobre 2012
ricordo del prof. Marcello Cini
…I temi che sono stati
oggetto degli studi del professor Ratzinger non dovrebbero comunque rientrare
nell’ambito degli argomenti di una lezione, e tanto meno di una lectio
magistralis tenuta in una università della Repubblica italiana. Soprattutto se
si tiene conto che, fin dai tempi di Cartesio, si è addivenuti, per porre fine
al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da
parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra
l’Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso
dell’inaugurazione dell’anno accademico de La Sapienza sarebbe stata
considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo di trecento anni e
più.
Sul piano sostanziale poi le implicazioni sarebbero state ancor
più devastanti.
Consideriamole partendo
proprio dal testo della lectio magistralis del professor Ratzinger a Ratisbona,
dalla quale presumibilmente non si sarebbe molto discostata quella di Roma. In
essa viene spiegato chiaramente che la linea politica del papato di Benedetto
XVI si fonda sulla tesi che la spartizione delle rispettive sfere di competenza
fra fede e conoscenza non vale più: «Nel profondo.., si tratta – cito
testualmente – dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e
religione. Partendo veramente dall’infima natura della fede cristiana e, al
contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II
poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio».
Non insisto sulla pericolosità di questo programma dal punto di
vista politico e culturale: basta pensare alla reazione sollevata nel mondo
islamico dall’accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio cristiano e
Allah – attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto
all’imprevedibile irrazionalità del secondo – che sarebbe a sua volta all’origine
della mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Ci vuole un bel
coraggio sostenere questa tesi e nascondere sotto lo zerbino le Crociate, i
pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta
degli schiavi, i roghi dell’Inquisizione che i cristiani hanno regalato al
mondo. Qui mi interessa, però, il fatto che da questo incontro tra fede e
ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una
conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere
subordinate. «La moderna ragione propria delle scienze naturali – conclude
infatti il papa – con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un
interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa
stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la
corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella
natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la
domanda {sui perché di questo dato di fatto) esiste e deve essere affidata
dalle scienze naturali a altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e
alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia,
l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose
dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte
di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccetabile del
nostro ascoltare e rispondere».
Al di là di queste circonlocuzioni (i corsivi sono miei) il
disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l’ex capo del Sant’uffizio non ha
dimenticato il compito che tradizionalmente a esso compete. Che è sempre stato
e continua a essere l’espropriazione della sfera del sacro immanente nella
profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano da parte di una
istituzione che rivendica l’esclusività della mediazione fra l’umano e il
divino. Un’appropriazione che ignora e svilisce le innumerevoli differenti
forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza
rispetto per la dignità personale e l’integrità morale di ogni individuo.
Ha tuttavia cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e
pene corporali ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l’effige della Dea Ragione
degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella della
conoscenza scientifica e metterla in riga. Non esagero. Che altro è, tanto per
fare un esempio, l’appoggio esplicito del papa dato alla cosiddetta teoria del
Disegno Intelligente se non il tentativo – condotto tra l’altro attraverso una
maldestra negazione dell’evidenza storica, un volgare stravolgimento dei
contenuti delle controversie interne alla comunità degli scienziati e il
vecchio artificio della caricatura delle posizioni dell’avversario – di
ricondurre la scienza sotto la pseudo-razionalità dei dogmi della religione? E
come avrebbero dovuto reagire i colleghi biologi e i loro studenti di fronte a
un attacco più o meno indiretto alla teoria danwiniana dell’evoluzione
biologica che sta alla base, in tutto il mondo, della moderna biologia
evolutiva?...
domenica 21 ottobre 2012
Hollande ha detto proprio «riformatorio» - Marco d’Eramo
«L'Europa non può essere
un riformatorio». Nessun giornale italiano ha ripreso - et pour cause -
quest'affermazione che il presidente francese François Hollande ha pronunciato
in un'intervista concessa a sei importanti quotidiani europei (tra cui La
Stampa). Eppure lo spagnolo El Pais proprio questa frase usava come titolo, e a
ragione, perché il termine «riformatorio» centra il nocciolo del problema e
riassume in sé la natura foucaultiana, panottica, disciplinare, che la gestione
della crisi dell'euro sta assumendo.
Quel che Bruxelles, la Troika, la Banca centrale europea (Bce) e il governo tedesco infliggono da quasi tre anni alla Grecia è una limpida illustrazione di quella tecnica - comune a eserciti, carceri, ospedali, scuole e fabbriche, cioè a tutti gli apparati «disciplinari» - che Foucault chiamava «ortopedia» e che raffigurava con le grucce serrate attorno a un alberello per «raddrizzarlo». Foucault si meravigliava che a un certo punto della storia gli umani non si fossero più limitati a punire i criminali e i delinquenti, ma considerarono che si poteva nello stesso tempo punirli e redimerli, castigarli e rieducarli, che disciplina e penitenza avessero un potere catartico…
Quel che Bruxelles, la Troika, la Banca centrale europea (Bce) e il governo tedesco infliggono da quasi tre anni alla Grecia è una limpida illustrazione di quella tecnica - comune a eserciti, carceri, ospedali, scuole e fabbriche, cioè a tutti gli apparati «disciplinari» - che Foucault chiamava «ortopedia» e che raffigurava con le grucce serrate attorno a un alberello per «raddrizzarlo». Foucault si meravigliava che a un certo punto della storia gli umani non si fossero più limitati a punire i criminali e i delinquenti, ma considerarono che si poteva nello stesso tempo punirli e redimerli, castigarli e rieducarli, che disciplina e penitenza avessero un potere catartico…
sabato 20 ottobre 2012
"Ici, on noie des Algériens", a Pont St Michel, il 17 ottobre 1961
Il 17 ottobre 1961 degli algerini che manifestavano per il diritto all’indipendenza sono stati uccisi in una sanguinosa repressione. La Repubblica riconosce con lucidità questi fatti. 51 anni dopo questa tragedia, rendo omaggio alla memoria delle vittime”. Poche righe, firmate François Hollande, per riconoscere, per la prima volta, i fatti del 17 ottobre 1961: quella sera, l’Fln, in guerra contro il colonialismo francese in Algeria, aveva organizzato una manifestazione contro il coprifuoco imposto agli algerini a Parigi. La repressione fu feroce, ma ancora oggi non c’è certezza sul numero dei morti, gettati nella Senna dai poliziotti su ordine del prefetto di Parigi, Maurice Papon (poi condannato per la deportazione degli ebrei della Gironda): all’epoca, le autorità avevano parlato di due morti, negli anni ’90 lo storico Jean-Luc Einaudi aveva valutato il numero a circa 250 persone, ma era stato contraddetto da un altro storico, Jean-Paul Brunet, secondo il quale il numero dei morti era tra 30 e 50...
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anche per chi non capisce il francese il video vale davvero la pena - franz
continua qui
En 1961, la nécessité d'une
solution négociée au conflit algérien s'est imposée. Des négociations ont été
officiellement ouvertes entre le gouvernement français et le Gouvernement
Provisoire de la République Algérienne le 20 mai 1961. Il est hors de
doute pour les participants que les négociations aboutiront à l'institution
d'un État algérien indépendant : les discussions portent sur les conditions
exactes de l'indépendance. Et pourtant c'est à partir de l'été 1961 qu'eurent
lieu les plus terribles violences que connut le territoire métropolitain
pendant la Guerre d'Algérie. C'est cette contradiction que met en évidence
l'examen des faits qui ont conduit aux massacres du 17 octobre 1961. lors
d’une manifestation non-violente contre le couvre-feu qui leur était imposé,
des dizaines d’Algériens étaient assassinés à Paris par des fonctionnaires de
police aux ordres de leurs supérieurs...
anche per chi non capisce il francese il video vale davvero la pena - franz
Nigel Kennedy
gf
venerdì 19 ottobre 2012
Il rigore non è per tutti – Giulio Marcon
Le polemiche sui
cacciabombardieri F35 sono destinate a non avere fine, come giustamente deve
essere per una scelta insensata ed economicamente folle, che non solo i
pacifisti, ma la gente di buon senso non riesce a comprendere. Ora, la notizia
è che il costo già altissimo (12 miliardi di euro) è lievitato del 60%,
comportando una spesa maggiore di 3 miliardi e 200 milioni di euro, una cifra
molto superiore di quanto la Legge di Stabilità taglia alla sanità,
all'istruzione e agli enti locali. La spending review vale per gli ospedali e
per le scuole, ma non per i cacciabombardieri.
Niente di nuovo per Sbilanciamoci e la campagna Taglia le ali alle armi, che il possibile aumento del costo degli F35 l'avevano denunciato da molto tempo. La novità è che dopo tante smentite arriva la conferma dei vertici delle forze armate, per bocca del segretario generale della Difesa che ammette una lievitazione del costo per ciascun cacciabombardiere da 80 a oltre 127 milioni di dollari. Un 60% di aumento ben superiore a quel 40% che secondo l'indagine del governo sulla corruzione è il sovrapprezzo medio per gli appalti pubblici dovuto al malaffare. E di tangenti nelle industrie militari ne sono girate tante in questi anni.
Solo pochi giorni fa la Ragioneria dello Stato ha bloccato il provvedimento sugli esodati in discussione alla Camera dei Deputati, perché giudicato «troppo oneroso» e «privo di copertura». Non ci risulta che lo stesso scrupolo verso i lavoratori senza stipendio e senza pensione sia stato applicato ai cacciabombardieri F35, per i quali spenderemo così tanti soldi nei prossimi anni. Né abbiamo notizia che la Corte dei Conti si sia interrogata su come mai in poco tempo una somma così enorme sia destinata a lievitare del 60%. Cosa che invece negli Stati Uniti fa il Gao (Government Accountability Office), una sorta di Corte dei Conti americana, che ha tirato le orecchie al Congresso degli Stati Uniti per i tanti problemi tecnici che presenta l'F35 con i suoi costi troppo alti e crescenti…
Niente di nuovo per Sbilanciamoci e la campagna Taglia le ali alle armi, che il possibile aumento del costo degli F35 l'avevano denunciato da molto tempo. La novità è che dopo tante smentite arriva la conferma dei vertici delle forze armate, per bocca del segretario generale della Difesa che ammette una lievitazione del costo per ciascun cacciabombardiere da 80 a oltre 127 milioni di dollari. Un 60% di aumento ben superiore a quel 40% che secondo l'indagine del governo sulla corruzione è il sovrapprezzo medio per gli appalti pubblici dovuto al malaffare. E di tangenti nelle industrie militari ne sono girate tante in questi anni.
Solo pochi giorni fa la Ragioneria dello Stato ha bloccato il provvedimento sugli esodati in discussione alla Camera dei Deputati, perché giudicato «troppo oneroso» e «privo di copertura». Non ci risulta che lo stesso scrupolo verso i lavoratori senza stipendio e senza pensione sia stato applicato ai cacciabombardieri F35, per i quali spenderemo così tanti soldi nei prossimi anni. Né abbiamo notizia che la Corte dei Conti si sia interrogata su come mai in poco tempo una somma così enorme sia destinata a lievitare del 60%. Cosa che invece negli Stati Uniti fa il Gao (Government Accountability Office), una sorta di Corte dei Conti americana, che ha tirato le orecchie al Congresso degli Stati Uniti per i tanti problemi tecnici che presenta l'F35 con i suoi costi troppo alti e crescenti…
mercoledì 17 ottobre 2012
non è un paese per onesti
Comincia Oltremanica, precisamente da Birmingham, la nuova vita di Simone Farina. L'ex difensore del Gubbio, nei mesi scorsi salito alla ribalta delle cronache per aver rifiutato 200 mila euro e aver denunciato il tentativo di combine in un incontro di Coppa Italia tra la squadra umbra e il Cesena lo scorso anno, dopo essere rimasto senza squadra in Italia, ha firmato per l'Aston Villa, club di Premier League britannica, per entrare nello staff tecnico con il ruolo di 'community coach' e insegnare i veri valori dello sport alle nuove generazioni. Per la precisione, sarà uno dei tecnici che svolgono programmi di educazioni sportiva che ogni club inglese organizza nelle proprie comunità locali. Corsi di calcio, e non solo: lealtà, sportività, integrità saranno i motivi di questi incontri con i ragazzi, potenziali futuri campioni del campionato inglese...
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Dichiarazione
Non aspetto altro che 36 ore a scuola, 18 massimo, senza deroghe, di lezione, le altre in uno studio, da dividere fra 2-3 colleghi, una scrivania e un computer per ciascuno, riscaldamento d'inverno e climatizzatore d'estate, un telefono, accesso a internet, un bagno con la carta igienica e scottex per asciugare le mani, uno stipendio decente (europeo?), fra le altre cose.
Da domani sono pronto
ma...
questi (come tutti gli altri) vogliono abbattere costi, ammazzare precari, diminuire la qualità, avvilire, assolutamente capaci di distruggere, mai di costruire.
anche qui
Da domani sono pronto
ma...
questi (come tutti gli altri) vogliono abbattere costi, ammazzare precari, diminuire la qualità, avvilire, assolutamente capaci di distruggere, mai di costruire.
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Tanja Niemijer, guerrillera
Momentanea battuta d'arresto per il processo di pace tra il governo colombiano e le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). Secondo il quotidiano colombiano "El Espectador", le delegazioni non sono partite per Oslo, dove si sarebbe dovuto tenere il primo incontro ufficiale tra le parti. Un rinvio dovuto in primo luogo alle piogge incessanti degli ultimi giorni che avrebbero impedito ad alcuni delegati della guerriglia di recarsi per tempo all'Avana, dove si sarebbero radunati coi compagni prima di partire per la Norvegia. La testata parla però anche di tensioni nate in seguito alla decisione della guerriglia di includere tra i negoziatori la cittadina olandese Tanja Nijmeijer, assegnandole il compito di curare traduzioni e rapporti con la stampa.
Una scelta dell'ultimo momento che avrebbe irritato non poco Bogotà. Oltre a non essere colombiana, la Nijmeijer non si sarebbe sottoposta alle procedure giuridiche e legali degli altri delegati. Stante questa situazione, l'arrivo delle due delegazioni dovrebbe prodursi non prima di martedì. Il governo norvegese, riferiscono i media internazionali, conferma per ora la conferenza stampa congiunta che le parti dovrebbero tenere nella giornata di mercoledì.
da qui
continua su youtube...
(primo minuto in olandese, poi tutto in spagnolo)
Una scelta dell'ultimo momento che avrebbe irritato non poco Bogotà. Oltre a non essere colombiana, la Nijmeijer non si sarebbe sottoposta alle procedure giuridiche e legali degli altri delegati. Stante questa situazione, l'arrivo delle due delegazioni dovrebbe prodursi non prima di martedì. Il governo norvegese, riferiscono i media internazionali, conferma per ora la conferenza stampa congiunta che le parti dovrebbero tenere nella giornata di mercoledì.
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(primo minuto in olandese, poi tutto in spagnolo)
martedì 16 ottobre 2012
un'intervista con don Gallo
«Vengo da lontano, a 17 anni sono sceso dalla montagna con la brigata partigiana comandata da mio fratello, ho visto nascere la democrazia, e avevamo in testa solo una cosa: la speranza. E ora non posso vederle morire, la democrazia e la speranza. Vedi, ho una bella età. Per me ogni minuto è prezioso. E allora mi sono chiesto: dove posso riversare ancora la mia fede, la mia ansia di giustizia, la mia inquietudine, il mio impegno per la libertà, l'uguaglianza, la pace, la giustizia sociale? In una crociata per la mia Chiesa, che io amo ma che è terremotata?, nei partiti alla deriva? Ma non posso stare zitto». E così don Andrea Gallo, fondatore della comunità di San Benedetto al Porto, angelo anarchico, instancabile pescatore di uomini e donne sulla strada, ma anche il samaritano che l'anno scorso s'è messo sulle spalle la sua Genova avvelenata dalle divisioni della sinistra e ha accompagnato alla vittoria il sindaco arancione Marco Doria, se n'è inventata un'altra. A 84 anni compiuti - e grazie al suo «staff», dice, ma intende l'immancabile Domenico Chionetti, per tutti "Megu" - da sabato scorso è su twitter. 2mila follower in poche ore. «L'idea è venuta a lui», racconta Megu. «È attento ai nuovi linguaggi, vuole parlare ai giovani. D'altronde visto il successo della pagina facebook che ha 77184 fan, ed è la terza dopo quella di Giovanni Paolo II e Padre Pio, sbarcare su twitter era la cosa più naturale». E così una domenica come tutte e cioè non di riposo, tra un battesimo e un'altra messa, troviamo il don Gallo di sempre, un torrente di parole, entusiasta di aver trovato una nuova "strada" dove parlare ai giovani. Contenendo la sua passione in 140 caratteri.
Don Gallo, con il tuo primo tweet se l'è presa con Matteo Renzi, che ha «un linguaggio spregiudicato e vuoto come quello della Santanché». Pesante, no?
Ti dicevo, non posso stare zitto. E devo dire delle cose, anche perché ovunque vado molta gente mi ascolta. Renzi dice che in Riviera sono arrivate 500 persone ad ascoltarlo. Belìn, venti giorni prima per me ne erano venute 700. E poi da poco sono stato a Arcidosso, a Saronno. Sono un prete pellegrino, cerco le verità andando, camminando. Ho tre bussole: il Vangelo, la Costituzione, e il Quinto Evangelo di De Andrè. Cammina e camminando arriveremo a un nuovo mondo possibile, che poi era il grido mondiale del '68. E quello del G8, contro i cinici signori della Banca Mondiale, del Fondo Monetario e dell'Organizzazione del Commercio...
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Don Gallo, con il tuo primo tweet se l'è presa con Matteo Renzi, che ha «un linguaggio spregiudicato e vuoto come quello della Santanché». Pesante, no?
Ti dicevo, non posso stare zitto. E devo dire delle cose, anche perché ovunque vado molta gente mi ascolta. Renzi dice che in Riviera sono arrivate 500 persone ad ascoltarlo. Belìn, venti giorni prima per me ne erano venute 700. E poi da poco sono stato a Arcidosso, a Saronno. Sono un prete pellegrino, cerco le verità andando, camminando. Ho tre bussole: il Vangelo, la Costituzione, e il Quinto Evangelo di De Andrè. Cammina e camminando arriveremo a un nuovo mondo possibile, che poi era il grido mondiale del '68. E quello del G8, contro i cinici signori della Banca Mondiale, del Fondo Monetario e dell'Organizzazione del Commercio...
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Hagakure
un po' di anni fa ho visto "Ghost dog", di Jim Jarmusch, con Forest Whitaker, e dopo ho letto "Hagakure", mi è capitato in mano adesso e l'ho riletto.
sempre interessante (e chi non l'ha visto cerchi il film, non se ne pentirà) - franz
Hagakure e' una delle opere piu' significative tramandate dalla tradizione giapponese, e' composto da brevi aforismi che trasmettono l'antica saggezza dei samurai e dai quali emerge lo spirito del Bushido: la via dei samurai.
La parola Hagakure e' composta due ideogrammi che significano foglia e nascondere quindi puo' essere tradotto con l'espressione "nascosto dalle foglie".
Qualcuno ritiene che la via dei samurai equivalga alla via della morte ma se letto e interpretato nel modo corretto, Hagakure rivela un pensiero complesso e positivo che non ha nulla a che vedere con l'esaltazione della morte e del suicidio. La via del samurai non si radica ne nella violenza ne nella ricerca del profitto personale, il suo fine non e' quello di vincere gli altri, ma se stessi.
L'Hagakure e' un libro antico ma attuale , uno stimolo, uno strumento, un invito per la ricerca interiore di tutti noi.
da qui
sempre interessante (e chi non l'ha visto cerchi il film, non se ne pentirà) - franz
Hagakure e' una delle opere piu' significative tramandate dalla tradizione giapponese, e' composto da brevi aforismi che trasmettono l'antica saggezza dei samurai e dai quali emerge lo spirito del Bushido: la via dei samurai.
La parola Hagakure e' composta due ideogrammi che significano foglia e nascondere quindi puo' essere tradotto con l'espressione "nascosto dalle foglie".
Qualcuno ritiene che la via dei samurai equivalga alla via della morte ma se letto e interpretato nel modo corretto, Hagakure rivela un pensiero complesso e positivo che non ha nulla a che vedere con l'esaltazione della morte e del suicidio. La via del samurai non si radica ne nella violenza ne nella ricerca del profitto personale, il suo fine non e' quello di vincere gli altri, ma se stessi.
L'Hagakure e' un libro antico ma attuale , uno stimolo, uno strumento, un invito per la ricerca interiore di tutti noi.
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domenica 14 ottobre 2012
la faccia di Maroni
2011
«Ho comunicato al Consiglio dei ministri la mia volontà di
firmare il decreto di indizione dei comizi elettorali affinché le elezioni
amministrative si possano svolgere il 15 e 16 maggio per il primo turno, e due
settimane dopo i ballottaggi ove necessario», ha reso noto il ministro
dell'Interno, Roberto Maroni. «Il referendum invece si svolgerà invece il 12
giugno secondo una tradizione italiana che ha sempre distinto le due date», ha
aggiunto il titolare del Viminale.
2012
Lombardia nel caos: Maroni vuole l’election day
L’impatto economico dei festival di approfondimento culturale - Guido Guerzoni
con la cultura si mangia, dice lo studio qui sotto - franz
Nel 1990, mentre compulsavo i materiali per la tesi di laurea, mi imbattei in una pubblicazione che mi incuriosì parecchio: si trattava di un studio di Roger Vaughan, condotto nel 1976, sull’impatto economico del Festival di Edimburgo (Vaughan 1977 e 1980).
Incuriosito, appurai l’esistenza di una vasta letteratura internazionale... che muoveva da presupposti assai lontani dai temi che animavano il dibattito italiano sull’economia dei beni culturali dei primi anni Novanta del secolo scorso: pubblico-privato, l’oro nero del Belpaese, viva/oddio gli americani, ecc.
Il punto di partenza di tali studi era e rimane banale: le istituzioni e le manifestazioni culturali forniscono un contributo rilevante allo sviluppo economico e occupazionale dei territori su cui insistono, essendo capaci di attrarre centinaia di migliaia di facoltosi visitatori, deviare ingenti flussi turistici, sostenere diversi settori economici, frenare la migrazione intellettuale e favorire lo sviluppo del capitale umano locale, ecc. Tuttavia, le medesime istituzioni e manifestazioni possono provocare congestioni e danni al patrimonio culturale, incrementare i costi sostenuti dalle comunità e dagli enti locali, alterare gli equilibri dei mercati immobiliari
e stravolgere gli assetti delle attività commerciali favorendo la difesa di posizioni di rendita, esercitare impatti sociali negativi, ecc.
In tal senso, sebbene i nessi tra cultura, creatività e sviluppo economico siano da dieci anni oggetto di una tambureggiante e trionfalistica offensiva accademico-congressuale, non si può certo affermare che in Italia si sia sviluppato un vero dibattito metodologico sulla misurazione di tali impatti, sicché si riaffermano principi ideologici alla moda, scarsamente sostanziati da verifiche empiriche ancorate a un rigoroso dibattito teorico...
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Nel 1990, mentre compulsavo i materiali per la tesi di laurea, mi imbattei in una pubblicazione che mi incuriosì parecchio: si trattava di un studio di Roger Vaughan, condotto nel 1976, sull’impatto economico del Festival di Edimburgo (Vaughan 1977 e 1980).
Incuriosito, appurai l’esistenza di una vasta letteratura internazionale... che muoveva da presupposti assai lontani dai temi che animavano il dibattito italiano sull’economia dei beni culturali dei primi anni Novanta del secolo scorso: pubblico-privato, l’oro nero del Belpaese, viva/oddio gli americani, ecc.
Il punto di partenza di tali studi era e rimane banale: le istituzioni e le manifestazioni culturali forniscono un contributo rilevante allo sviluppo economico e occupazionale dei territori su cui insistono, essendo capaci di attrarre centinaia di migliaia di facoltosi visitatori, deviare ingenti flussi turistici, sostenere diversi settori economici, frenare la migrazione intellettuale e favorire lo sviluppo del capitale umano locale, ecc. Tuttavia, le medesime istituzioni e manifestazioni possono provocare congestioni e danni al patrimonio culturale, incrementare i costi sostenuti dalle comunità e dagli enti locali, alterare gli equilibri dei mercati immobiliari
e stravolgere gli assetti delle attività commerciali favorendo la difesa di posizioni di rendita, esercitare impatti sociali negativi, ecc.
In tal senso, sebbene i nessi tra cultura, creatività e sviluppo economico siano da dieci anni oggetto di una tambureggiante e trionfalistica offensiva accademico-congressuale, non si può certo affermare che in Italia si sia sviluppato un vero dibattito metodologico sulla misurazione di tali impatti, sicché si riaffermano principi ideologici alla moda, scarsamente sostanziati da verifiche empiriche ancorate a un rigoroso dibattito teorico...
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Atto di dolore di un giornalista - Gianni Zanata
Mio Padrone, mi pento e mi dolgo
O Padrone
Tu che mi concedi la grazia e l’onore di poter lavorare ogni giorno nella Tua Azienda, nella Tua splendida azienda, anche se talvolta lo splendore noi non lo vediamo, noi, ciechi e umili dipendenti, perché non siamo in grado di comprendere la Tua parola di mestizia e di sconforto
noi non capiamo che se tutto va a rotoli, se non fai investimenti, se mandi via i collaboratori, se ami circondarti di persone incompetenti, se non hai una struttura commerciale in grazia di Dio (e scusa se oso nominare il Tuo competitor), se non ci consenti di svolgere il nostro lavoro come sappiamo, come sapremmo e come dovremmo fare, se Tu ti ostini a modificare ruoli e mansioni del personale, se Tu insulti la nostra intelligenza, se pretendi di fare carta straccia delle regole e dei contratti di lavoro, noi non capiamo che se mortifichi le nostre professionalità è soltanto per il nostro bene
noi, insipido popolino, ciurmaglia di bassa redazione, non lo capiamo, non siamo in grado di capire...
giovedì 11 ottobre 2012
Si dios fuera mujer - Mario Benedetti
Se Dio fosse una donna (Mario
Benedetti)
¿E se Dio fosse una donna?
- Juan Gelman -
¿E se Dio fosse una donna?
chiede Juan senza fare una piega,
oh, oh, se Dio fosse donna
è possibile che agnostici ed atei
non diciamo dire no con la testa
e diciamo sì col nostro animo.
Forse ci avvicineremmo alla sua divina nudità
per baciare i suoi piedi non di bronzo,
il suo inguine non di pietra,
i suoi seni non di marmo,
le sue labbra non di gesso.
Se Dio fosse donna l’abbracceremmo
per strapparla dalla sua distanza
e non ci sarebbe da giurare
finché la morte non ci separi
poiché sarebbe immortale per antonomasia
e invece di trasmetterci AIDS o panico
ci contagerebbe la sua immortalità.
Se Dio fosse donna non si stabilirebbe
lontano nel regno dei cieli,
ma ci attenderebbe nell’androne dell’inferno,
con le braccia non conserte,
con la sua rosa non di plastica
e il suo amore non di angeli.
O Dio mio, Dio mio
se per sempre e da sempre
fossi una donna
che bello scandalo sarebbe,
e che avventurosa, splendida, impossibile,
prodigiosa blasfemia.
(Libera traduzione di P. Adorni)
¿E se Dio fosse una donna?
- Juan Gelman -
¿E se Dio fosse una donna?
chiede Juan senza fare una piega,
oh, oh, se Dio fosse donna
è possibile che agnostici ed atei
non diciamo dire no con la testa
e diciamo sì col nostro animo.
Forse ci avvicineremmo alla sua divina nudità
per baciare i suoi piedi non di bronzo,
il suo inguine non di pietra,
i suoi seni non di marmo,
le sue labbra non di gesso.
Se Dio fosse donna l’abbracceremmo
per strapparla dalla sua distanza
e non ci sarebbe da giurare
finché la morte non ci separi
poiché sarebbe immortale per antonomasia
e invece di trasmetterci AIDS o panico
ci contagerebbe la sua immortalità.
Se Dio fosse donna non si stabilirebbe
lontano nel regno dei cieli,
ma ci attenderebbe nell’androne dell’inferno,
con le braccia non conserte,
con la sua rosa non di plastica
e il suo amore non di angeli.
O Dio mio, Dio mio
se per sempre e da sempre
fossi una donna
che bello scandalo sarebbe,
e che avventurosa, splendida, impossibile,
prodigiosa blasfemia.
(Libera traduzione di P. Adorni)
mercoledì 10 ottobre 2012
Manuel Castells
una mente lucida e necessaria - franz
Il presente articolo formula una serie di fondate ipotesi sull’interazione tra comunicazione e
rapporti di potere nel contesto tecnologico che caratterizza la network society, o “società in rete”.
Partendo da un corpus selezionato di studi sulla comunicazione e da una serie di case study ed
esempi, si giunge alla conclusione che i media siano divenuti lo spazio sociale ove il potere viene
deliberato. Mostrando il legame diretto tra politica, politica dei media, politica dello scandalo e crisi
della legittimità politica in una prospettiva globale. E avanzando l’idea che lo sviluppo di reti di
comunicazione interattiva orizzontale ha favorito l’affermazione di una nuova forma di
comunicazione, la mass self-communication (comunicazione individuale di massa), attraverso
Internet e le reti di comunicazione wireless. In un tale contesto, politiche insurrezionali e
movimenti sociali sono in grado di intervenire con maggiore efficacia nel nuovo spazio di
comunicazione. Sul quale, però, hanno investito anche i media ufficiali o corporate media e la
politica mainstream. Tutto ciò si è tradotto nella convergenza tra mass media e reti di
comunicazione orizzontale. E, più in generale, in uno storico spostamento della sfera pubblica
dall’universo istituzionale al nuovo spazio di comunicazione.
QUI il saggio
martedì 9 ottobre 2012
Spennati come polli - Francesco Gesualdi
La fortuna del potere è costruita sull’incuria e l’incompetenza,
non la propria, ma quella dei sudditi. Sicuro che nessuno verifica la
veridicità dei fatti, ma che tutti ripetono a pappagallo le notizie ben
confezionate, ne fabbrica di proprie, false e tendenziose, per affidarle ai
ripetitori acefali affinché le trasformino in luoghi comuni. In idee, cioè, che
nessuno mette in discussione perché assorbite come verità incrollabili. E’
successo quando hanno voluto imporci una globalizzazione a misura di multinazionali,
quando hanno voluto rifilarci un’Europa al servizio di banche e speculatori,
quando hanno voluto scipparci l’acqua e gli altri beni comuni a vantaggio delle
imprese private. E oggi sta succedendo col debito pubblico.
La vulgata, tanto cara ai tedeschi, è che ci siamo indebitati perché siamo un popolo sprecone. Una comunità che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità usando i soldi degli altri per garantirci il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza sociale. Quest’idea è talmente radicata, che nessuno (o quasi) osa contestare le politiche lacrime e sangue che oggi ci impongono. Anzi le salutiamo come la giusta punizione per i peccati commessi. Peccato, però, che il peccato non esista e lo dimostra una ricostruzione effettuata dal “Centro Nuovo Modello di Sviluppo” sulla finanza pubblica degli ultimi 30 anni.
Nel 1980, il debito pubblico italiano ammontava a 114 miliardi di euro pari al 56% del Pil. Quindici anni dopo lo troviamo cresciuto di 10 volte, più esattamente a 1150 miliardi di euro. Effetto dei nostri sprechi? In parte sì perché questo è un periodo in cui le spese per servizi e investimenti pubblici sono state superiori alle entrate fiscali. Ma solo per 140 miliardi. Se il nostro eccesso di spese fosse stata la causa di tutti i mali, il debito pubblico avrebbe dovuto raddoppiare, non decuplicare. E allora cosa ha contributo alla crescita incontrollata del debito? Risposta: gli interessi che in quel periodo oscillavano fra il 12 e il 20%. Bisognò attendere il 1996 per vederli scendere al di sotto del 9%. In parte l’Italia pagava per le scelte di Reagan che aveva bisogno di soldi per finanziare lo scudo spaziale. Non volendo alzare le tasse, si finanziava richiamando capitali dal resto del mondo con alti tassi di interesse. Gli altri paesi assetati di prestiti non avevano altra scelta che offrire di più.
La politica di spese per servizi superiori alle entrate durò fino al 1992 e in ogni caso procurò un disavanzo complessivo inferiore 6% Poi, con l’eccezione del 2009-2010, la spesa per servizi è rimasta sempre al di sotto delle entrate, permettendo un risparmio complessivo di 633 miliardi di euro. Una cifra sufficiente ad assorbire non solo i disavanzi precedenti, ma anche il debito di partenza e continuare ad avere un avanzo di 370 miliardi. Ma nonostante la politica da formichine, il nostro debito è cresciuto all’astronomica cifra di 2000 miliardi. Solo per colpa degli interessi che nel trentennio ci hanno procurato un esborso pari a 2141 miliardi di euro.
Dal che risulta che non siamo un popolo di spreconi, ma un popolo di risparmiatori spennati. Polli finiti in una macchina infernale messa a punto dall’oligarchia finanziaria per derubarci dei nostri soldi, con la complicità della politica. E poiché la politica è eletta da noi , ci troviamo nella situazione assurda in cui scegliamo i nostri estorsori e li autorizziamo a sottoporci a ogni forma di angheria per servire meglio gli interessi degli strozzini. Una follia possibile solo perché viviamo nell’inganno dell’ignoranza. Per questo come Centro Nuovo Modello di Sviluppo abbiano messo a punto un kit formativo e abbiamo lanciato la campagna «Debito pubblico, se non capisco non pago» con lo scopo di promuovere una corretta informazione e la nascita di gruppi locali che si dedichino alla formazione.
La vulgata, tanto cara ai tedeschi, è che ci siamo indebitati perché siamo un popolo sprecone. Una comunità che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità usando i soldi degli altri per garantirci il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza sociale. Quest’idea è talmente radicata, che nessuno (o quasi) osa contestare le politiche lacrime e sangue che oggi ci impongono. Anzi le salutiamo come la giusta punizione per i peccati commessi. Peccato, però, che il peccato non esista e lo dimostra una ricostruzione effettuata dal “Centro Nuovo Modello di Sviluppo” sulla finanza pubblica degli ultimi 30 anni.
Nel 1980, il debito pubblico italiano ammontava a 114 miliardi di euro pari al 56% del Pil. Quindici anni dopo lo troviamo cresciuto di 10 volte, più esattamente a 1150 miliardi di euro. Effetto dei nostri sprechi? In parte sì perché questo è un periodo in cui le spese per servizi e investimenti pubblici sono state superiori alle entrate fiscali. Ma solo per 140 miliardi. Se il nostro eccesso di spese fosse stata la causa di tutti i mali, il debito pubblico avrebbe dovuto raddoppiare, non decuplicare. E allora cosa ha contributo alla crescita incontrollata del debito? Risposta: gli interessi che in quel periodo oscillavano fra il 12 e il 20%. Bisognò attendere il 1996 per vederli scendere al di sotto del 9%. In parte l’Italia pagava per le scelte di Reagan che aveva bisogno di soldi per finanziare lo scudo spaziale. Non volendo alzare le tasse, si finanziava richiamando capitali dal resto del mondo con alti tassi di interesse. Gli altri paesi assetati di prestiti non avevano altra scelta che offrire di più.
La politica di spese per servizi superiori alle entrate durò fino al 1992 e in ogni caso procurò un disavanzo complessivo inferiore 6% Poi, con l’eccezione del 2009-2010, la spesa per servizi è rimasta sempre al di sotto delle entrate, permettendo un risparmio complessivo di 633 miliardi di euro. Una cifra sufficiente ad assorbire non solo i disavanzi precedenti, ma anche il debito di partenza e continuare ad avere un avanzo di 370 miliardi. Ma nonostante la politica da formichine, il nostro debito è cresciuto all’astronomica cifra di 2000 miliardi. Solo per colpa degli interessi che nel trentennio ci hanno procurato un esborso pari a 2141 miliardi di euro.
Dal che risulta che non siamo un popolo di spreconi, ma un popolo di risparmiatori spennati. Polli finiti in una macchina infernale messa a punto dall’oligarchia finanziaria per derubarci dei nostri soldi, con la complicità della politica. E poiché la politica è eletta da noi , ci troviamo nella situazione assurda in cui scegliamo i nostri estorsori e li autorizziamo a sottoporci a ogni forma di angheria per servire meglio gli interessi degli strozzini. Una follia possibile solo perché viviamo nell’inganno dell’ignoranza. Per questo come Centro Nuovo Modello di Sviluppo abbiano messo a punto un kit formativo e abbiamo lanciato la campagna «Debito pubblico, se non capisco non pago» con lo scopo di promuovere una corretta informazione e la nascita di gruppi locali che si dedichino alla formazione.
Ulteriori
dettagli sul sito www.cnms.it , www.smontaildebito.org
lunedì 8 ottobre 2012
Il cattivo esempio di Hugo Chávez - Gennaro Carotenuto
...la prima e più importante lezione del voto di ieri è che i venezuelani, e con loro buona parte del continente latinoamericano, non vogliono, ri-fiu-ta-no, la restaurazione liberale, la restaurazione dell’imperio del Fondo Monetario Internazionale, la restaurazione di un modello nel quale sono condannati a essere per l’eternità figli di un dio minore, mantenuti in una condizione di dipendenza semicoloniale dove le decisioni fondamentali sulla loro vita sono prese altrove. C’è un dato che a mio modo di vedere rappresenta ciò: in epoca chavista il Venezuela ha moltiplicato gli investimenti in ricerca scientifica di 23 volte (2.300%). Soldi buttati, si affrettano a dire i critici. Soldi investiti in un futuro nel quale i venezuelani non saranno inferiori a nessuno. I latinoamericani ragionano con la loro testa, hanno vissuto per decenni sulla loro pelle il modello economico che la Troika sta imponendo al sud dell’Europa e non vogliono che quell’incubo d’ingiustizia, fame, repressione e diritti negati ritorni. Il patto sociale in Venezuela non è stato rotto da Chávez ma fu rotto nell’89 quando Carlos Andrés Pérez (vicepresidente in carica dell’Internazionale Socialista) con il caracazo fece massacrare migliaia di persone per imporre i voleri dell’FMI.
Ancora oggi alcuni commenti irriducibilmente antichavisti (la summa per disinformazione è quello di Gianni Riotta su La Stampa di Torino) rappresentano il candidato delle destre sconfitto come un seguace del presidente latinoamericano Lula. Divide et impera. Erano i velinari di George Bush ad aver deciso di rappresentare l’America latina spaccata in due tra governi di sinistra responsabili e governi di sinistra irresponsabili. È straordinario come i Minculpop continuino a far girare ancora le stesse veline: l’immagine di Capriles progressista e vicino a Lula è stata costruita a tavolino dai grandi gruppi mediatici, a partire da quello spagnolo Prisa. Il curioso è che Lula rispose immediatamente “a brutto muso” di non tirarlo in ballo, perché lui con Capriles non ha nulla a che vedere e appoggia con tutto se stesso l’amico e compagno Hugo Chávez. Non importa: loro, i Riotta, facendo finta di niente, continuano imperterriti a definire Capriles come il Lula venezuelano. Allo stesso modo continuano a ripetere la balla sulla mancanza di libertà d’espressione in un paese dove ancora l’80% dei giornali fa capo all’opposizione. È un’invenzione, ma la disparità mediatica è tale che è impossibile farsi ascoltare in un contesto mediatico monopolistico. Non siamo ingenui: nella demonizzazione di Chávez c’è ben altro che l’analisi degli eventi di un continente lontano. C’è lo schierare un cordone sanitario alla benché minima possibilità che anche in Europa si possa ragionare su alternative all’imperio della Troika. Lo abbiamo visto con il trattamento riservato ad Aleksis Tsipras in Grecia e a Jean-Luc Mélenchon in Francia: non è permesso sgarrare.
Soffermarci su tale dettaglio ci svela una realtà fondamentale difficilmente comprensibile dall’Europa: è talmente impresentabile il neoliberismo che in America latina è oggi necessario nasconderlo sotto il tappeto e spacciare anche i candidati di destra come progressisti. Aveva un che di paradossale ascoltare in campagna elettorale Capriles giurare amore eterno agli indispensabili medici cubani elogiandone il ruolo storico. Come già il suo predecessore Rosales, sapeva che senza medici non ci sarebbe pace in un Venezuela che oggi conosce i propri diritti e non è disposto a rinunciarvi, altro merito storico di Chávez. I Riotta di turno tergiversavano non solo sul riconoscimento dei meriti storici di Cuba nella solidarietà internazionale (o la riducono ad un mero scambio economico, salute per petrolio) ma negano anche l’informazione che era quello stesso Capriles, giovane dirigente politico dell’estrema destra venezuelana, che l’11 aprile 2002 diede l’assalto all’ambasciata cubana durante l’effimero golpe del quale fu complice. Che vittoria per i cubani se quello stesso Capriles fosse davvero stato sincero nel riconoscerne i meriti!
Questo è il segno del trionfo di Chávez: nelle classi medie e popolari venezuelane vige oggi un discorso contro-egemonico a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica, della falsa retorica liberale per la quale tutti i diritti vanno garantiti a tutti ma a patto che siano messi su di uno scaffale ben in alto perché solo chi ci arriva con le proprie forze possa goderne. In Venezuela, in America latina, stanno spazzando via tutte le balle che racconta da decenni il Giavazzi di turno sul liberismo che sarebbe di sinistra. Chi lo ha provato, e nessuno come i latinoamericani lo ha provato davvero, sa bene di cosa si parla e non ci casca più. È un discorso quindi, quello chavista, che riporta in auge l’incancellabile ruolo della lotta di classe nella storia, la chiarezza della necessità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni.
Eppure il Riotta di turno liquida ancora oggi come “inutili” i programmi sociali chavisti. Che ignoranza, malafede e disprezzo per il male di vivere di chi non ha avuto la sua fortuna. Milioni di venezuelani, che avevano come principale preoccupazione della vita l’alimentazione del giorno per giorno, la salute spiccia (banali cure per un mal di pancia, operazioni alla cateratta del nonno) che la privatizzazione della stessa nega a chi non può permettersela, l’educazione dei figli, la casa, passando da baracche a dignitose case popolari, oggi godono di un sistema sanitario pubblico che ha visto decuplicare i medici in servizio, di un sistema educativo pubblico che ha visto quintuplicare i maestri, di un sistema alimentare pubblico che permette a molti di mettere insieme il pranzo con la cena. “Inutili”, dice Riotta, con una volgarità razzista degna delle brioche di Maria Antonietta. Oggi queste persone, escluse fino a ieri, possono spingere il loro tetto di cristallo più in alto, respirare di più, desiderare di più, magari perfino leggere inefficienze e difetti del processo e avere preoccupazioni, quali la sicurezza, più simili alle classi medie che a quelle del sottoproletariato nel quale erano stati sommersi durante la IV Repubblica. Questo i Riotta non possono spiegarlo: è così inefficiente il chavismo che ha dimezzato i poveri che nella IV Repubblica erano arrivati al 70%.
domenica 7 ottobre 2012
Venezia in Germania
Altre volte
mi hanno chiesto, per esempio, se qualcuno sia mai rimasto vivo nella camera a
gas. Era difficilissimo, eppure una volta è rimasta una persona viva. Era un
bambino di circa due mesi. All'improvviso, dopo che hanno aperto la porta e
messo in funzione i ventilatori per togliere l'odore tremendo del gas e di
tutte quelle persone - perché quella morte era molto sofferta - uno di quelli
che estraeva i cadaveri ha detto: “Ho sentito un rumore”. Normalmente quando
uno muore, dopo un po' finché non si assesta, il corpo ha dentro dell'aria e fa
qualche rumore. Abbiamo detto: “Questo poverino, in mezzo a tutti questi morti,
comincia a perdere il lume della ragione”. Dopo una decina di minuti ha sentito
di nuovo. Abbiamo detto: “Tutti fermi, non vi muovete”, ma non abbiamo sentito
niente e abbiamo continuato a lavorare. Quando ha sentito di nuovo, ho detto:
“Possibile che senta solo lui? Allora fermiamoci un po' di più e vediamo cosa
succede”. Infatti, abbiamo sentito quasi tutti un vagito da lontano. Allora uno
di noi sale sui corpi per arrivare laddove veniva il rumore e si ferma dove si
sente più forte. Va vicino e, insomma, là c'era la mamma che stava allattando
questo bambino. La mamma era morta e il bambino era attaccato al seno della
mamma. Finché riusciva a succhiare stava tranquillo. Quando non è arrivato più
niente si è messo a piangere - si sa che i bambini piangono quando hanno fame.
Il bambino era quindi vivo e noi l'abbiamo preso e portato fuori, ma ormai era
condannato. C'era l'SS tutto contento: “Portatelo, portatelo”. Come un
cacciatore, era contento di poter prendere il suo fucile ad aria compressa, uno
sparo alla bocca e il bambino ha fatto la fine della mamma. Questo è successo
una volta in quella camera a gas. Ci sono tanti racconti, ma io non racconto
mai cose che hanno visto gli altri e non io.
Avere di più, essere di meno - Franco Arminio
La parola più citata dalla politica è la
parola crescita. Ormai viene pronunciata a ripetizione, come negli esercizi
spirituali buddisti. In una società che alla sua crisi sa opporre solo questa
parola non bisogna poi stupirsi che viene fuori la bulimia dei politicanti alla
Fiorito che l’ossessione della crescita la prendono alla lettera e fanno di
tutto per accrescere il loro patrimonio. In un certo senso viviamo tutti
ammassati in un piccolo campo di concentramento in cui vige la sola legge
dell’accumulo. Possono essere poltrone, benefit, amori, successi, fallimenti,
il principio ispiratore della dilagante miseria spirituale è sempre quello:
avere di più, essere di meno.
La crescita che viene evocata ovviamente è solo quella dei consumi. Vendere più automobili significa avere più gatti morti per le strade, più aria sporca e più rumori, ma questo non sembra preoccupare nessuno. La politica col governo tecnico è andata in cassa integrazione. È entrata in depressione e non lo sa. Non sa allearsi e non sa scontrarsi sulle scelte di fondo. Ci sono contese puramente verbali, come quelle che vediamo in televisione. È il trionfo dell’agonia ciarliera, dell’autismo corale.
Purtroppo questa scena non riguarda solo una minoranza di malati, è tutta la società italiana che è depressa. Ogni persona, oltre alla depressione che gli può venire dalle vicende della sua vita e del suo corpo, è come se partecipasse al dividendo quotidiano della depressione collettiva. Siamo tutti azionisti dell’impotenza, militanti della scontento.
In uno scenario di questo tipo ha poco senso allinearsi su falsi dilemmi: crescita-decrescita, politica-antipolitica. Quello che possiamo fare è dare attenzione ai nostri luoghi, essere fedeli alle nostre passioni. Non è affatto un programma minimo ed è un programma che tiene insieme tensioni intime e tensioni civili...
La crescita che viene evocata ovviamente è solo quella dei consumi. Vendere più automobili significa avere più gatti morti per le strade, più aria sporca e più rumori, ma questo non sembra preoccupare nessuno. La politica col governo tecnico è andata in cassa integrazione. È entrata in depressione e non lo sa. Non sa allearsi e non sa scontrarsi sulle scelte di fondo. Ci sono contese puramente verbali, come quelle che vediamo in televisione. È il trionfo dell’agonia ciarliera, dell’autismo corale.
Purtroppo questa scena non riguarda solo una minoranza di malati, è tutta la società italiana che è depressa. Ogni persona, oltre alla depressione che gli può venire dalle vicende della sua vita e del suo corpo, è come se partecipasse al dividendo quotidiano della depressione collettiva. Siamo tutti azionisti dell’impotenza, militanti della scontento.
In uno scenario di questo tipo ha poco senso allinearsi su falsi dilemmi: crescita-decrescita, politica-antipolitica. Quello che possiamo fare è dare attenzione ai nostri luoghi, essere fedeli alle nostre passioni. Non è affatto un programma minimo ed è un programma che tiene insieme tensioni intime e tensioni civili...
sabato 6 ottobre 2012
Sacrifici umani in nome dei mercati – Manuel Castells
…Un potere supremo e misterioso che
dev’essere placato con dei sacrifici umani: i tagli alla spesa sociale
colpiscono la sanità, l’istruzione e le pensioni. In altre parole, la vita.
Ma chi sono i mercati? Qualcuno di voi
conosce personalmente qualche mercato? I mercati sono gli investimenti gestiti
dagli intermediari finanziari. Ma cosa vogliono gli investitori e i loro
intermediari? L’equilibrio fiscale? Garantire la solvibilità del debito a lungo
termine? No. Il vero motore degli investimenti è il guadagno, puro, semplice e
a breve termine. È così che funziona il mondo della finanza…
…se i
cittadini contano ancora qualcosa, allora potrebbero rifondare pacificamente la
democrazia e ripulire le istituzioni da certi partiti che hanno messo radici in
parlamento come se fosse una loro tenuta protetta dal filo spinato, e noi
fossimo i loro braccianti. Accampamento contro accampamento. Cinismo politico
contro speranze dei cittadini. Spezziamolo questo filo spinato.
venerdì 5 ottobre 2012
Arrestata la blogger cubana Yoani Sánchez
"O
siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o
dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la
forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza." (Che
Guevara)
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giovedì 4 ottobre 2012
Sardignolo - Alberto Mario Delogu
un libro che smonta miti e ti fa vedere la tua terra con altri occhi, fa ridere e pensare.
ne ho regalato solo sette copie, se mi è piaciuto, e molto, prova a indovinarlo.
divertente e amaro, va bene per tutti, non ve ne pentirete - franz
…Un paio d’anni dopo la laurea in agraria ha lasciato la Sardegna al seguito del prof. Paolo De Castro per andare a lavorare al centro studi Nomisma di Bologna, diretto a quel tempo da Romano Prodi. Ha lasciato Bologna nel ‘93 per andare a studiare economia all’Università della California, tre anni di master conclusi con una tesi sul mercato mondiale del Pecorino Romano. Poi il ritorno in Sardegna per prender servizio, giustappunto, come direttore del Consorzio del Pecorino Romano.
La “reimmersione” sarda è stata istruttiva, anche se non sempre in senso positivo, e dopo un anno e
mezzo ho preferito fare le valigie alla volta del Nordamerica, destinazione Canada, che a quel tempo, e ancora oggi, cercava immigrati qualificati. In Canada non avevo parenti né amici né lavoro, e pochi risparmi. Ho cominciato da zero, facendo anche dei mestieri raccogliticci, poi pian piano, come accade agli emigrati in paesi aperti e accoglienti, ho cominciato a trovare il lavoro giusto per le mie competenze, e da lì è cominciata una carriera nel commercio internazionale e nel marketing agroalimentare.
Nel 2000 hai ceduto alla nostalgia e hai riprovato a tornare in Sardegna, ma ancora una volta il “gran ritorno” non ha funzionato.
Ho sbattuto il muso sugli stessi spigoli che avevo urtato cinque anni prima. Questa volta sono andato via senza guardarmi alle spalle. Sono ridiventato quindi canadese, complice anche una gentile e minuta funzionaria dell’ufficio immigrazione dell’aeroporto di Toronto, di etnia indiana o pakistana, la quale, quando le ho dato i documenti e comunicato la mia intenzione di rinunciare alla residenza in Canada, mi ha guardato a lungo, poi mi ha restituito i documenti e mi ha risposto: “Tieni, ripensaci ancora. Ti lascio entrare. Vedrai, forse questo paese ha ancora bisogno di te. Ripensaci”. Ancora mi commuovo a raccontare quest’episodio. Ricordo di aver pensato: un paese che mi accoglie in questo modo è un paese che mi merita. E da quel giorno sento un leggero fremito d’orgoglio ogni volta che vedo sventolare la foglia d’acero…
da qui
…Ma se lo specchio in cui vedremo riflessa la nostra immagine collettiva leggendo Sardignolo è piuttosto impietoso, molti degli aspetti trattati, in realtà, ci affratellano con il resto degli italiani: come il baronato universitario e la negazione della meritocrazia nei nostri atenei, o l’esterofilia più bieca, che ci spinge in modo compulsivo a cancellare ogni traccia di identità, non solo linguistica, e ad adottare modelli cui poi non riusciamo ad adeguarci fino in fondo.
Sardignolo è un invito, reso irresistibile da un’ironia sorprendente, a guardare oltre o a cercare legami ben più profondi che ci uniscono alla nostra terra, un’esortazione che può abbracciare qualunque lettrice e lettore, non necessariamente sardo…
da qui
…Seicentomila apolidi come Mariano che è combattuto tra il desiderio innato d’amare la sua patria ed il razional pensiero di continuare a beneficiare dello status di cittadino nordamericano, ponendo sul piatto della bilancia i pro e i contro al suo inconscio, offrendo una prospettiva di cambiamento all’amico Bachisio nelle taglienti sferzate verso i grotteschi personaggi che animano il suo epistolario, che alla fine lo condizioneranno nella scelta di abbandonare la Sardegna per riprendersi quello status di emigrato che forse in fondo è il suo marchio di fabbrica.
La Sardegna di Alberto Mario DeLogu è vuota degli artefici del disastro economico e culturale nel quale è sprofondata: per scelta, suppongo, non vengono mai menzionati quei politici che, grazie alle loro non scelte, hanno contribuito non poco a creare una voragine tra l’isola e il continente in maniera molto più incisiva rispetto ai duecento chilometri di Mar Tirreno o della sua differente struttura geologica rispetto alla penisola…
da qui
…Fulminante il passaggio in cui parla dell’ospitalità dei nuoresi, praticamente una sorta di presa in ostaggio dell’ospite. Insomma due “fuoriusciti” che da lontano creano e riflettono sull’identità. Sì perché l’dentità è questione di cultura e chi meglio di un letterato può elaborare un pensiero identitario. Chi siamo? Per i nostri amici siamo gente che non sa di essere, che ha le idee confuse sul proprio essere. Gente che focalizza la propria ragion d’essere solo quando è fuori da sé: quindi i sardi per avere un ruolo in Sardegna devono lasciarla la Sardegna, ragionare su di lei a distanza per coglierne le opportunità e le contraddizioni e questo sia che siano, sardi illustri, sia che siano sardi in attesa di diventare illustri. I tanti studenti del progetto master end back ad esempio, o i ricercatori delle diverse facoltà cagliaritane in attesa di contratto, per farne un altro d’esempio. Sotto traccia non sono poche le provocazioni che i due testi rimandano: che ruolo deve avere la politica nella formazione dell’immagine che il sardo ha di sé? Saremo sempre il popolo dei cassaintegrati? Perché lo sapete che anche il lavoro crea identità giusto? Identità positiva se il lavoro lo si ha, identità negativa quando il lavoro manca. Per non parlare del ruolo dell’Università, nel creare l’idea d’identità dei giovani sardi. Pensate quali straordinari risultati raggiungono i nostri atenei nel creare nei loro migliori dottorati l’identità del portaborse – schiavo del professore – senza lavoro retribuito a quarant’anni? Meditiamo gente, meditiamo.
da qui
ne ho regalato solo sette copie, se mi è piaciuto, e molto, prova a indovinarlo.
divertente e amaro, va bene per tutti, non ve ne pentirete - franz
…Un paio d’anni dopo la laurea in agraria ha lasciato la Sardegna al seguito del prof. Paolo De Castro per andare a lavorare al centro studi Nomisma di Bologna, diretto a quel tempo da Romano Prodi. Ha lasciato Bologna nel ‘93 per andare a studiare economia all’Università della California, tre anni di master conclusi con una tesi sul mercato mondiale del Pecorino Romano. Poi il ritorno in Sardegna per prender servizio, giustappunto, come direttore del Consorzio del Pecorino Romano.
La “reimmersione” sarda è stata istruttiva, anche se non sempre in senso positivo, e dopo un anno e
mezzo ho preferito fare le valigie alla volta del Nordamerica, destinazione Canada, che a quel tempo, e ancora oggi, cercava immigrati qualificati. In Canada non avevo parenti né amici né lavoro, e pochi risparmi. Ho cominciato da zero, facendo anche dei mestieri raccogliticci, poi pian piano, come accade agli emigrati in paesi aperti e accoglienti, ho cominciato a trovare il lavoro giusto per le mie competenze, e da lì è cominciata una carriera nel commercio internazionale e nel marketing agroalimentare.
Nel 2000 hai ceduto alla nostalgia e hai riprovato a tornare in Sardegna, ma ancora una volta il “gran ritorno” non ha funzionato.
Ho sbattuto il muso sugli stessi spigoli che avevo urtato cinque anni prima. Questa volta sono andato via senza guardarmi alle spalle. Sono ridiventato quindi canadese, complice anche una gentile e minuta funzionaria dell’ufficio immigrazione dell’aeroporto di Toronto, di etnia indiana o pakistana, la quale, quando le ho dato i documenti e comunicato la mia intenzione di rinunciare alla residenza in Canada, mi ha guardato a lungo, poi mi ha restituito i documenti e mi ha risposto: “Tieni, ripensaci ancora. Ti lascio entrare. Vedrai, forse questo paese ha ancora bisogno di te. Ripensaci”. Ancora mi commuovo a raccontare quest’episodio. Ricordo di aver pensato: un paese che mi accoglie in questo modo è un paese che mi merita. E da quel giorno sento un leggero fremito d’orgoglio ogni volta che vedo sventolare la foglia d’acero…
da qui
…Ma se lo specchio in cui vedremo riflessa la nostra immagine collettiva leggendo Sardignolo è piuttosto impietoso, molti degli aspetti trattati, in realtà, ci affratellano con il resto degli italiani: come il baronato universitario e la negazione della meritocrazia nei nostri atenei, o l’esterofilia più bieca, che ci spinge in modo compulsivo a cancellare ogni traccia di identità, non solo linguistica, e ad adottare modelli cui poi non riusciamo ad adeguarci fino in fondo.
Sardignolo è un invito, reso irresistibile da un’ironia sorprendente, a guardare oltre o a cercare legami ben più profondi che ci uniscono alla nostra terra, un’esortazione che può abbracciare qualunque lettrice e lettore, non necessariamente sardo…
da qui
…Seicentomila apolidi come Mariano che è combattuto tra il desiderio innato d’amare la sua patria ed il razional pensiero di continuare a beneficiare dello status di cittadino nordamericano, ponendo sul piatto della bilancia i pro e i contro al suo inconscio, offrendo una prospettiva di cambiamento all’amico Bachisio nelle taglienti sferzate verso i grotteschi personaggi che animano il suo epistolario, che alla fine lo condizioneranno nella scelta di abbandonare la Sardegna per riprendersi quello status di emigrato che forse in fondo è il suo marchio di fabbrica.
La Sardegna di Alberto Mario DeLogu è vuota degli artefici del disastro economico e culturale nel quale è sprofondata: per scelta, suppongo, non vengono mai menzionati quei politici che, grazie alle loro non scelte, hanno contribuito non poco a creare una voragine tra l’isola e il continente in maniera molto più incisiva rispetto ai duecento chilometri di Mar Tirreno o della sua differente struttura geologica rispetto alla penisola…
da qui
…Fulminante il passaggio in cui parla dell’ospitalità dei nuoresi, praticamente una sorta di presa in ostaggio dell’ospite. Insomma due “fuoriusciti” che da lontano creano e riflettono sull’identità. Sì perché l’dentità è questione di cultura e chi meglio di un letterato può elaborare un pensiero identitario. Chi siamo? Per i nostri amici siamo gente che non sa di essere, che ha le idee confuse sul proprio essere. Gente che focalizza la propria ragion d’essere solo quando è fuori da sé: quindi i sardi per avere un ruolo in Sardegna devono lasciarla la Sardegna, ragionare su di lei a distanza per coglierne le opportunità e le contraddizioni e questo sia che siano, sardi illustri, sia che siano sardi in attesa di diventare illustri. I tanti studenti del progetto master end back ad esempio, o i ricercatori delle diverse facoltà cagliaritane in attesa di contratto, per farne un altro d’esempio. Sotto traccia non sono poche le provocazioni che i due testi rimandano: che ruolo deve avere la politica nella formazione dell’immagine che il sardo ha di sé? Saremo sempre il popolo dei cassaintegrati? Perché lo sapete che anche il lavoro crea identità giusto? Identità positiva se il lavoro lo si ha, identità negativa quando il lavoro manca. Per non parlare del ruolo dell’Università, nel creare l’idea d’identità dei giovani sardi. Pensate quali straordinari risultati raggiungono i nostri atenei nel creare nei loro migliori dottorati l’identità del portaborse – schiavo del professore – senza lavoro retribuito a quarant’anni? Meditiamo gente, meditiamo.
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