articoli e video di Clare Daly, Mick Wallace, Enrico Tomaselli, Matteo Saudino, Alessandro Orsini, Franco Astengo, bortocal, Nicolai Lilin, Fernando Moragón, Rossana De Simone, Fabrizio Verde, Alastair Crooke, Fulvio Scaglione, Giuliano Marrucci, Diego Ruzzarin, Domenico Gallo, Marinella Mondaini, Manuel Cherchi, Francesco Masala,Ursula von der Pfizer Leyen, Simone Spiga, Laura Ruggeri, Nicola Rangeloni, Matteo Bortolon, Domenico Quirico, Manlio Dinucci, Fabio Mini, Lorenzo Ramírez, Davide Malacaria, Serafino Massoni
Attrici e attori di merda – Francesco Masala
Si vede che Ursula von der Pfizer Leyen ha studiato recitazione nella stessa scuola di Zelensky, non all’Actors Studio, ma alla Chiagne e fotte Studio.
ascoltatela quando recita il testo che le ha scritto il regista:
abbiamo un sogno (come Martin Luther King)
l’Ucraina combatte per i nostri valori (la corruzione?)
la nostra libertà (di essere sottomessi per sempre agli Usa)
la nostra democrazia (quella per la quale Ursula von der Pfizer Leyen non è mai stata eletta)
l’Ucraina fa già parte della UE (carramba, che sorpresa!, la nostra democrazia).
non potremo sacrificarci così bene come i poveri (solo i poveri) ucraini
(quello che Ursula von der Pfizer Leyen non dice è che dei suoi sette figli, allevati da tante signore Rottenmeier, tre li metterebbe in un Leopard e li mandererebe a combattere contro i russi, ma purtroppo non può mandarli, vorrebbe e non può, perchè non sono poveri, che sfiga!)
Gorizia, la maledetta, è oggi in Ucraina – bortocal
…facciamo pure conto che i dati comunicati dagli ucraini stessi siano veri, e non inficiati dalle esigenze della propaganda bellica: dichiarano che sono stati conquistati quattro villaggi, con tanto di bandiera giallo-azzurra che sventola sulle rovine, e sono stati recuperati circa 100 chilometri quadrati.
questo lo dicono gli ucraini, non la propaganda russa, quindi vediamo meglio.
. . .
100 km quadrati sono tanti o pochi?
il fronte di questa guerra è lungo circa 1.800 chilometri; quindi, distribuiti su tutto il fronte, significherebbe che gli ucraini sono avanzati su tutto il fronte di 60 centimetri, sei centimetri al giorno in dieci giorni.
naturalmente questa è soltanto una immagine per far capire le proporzioni.
tenendo conto che gli ucraini rivendicano anche di essere avanzati di ben 3 km in un punto specifico del fronte e supponendo che l’avanzata sia avvenuta almeno lungo 10 km, altrimenti credo che non varrebbe neppure la pena di parlarne, questo significherebbe che dei 100 km quadrati conquistati, 30 sono in quel punto e che negli altri 1.790 km di fronte l’avanzata è stata di 70 km quadrati, cioè di meno di 40 centimetri in una decina di giorni, meno di 4 centimetri al giorno.
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ma mi fermo con questo tipo di calcolo e ne presento un altro:
l’Ucraina ha una superficie di circa 600mila km quadrati, il doppio dell’Italia; secondo gli ucraini la Russia occupa attualmente circa il 20% della superficie del loro stato, cioè 120mila km quadrati; calcoli di altra fonte riducono questa superficie a circa 100mila; 27mila, però, sono rappresentati dalla Crimea, occupata dai russi nel 2014, ma meglio si direbbe ripresa da loro, dopo la cessione del 1954 tra i due stati membri dell’URSS.
quindi nella guerra iniziata a febbraio dell’anno scorso la Russia avrebbe conquistato circa 70mila km quadrati.
in ogni caso, occupa attualmente circa un sesto dell’Ucraina.
per fare un paragone per noi più comprensibile, è come se la Russia – data per perdente e sconfitta dalla nostra propaganda – occupasse da noi al momento l’intera Italia settentrionale, Val Padana e monti e valli che la circondano.
e il paragone funziona anche dal punto di vista economico, visto che si tratta della regione più ricca e produttiva dell’Ucraina: cosa che spiega la determinazione del governo ucraino a volersela riprendere.
questa peraltro è abitata da popolazione che parla in prevalenza il russo e che ai referendum svoltisi, sia pure sotto il controllo russo e senza garanzie internazionali, ha confermato massicciamente di volere far parte della Russia, sottraendosi alle discriminazioni a cui era sottoposta.
quindi in una decina di giorni di attacchi frontali al fronte ampiamente fortificato in questi mesi dai russi, gli ucraini hanno riconquistato circa un millesimo del territorio che considerano perduto…
Usa & c. hanno sabotato il piano di pace del 2022 – Domenico Gallo
Nell’era della comunicazione in cui siamo interconnessi con tutto il mondo in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie dei principali Paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia, si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni.
Già il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di un’anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa, però se ne potevano dedurre tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che all’epoca, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella Nato e accettare uno status di neutralità. All’epoca, gli osservatori più attenti come Jeffrey Sachs (sul Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione Usa aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’America, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione europea e i governi dei principali Paesi europei hanno mantenuto lo stesso silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso della stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.
Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Times erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Lo scorso 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leader africani guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022 si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capo-delegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Kharkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”.
Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra. Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra. Da questo fatto, non più contestabile, se ne deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli Usa e la Gran Bretagna, in quanto i principali fornitori di armi all’Ucraina.
L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Johnson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto. L’accordo non poteva essere sconosciuto dagli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione europea ne dovevano essere a conoscenza. Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati e i vertici Ue dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato.
Quando si fanno tali misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo. Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica” evidentemente valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte. Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio ed evitati infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da tv, giornali e agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.
DIARIO DELLA CRISI | Industria bellica S.p.A.: come fabbricare la guerra infinita – Rossana De Simone – prima parte
Pubblichiamo la prima parte di un articolo di Rossana De Simone che entra «nel laboratorio segreto della produzione» degli armamenti. Corroborando l’analisi con dati presi dai più importanti report governativi, l’articolo spiega come è proprio il settore delle armi, nello stretto intreccio tra aziende della difesa e sicurezza e Stati, uno dei pezzi più importanti che sta trainando il tentativo di ricostruire una base industriale, soprattutto negli Stati Uniti, e come questo aspetto influenzi direttamente lo svolgersi della guerra in Ucraina.
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Il 16 agosto 2021, parlando dalla Casa Bianca, il presidente americano Joe Biden si è rivolto al mondo per spiegare il collasso in Afghanistan e la fuga degli americani: «Non rimpiango il ritiro. L’Afghanistan non è negli interessi USA».1
Con il suo discorso Biden ha voluto riaffermare che era necessario voltare pagina e pensare alle nuove minacce, a Cina e Russia. Dopo vent’anni di guerra globale, serviti per prendere in mano le redini dell’ordine mondiale e per sostituire l’islam radicale al comunismo come minaccia alla pace mondiale, negli Stati Uniti e nel mondo si è cominciato a discutere delle numerose operazioni militari, che hanno distrutto un paese dopo l’altro, e del declino dell’occidente nell’egemonia globale.
Dei 21mila miliardi di dollari2 di spese militari effettuate dal 2001 al 2022, che hanno portato alla militarizzazione della politica interna (in nome della sicurezza), 16mila miliardi sono andati alle forze militari (compresi 7200 miliardi per le società private di sicurezza), 3mila miliardi ai programmi per i veterani, 949 miliardi alla sicurezza interna e 732 miliardi alle forze dell’ordine federali. Degli otto generali che hanno comandato le forze americane in Afghanistan – senza mai «vederne» e ancor meno denunciarne il disastro – il generale Joseph F. Dunford Jr, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Lockheed Martin, il più grande appaltatore del Pentagono, mentre l’attuale Segretario della Difesa Lloyd Austin, già comandante della Combined Joint Task Force, è membro del CdA di Raytheon Technologies, uno dei più grandi appaltatori militari del mondo3.
Una cosa è certa: la guerra sotto forma di necessità economica fa sicuramente bene ai rendimenti azionari dei maggiori appaltatori della difesa a livello mondiale (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman, and General Dynamics)4.
Il sistema di produzione degli armamenti – sempre più costosi e con un tempo di ricerca e sviluppo sempre in divenire –, unitariamente a quello militare del Pentagono, non è più semplicemente appendice ma parte integrante del meccanismo di produzione e riproduzione capitalistico. A differenza di altri settori, le aziende della difesa e sicurezza, insieme a quelli considerati strategici, hanno sempre un certo grado di controllo governativo considerando che lo Stato è il primo committente che sostiene e finanza l’intero ciclo produttivo di un nuovo prodotto, e che decide sia le cooperazioni intergovernative sia le collaborazioni multinazionali all’interno di un mercato sempre più competitivo e transnazionale.
La funzione anticiclica delle spese militari, come pensata da molti economisti keynesiani, volta cioè a contrastare situazioni di crisi, ha ormai assunto un significato diverso dal momento in cui le crisi cicliche capitalistiche tendono a presentarsi sempre più ravvicinate nel tempo. Analogamente, la crisi pandemica, sebbene abbia evidenziato l’importanza per le imprese dell’aerospazio di avere due comparti separati – uno civile, l’altro militare –per bilanciare le attività dell’uno con l’altro in funzione anticiclica, non è servita a smascherare lo scandalo dei lauti finanziamenti statali per programmi la cui tecnologia proviene dal settore civile. La ricerca e sviluppo a duplice uso, fortemente incentivata dall’amministrazione Clinton5 nei primi anni ’90 – comprensiva di tutte le tecnologie d’avanguardia come l’intelligenza artificiale, i veicoli/velivoli senza pilota, i big data o le nanotecnologie – viene da tempo sviluppata e prodotta essenzialmente dal settore civile, ma conteggiata ugualmente come fosse tecnologia proprietaria del prescelto general contractor. Se poi si entra nel merito dei bilanci di queste aziende, si può appurare che la maggior parte del denaro speso sul militare va al capitale, differentemente da ciò che accade negli altri tipi di lavoro: solo 15% del prezzo di ogni F-35 viene usato per pagare il costo del lavoro coinvolto nella produzione, fabbricazione e montaggio, mentre l’85% serve per le spese generali6.
Dopo l’ondata di fusioni e acquisizioni avvenuta nei primi anni ‘90, che hanno rimodellato la base industriale della difesa americana riducendo il numero delle prime contractor e la concorrenza, il rapporto del Pentagono «Consolidation of Defense Industrial Base Poses Risks to National Security»7 ha analizzato i pericoli di ulteriori consolidamenti tra grandi produttori con dati aggiornati. Risulta infatti che le aziende del settore aerospaziale e difesa si sono ridotte da 51 a 5 (Lockheed Martin, Raytheon Technologies, General Dynamics. Northrop Grumman e Boeing), da 13 a 3 i fornitori di missili tattici, di satelliti da 8 a 4. Negli ultimi trent’anni, la base industriale si sarebbe contratta del 40% mentre sarebbero 15.000 i fornitori a rischio. Secondo gli esperti è necessario frenare la politica delle fusioni tra gli appaltatori per evitare rischi per l’economia e la sicurezza nazionale non solo perché ha significato un rialzo dei prezzi, ma ha portato a lacune nella catena di approvvigionamento e minacciato le capacità produttive. Si sono identificate almeno 300 vulnerabilità in cinque settori che dovranno proteggere le loro catene di approvvigionamento: dai materiali strategici e critici alla microelettronica, dalle batterie ai missili. In seguito anche la pandemia di coronavirus ha provocato interruzioni alle catene di approvvigionamento globale dai semiconduttori ad altri beni e materiali, creando carenze nelle attività di fabbricazione e produzione. Durante la pandemia la Casa Bianca aveva invocato il «Defense Production Act» (legge sulla produzione della difesa) per riutilizzare alcune fabbriche per produrre ventilatori.
Il problema però non è stato tanto la loro capacità produttiva, ma la mancanza di componenti provenienti da più di quattordici paesi diversi (filtri e allarmi, tubi e alimentatori, ecc.).
Una delle iniziative prese dal governo ha riguardato in parte il finanziamento di piccole e medie imprese (PMI) per la produzione di beni come semiconduttori, prodotti biotecnologici e biomedici, energia rinnovabile e accumulo di energia, in parte fornendo crediti all’esportazione alle imprese statunitensi che vendono beni all’estero8 .
Tuttavia per la prima volta, e non per problemi salariali o pensionistici, queste aziende hanno dovuto rallentare la produzione grazie a un parassita e alla paura dei lavoratori. Secondo l’agenzia di stampa internazionale Bloomberg, gli appaltatori della difesa USA hanno mantenuto in funzione la maggior parte degli impianti e hanno chiuso solo per qualche giorno per pulire le strutture. A seguito dello scoppio della crisi per coronavirus, l’Aerospace Industrial Association ha chiesto al Dod di dichiarare l’industria della difesa «infrastruttura critica», in modo che le aziende potessero costringere i propri dipendenti a continuare a lavorare.
E, nonostante il calo del Pil mondiale per via della pandemia e la crisi economica che ha coinvolto interi settori, nel 2020 gli ordini e le consegne di armi non si sono fermati (531 miliardi di dollari con un aumento dell’1,3% rispetto al 2019) anche in presenza di misure restrittive che non hanno consentito la consegna delle armi e, in alcuni casi, il proseguire dei cicli produttivi. Anche la spesa militare globale ha continuato a crescere attestandosi a 1.981 miliardi di dollari, un aumento del 2,6% rispetto al 2019 e del 9,3% rispetto al 2011, confermando il forte potere di pressione delle lobby dell’industria della difesa nei confronti delle istituzioni.
Nel 2022 il governo degli Stati Uniti decide di rafforzare il «Buy American Act»9, la legislazione sugli investimenti, per consentire di porre il veto a qualsiasi fusione che si ritenga dannosa per la sicurezza nazionale. Il presidente Biden ha infatti espresso la volontà di spezzare il potere dei trust per rigenerare capacità di produzione autentiche in caso di conflitto grave e ad alta intensità. Tuttavia è evidente che non si va verso un percorso di deconsolidamento – visto che sono prevedibili movimenti nei settori cyber, intelligenza artificiale, ipersonico, guerra ibrida, informatica quantistica, armi antisatellite, ecc. – in quanto rimane incontrovertibile che, essendo la difesa guidata dalla tecnologia, gli appaltatori più grandi acquisiranno sempre più società high-tech per accedere alle loro tecnologie.
La preoccupazione del presidente deriva da uno studio del CSIS secondo cui anche negli Stati Uniti l’industria della difesa non è in grado, a breve termine, di aumentare i tassi di produzione. Un avvertimento in questo senso c’è stato quando, durante una conferenza fra alti funzionari del Pentagono, legislatori statunitensi e massimi dirigenti del settore produttivo, Gregory J. Hayes presidente e direttore di Raytheon Technologies (che insieme a Lockheed Martin, produce i sistemi missilistici Stinger e Javelin) ha dichiarato: «Il problema è che abbiamo consumato così tante scorte nei primi 10 mesi di guerra, che abbiamo sostanzialmente esaurito 13 anni di produzione di Stinger e cinque anni di produzione di Javelin. La domanda è: come faremo a rifornire le scorte?»…
QUI DIARIO DELLA CRISI | Industria bellica S.p.A.: come fabbricare la guerra infinita – Rossana De Simone – seconda parte
Pechino lancia la ciambella di salvataggio all’Europa (l’ultima) – Fabrizio Verde
“Per la Germania, la Francia e l’Europa nel suo complesso, la prima visita ufficiale all’estero del premier cinese Li Qiang dopo l’insediamento del nuovo governo cinese non è solo un viaggio per portare avanti la tradizionale amicizia e approfondire la cooperazione, ma anche un’importante visita per attuare la proposta del leader cinese di promuovere lo sviluppo dei legami Cina-Europa. È anche un’occasione rara per escludere le interferenze interne ed esterne e per risolvere le loro complesse e intricate riflessioni sulla Cina. L’Europa non dovrebbe perdere questa opportunità”. Si apre così un importante editoriale del quotidiano cinese Global Times.
Nei fatti dalla Cina ci dicono che Pechino sta lanciando una ciambella di salvataggio a un’Europa che sta affondando a causa del servilismo di una classe dirigente ottusa e asservita agli interessi Washington. Sono infatti gli Stati Uniti che hanno fatto precipitare la situazione in Ucraina riportando il dramma della guerra in Europa. Provocato la rottura tra Europa e Russia, con il prossimo obiettivo di staccare l’Europa anche dalla Cina – il suo primo partner commerciale.
Non è difficile credere che visto il livello scadente della classe dirigente europea anche questo obiettivo di Washington sarà facilmente raggiunto. Di nuovo a scapito dei popoli europei che ne pagheranno le peggiori conseguenze. Tra gli applausi scroscianti dei soliti media mainstream che ormai hanno fatto del capovolgimento della realtà e della propaganda atlantista la loro unica ragione di esistenza.
Così, gli ‘europeisti’ duri e puri, nella politica tanto quanto nell’informazione, procedono alla distruzione dell’Europa nell’interesse dell’egemone unipolare in declino. Washington pur di rallentare il processo di creazione del nuovo mondo multipolare pronto a scalzare il vecchio ordine unipolare è pronta a sacrificare l’Europa sull’altare dei propri interessi.
Come spiegato in un editoriale del quotidiano Global Times alla vigilia del viaggio in Europa del premier cinese Li Qiang “l’Unione Europea, in particolare i suoi membri principali, devono trovare nella cooperazione con la Cina la possibilità di superare lo stallo della crisi ucraina e di ripristinare la pace e la stabilità nel continente, nonché di affrontare la prepotenza degli Stati Uniti che mira a minare l’ambiente e il potenziale economico dell’UE”.
Per questo il primo viaggio all’estero del premier cinese acquista particolare importanza e “dimostra che la Cina attribuisce grande importanza ai legami strategici Cina-UE. E’ stato osservato che la visita di Li porterà maggiore certezza alla cooperazione Cina-Europa e favorirà la ripresa economica globale in un momento in cui il mondo è ancora in preda alle turbolenze causate dalla crisi ucraina e in cui l’unilateralismo e l’egemonia degli Stati Uniti minacciano la tendenza al multipolarismo”.
Quello della Cina sembra quasi essere un estremo tentativo di salvare l’Europa. Una sorta di ultima chiamata.
L’Unione Europea e la necessità di un assetto mondiale multipolare
L’Unione Europea si trova di fronte a una serie di sfide geopolitiche che richiedono una valutazione accurata del suo ruolo nell’arena internazionale. Nell’attuale configurazione a guida statunitense, l’UE si trova in una posizione di svantaggio – eufemismo per non dire a rimorchio di Washington – che potrebbe portare al fallimento e alla disintegrazione dell’Unione stessa. Pertanto, l’UE dovrebbe aspirare a un assetto mondiale multipolare, in cui diverse potenze condividono l’influenza globale.
Curioso è che questi semplici e lampanti concetti debbano essere spiegati ai cosiddetti ‘europeisti’ da chi invece ha sempre avversato il mostro neoliberista europeo. Ma tant’è. Evidentemente più che di ‘europeisti’ si tratta di fanatici atlantisti, pronti a sacrificare il progetto europeo a cui tanto dicono di tenere, per soddisfare quelli che Washington ritiene interessi vitali.
Siamo quindi costretti a spiegare a costoro che in un mondo multipolare l’Unione Europea avrebbe degli innegabili vantaggi
Riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti:
L’UE attualmente dipende in larga misura dagli Stati Uniti per la sicurezza, la difesa e la politica estera. Tuttavia, l’amministrazione statunitense prende decisioni che non rispecchiano gli interessi dell’UE, ma bensì la danneggiano fortemente. Con un assetto multipolare, l’UE potrebbe ridurre questa dipendenza e sviluppare una maggiore autonomia nella definizione delle proprie politiche, aumentando la sua capacità di perseguire gli interessi europei in modo indipendente.
Maggiore influenza geopolitica:
L’UE, con la sua economia ancora forte seppur in netto declino e la sua ricchezza di risorse, avrebbe il potenziale per diventare un attore geopolitico di primo piano. Tuttavia, nel contesto attuale, la sua influenza è limitata a causa della predominanza statunitense. Un assetto multipolare permetterebbe all’UE di assumere un ruolo più centrale nella definizione delle dinamiche globali, ampliando la sua influenza sia in termini di politica estera che economica.
Protezione degli interessi economici:
L’UE è uno dei principali attori nel commercio internazionale. Tuttavia, la sua posizione viene indebolita da politiche unilaterali degli Stati Uniti. Un assetto multipolare consentirebbe all’UE di diversificare i suoi partenariati commerciali e di difendere meglio i suoi interessi economici, mitigando il rischio di pressioni esterne che vanno a danneggiare l’economia europea.
Gestione dei flussi migratori:
L’UE si trova ad affrontare sfide significative legate ai flussi migratori provenienti da regioni instabili o in conflitto. Un assetto multipolare offrirebbe l’opportunità di stabilizzare le regioni di origine dei migranti attraverso una cooperazione internazionale più ampia ponendo fine alle folli politiche di destabilizzazione portate avanti dall’imperialismo solo per perpetuare il proprio dominio e saccheggiare le risorse naturali.
L’attuale assetto mondiale a guida statunitense pone l’UE in una posizione svantaggiata che potrebbe portarla al fallimento e alla disintegrazione. Per evitare tale scenario, l’UE dovrebbe perseguire attivamente un assetto mondiale multipolare, in cui le diverse potenze condividono l’influenza globale. La Cina sta provando a far aprire gli occhi ai paesi che di fatto guidano le sorti europee, Francia e Germania.
Gli ‘europeisti’, i cultori del sogno europeo, hanno invece da tempo scelto di immolarsi per la sopravvivenza del declinante mondo unipolare segnato dal dominio statunitense.
*Moloch
Antica divinità cananea, cui venivano sacrificate vittime umane nella valle di Hinnom (Geenna) presso Gerusalemme e il cui culto fu fortemente combattuto dai profeti e nella storiografia d’Israele.
In senso figurato, persona o istituzione caratterizzate da una insaziabile sete di distruzione o da potere brutale.
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