lunedì 26 giugno 2023

per finirla, se possibile, con Berlusconi

 Berlusconi, berlusconismo, berlusconisti

Riprendiamo molto volentieri dal sito Combat-COC questo articolo, che è di gran lunga il più completo e centrato tra quanti hanno commentato la scomparsa del Cav. nero da un punto di vista di classe. (Red.)

https://www.combat-coc.org/berlusconi-berlusconismo-berlusconisti/

 

 

La morte di Silvio Berlusconi ha mandato in onda il solito, vomitevole, falso e interessato teatrino italiano composto da una maggioranza di “pro” ed una – solo per l’occasione – ridotta minoranza di “anti”.

Entrambi gli schieramenti sono abbarbicati sul “personaggio” Berlusconi: sia da parte di chi lo ritiene uno dei più grandi e “longevi” statisti della storia d’Italia; sia da parte di chi fa risalire al suo operato l’origine di tutte le “disgrazie” del nostro vivere civile.

E allora cominciamo col ribadire una cosa: per noi Berlusconi è stato un nemico di classe, in quanto espressione politica della borghesia ai massimi livelli per un trentennio (quattro volte presidente del Consiglio). Classe alla quale tra l’altro ha appartenuto anche fisicamente come imprenditore.

Siamo stati contro Berlusconi così come lo siamo stati (e lo siamo) nei confronti di tutti i padroni, nessuno escluso.

Contro Berlusconi dunque in quanto anti-capitalisti, dal momento che per noi non si tratta di scegliere il padrone “migliore”. Sport che invece ha appassionato in questi decenni le fila dei competitor affezionati al capitalismo “buono”, “onesto” e “democratico” (sic).

Di conseguenza respingiamo tutti i mielosi (e ipocriti) discorsi apparsi in questi giorni sui mezzi di comunicazione relativi al fatto che di fronte alla morte tutte le “animosità” debbano stemperarsi: vuoi per “riconoscenza”, o per “rispetto”, o per “pietà cristiana”.

Per cui, stando sempre ben attenti a non “personalizzare” la politica ed a non “affogare” nell’antiberlusconismo la critica e l’opposizione a tutto il sistema capitalistico (che è internazionale), vogliamo cercare in queste righe di spiegare sommariamente la natura e la portata del “berlusconismo”. Fenomeno che travalica la vita biologica del singolo personaggio.

Silvio Berlusconi viene presentato dai media come un “grande imprenditore” che si è “fatto da sé”, e dunque depositario di un “sapere e potere” di altissimo livello. Valido anche per il vivere civile.

Teniamo presente che questa velenosa ideologia è stata propinata in tutte le salse da Mediaset, ed assunta purtroppo, negli ultimi decenni, come verità indiscussa da vasti strati di proletari (vedi l’ottimo articolo apparso recentemente sul sito dei compagni del “Pungolo Rosso”: “L’ideologia berlusconiana: una peste per la classe lavoratrice”).

Ora, fermo restando che nessuno “si fa da sé”, e tanto meno chi – come il capitalista –sfrutta il lavoro altrui, Berlusconi, in origine palazzinaro coi soldi prestati da papà, per tutti gli anni ’80 affida le sue fortune all’astro nascente Bettino Craxi: socialista, espressione spregiudicata e canagliesca della “Milano da bere”. Quello che si fa apprezzare dagli industriali, non dimentichiamolo, con il taglio della scala mobile agli operai. A cui il PCI, invece che la lotta, oppone un disastroso referendum; e la Triplice sindacale, dal canto suo, finita l’era del “compromesso storico”, trova l’occasione per archiviare la sua “unità” posticcia.

Le tempeste internazionali già in atto arrivano ad investire con irruenza anche il suolo italiano: la Thatcher in Gran Bretagna (1979) e Reagan negli Stati Uniti (1980) hanno aperto l’era “neo liberista”: fatta di “meno Stato e più mercato”, di tagli alle tasse caricando i costi sui servizi pubblici, di favori alle imprese, di demolizione delle roccaforti operaie, di “legge ed ordine”, di ritorno agli “spiriti animali del capitalismo” (che in realtà non erano mai scomparsi).

Quando, nel 1989, avviene il crollo del “Muro” e l’implosione del falso socialismo dell’Est, e la conseguente fine dell’URSS (1991), la lotta tra gli imperialismi si fa serrata per ridefinire gli equilibri mondiali. In tale ottica, il neo-liberismo diventa l’arma acuminata con la quale svellere i vecchi rapporti interni ed internazionali e, insieme alla guerra, rilanciare la gara per il predominio mondiale.

L’imperialismo italiano è attardato su questo fronte: ha pasteggiato lautamente per tutti gli anni ’80 dietro al “piccolo è bello”, sviluppando quantitativamente imprese ma non forza concentrata di capitale. Spappolando la classe operaia nel microcosmo dei “distretti” (da quello veneto a quello marchigiano), ma guardandosi bene dal toccare il peso del suo enorme parassitismo, ricorrendo continuamente alla svalutazione “competitiva” della moneta ed al gonfiamento del debito pubblico.

Nel 1992 il governo di Giuliano Amato (DC, PSI, PSDI, PLI), per fronteggiare una crisi monetaria che rischia di far uscire l’Italia dallo SME (Sistema Monetario Europeo), vara una manovra di “lacrime e sangue” (93.000 miliardi di lire) che giunge al prelievo sui conti correnti dei cittadini, passando per l’aumento delle quote contributive per le pensioni.   

Come se ciò non bastasse, in quello stesso anno scoppia “Tangentopoli”: un sistema di corruzione tra politica ed imprese ramificato, a largo raggio, che scardina definitivamente il sistema partitico della Prima Repubblica.

Berlusconi, perso il suo referente politico (Craxi, travolto dagli scandali, si rifugia in Tunisia dove morirà nel 2000) e pure lui coinvolto nelle inchieste, decide di entrare direttamente in campo soprattutto per salvaguardare le sue aziende (è già il magnate della TV privata). Non ha di certo in tasca, né mai ce l’avrà, quel “lungimirante progetto politico” che egli si è sempre attribuito, esaltato a più non posso dai suoi cortigiani.

Alle elezioni politiche del 1994 si presenta così con la sua creatura personale, Forza Italia, costruita in pochissimo tempo facendo leva sulla rete di vendita delle sue aziende (Fininvest) e sull’uso martellante delle sue TV. Teme che la “gioiosa macchina da guerra” messa in piedi da Achille Occhetto (PDS) insieme alla sinistra cattolica ed a quella “radicale” (aggrappati al suo antagonista Franco De Benedetti ed a spezzoni capital-statali), possa metterlo fuori gioco e costringerlo a rivedere tutti i progetti in essere: dall’editoria alle comunicazioni.

In pratica, Berlusconi entra direttamente in politica “percependo” il livello dello scontro che si è aperto nel capitalismo italiano dopo la cesura internazionale avvenuta tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Vi introduce “nuove” idee politiche? No.

Raccoglie ciò che si è già affermato nelle metropoli anglosassoni, lo condisce all’”amatriciana” e lo serve in tavola col guanto di velluto della sua già affermata potenza mediatica. Il sistema elettorale maggioritario è già nella logica delle cose, sancito dalla legge coniata a suo tempo dall’attuale presidente della Repubblica (il “Mattarellum”).

Le formazioni politiche della Prima Repubblica si sono già liquefatte. Il ceto politico che ne è stato coinvolto cerca affannosamente un nuovo padrone. L’impatto di Tangentopoli sull’opinione pubblica ha prodotto una diffusa ripulsa dei cittadini verso “i partiti” e verso la “politica politicante”, che attende solo di essere raccolta e indirizzata.

E Berlusconi questo fa: raccoglie e indirizza. Si dichiara “liberale”, ma intanto cerca di assicurarsi il suo monopolio aziendale, tacciando di “comunista” ogni misura che possa anche lontanamente richiamare forme di “controllo” sull’imprenditoria, o “vincoli” fiscali o la “mediazione” tra le cosiddette “parti sociali”. Comanda l’impresa. Lo Stato va modellato come un’impresa. L’imprenditore è l’architrave di tutte le relazioni sociali: va messo nelle condizioni di poter ben operare, perché da lui scaturiscono lavoro e quindi benessere.

Sono cose vecchie come il cucù, ma ora vengono instillate metodicamente in milioni di persone in una fase di ritirata, di scomposizione sociale della classe operaia, di “fine dei miti” e dei “sogni di palingenesi sociale” (come sostengono giustamente i compagni del “Pungolo Rosso” nell’articolo citato, la caduta del Muro ha dato ragione agli internazionalisti ma ha depresso la massa operaia) … e l’effetto è devastante.  

C’è da tener nel dovuto conto dei vari aspetti di quel mutamento sociale che permette la massima veicolazione di simili modi di pensare: il quindicennio appena trascorso di ristrutturazione delle grandi fabbriche (iniziato del 1974-’75), con le relative espulsioni delle avanguardie di lotta; l’incremento numerico e la pervasività sociale della piccola borghesia portatrice per antonomasia del “fai da te”; il mancato appuntamento della “generazione del ‘68” con un ricompattamento politico dal versante rivoluzionario (tradottosi, al contrario in estremo frazionamento o in riassorbimento riformista).

La vera “novità” introdotta Berlusconi è relativa alla forma della politica; aspetto che non va affatto considerato secondario. Mai come in questo caso la forma è sostanza.

Forza Italia diventa il “suo” partito: nel senso dell’”uomo solo al comando” che dà la linea, del condottiero il quale agisce in sintonia diretta col “popolo”, senza frustranti e “corrotte” mediazioni. Chi vince le elezioni governa sino a che mantiene la “fiducia” del popolo. Punto. Tutto il resto è noia, intrallazzo, perdita di tempo, “politicantismo” … che cozza con le “genuine” aspirazioni dei cittadini, i quali chiedono solo di essere ben governati.

Questa cosa, nella sua versione moderna “liberista”, si chiama “populismo”: preso in prestito dove l’abbiamo visto; ma con la “particolarità” italiana di riprendere a coniugare, appena dopo Tangentopoli, affarismo e politica riducendo ai minimi termini la “mediazione parlamentare” con la parte “avversa”.

Chi vince si prende quasi tutto il piatto; ragion per cui, conviene mettere da parte le “ideologie” e cercare di ingraziarsi il vincitore.

Così facendo la “corruzione” (che sta al capitale come il tuono alla tempesta) non viene affatto ridimensionata, ma riproposta e potenziata sotto nuova veste.

I partiti si riducono in pratica a delle appena velate lobby affaristiche: perdendo ogni afflato di “visione futura” che non sia legata al quattrino, al successo, al consumo.

E Berlusconi, ca va sans dire, rappresenta l’incarnazione vivente di simili “valori”.

Fosse un problema inerente solo i partiti usciti dall’era berlusconiana (era che ha coinvolto appieno ciò che resta della cosiddetta “sinistra”) sarebbe solo un ulteriore, salutare, chiarimento su cosa si nasconde dietro quelle sigle che ad ogni stagione vanno a chiedere il voto ai cittadini per “cambiare il paese”.

Fatto è invece che, purtroppo, l’andazzo del “disincanto ideologico”, del pressappochismo, dell’indifferenza politica, han messo profonde radici anche nel corpo sociale del proletariato, alimentando a sua volta il fenomeno del “berlusconismo”.

Sia che i proletari coinvolti abbiano o no votato per Berlusconi, o che addirittura non vadano più a votare.

Quanto simile “populismo” richiami aspetti del fascismo, o semplicemente di involuzione “autoritaria” degli Stati moderni è questione che non intendiamo oltremodo sviluppare in queste righe.

Ci basta rilevarne il rapporto, tenendo però ben presente tre aspetti:

1) ciò non costituisce un “tradimento” della democrazia borghese, ma il suo “naturale” sviluppo a seguito della centralizzazione del capitale e della nuova fase imperialista apertasi con l’ultimo decennio del secolo XIX;

2) combattere il populismo berlusconiano in nome del “violato spirito” della Costituzione, oltre che terreno scivoloso (i populismi in Occidente oggi vanno al potere “legalmente”, e poi casomai “svuotano” gradualmente tale legalità), è pure un terreno che nulla garantisce agli sfruttati: i quali solo nella lotta e nella loro organizzazione indipendente trovano le risorse per esistere in quanto “classe per sé”;

3) ad ogni modo la democrazia borghese, di ogni latitudine, non ha mai messo in soffitta il fascismo. Ragion per cui la lotta contro quest’ultimo – se non vuole essere una frase vuota e falsa – comporta una lotta decisa, di classe, anche contro la prima.

Berlusconi ha “sdoganato” il fascismo in Italia? Certo, col suo primo Esecutivo composto da F.I., A.N., Lega Nord, UDC e CCD (1994) egli ha rimesso pienamente in circolo, con responsabilità di governo, i “nipotini” del Duce.  

I quali, vedi l’attuale governo Meloni, si sono affrettati ad adeguarsi al verbo “neo-liberista” ed atlantista gettando a mare ogni reminiscenza di “Destra sociale” e di “Europa dei popoli”. Trattasi più che altro di una “modernizzazione” degli eredi del fascismo, di una loro “riconversione” e non una semplice riproposizione, tra l’altro impraticabile nell’epoca attuale.

Il trinomio Dio-Patria-Famiglia è stato riconvertito nei suoi caratteri conservatori e reazionari di massa, ancorandolo alla “sacralità” della proprietà privata (che proprio negli anni ’80 e ’90 arriva a coinvolgere strati importanti di lavoratori sul versante abitativo e finanziario) e blindando il tutto dietro la corazza della “Legge ed Ordine”, diretta preferibilmente contro immigrati e “perturbatori sociali”.

A tal proposito il conflitto sociale viene demonizzato: vuoi come residuato di “fanatismo ideologico” (assimilabile al terrorismo islamico), vuoi come riproposizione anacronistica di postulati ottocenteschi (il marxismo).

Il liberismo all’“amatriciana” di Berlusconi non ha potuto prescindere, elettoralmente ma non solo, dallo spargere effluvi di “libertà” nel popoloso mondo della microimpresa, del lavoro autonomo e delle partite IVA. Condoni, sanatorie, “pacificazioni fiscali”, prebende, protezionismi, agevolazioni di ogni tipo, unite alle “leggi ad personam” (una sessantina), costituiscono il succoso carnet con il quale Berlusconi si è costruito una base di massa destinata a durare nel tempo, oltre la sua stessa esistenza fisica.

Una eredità, anche questa, condivisa già nel passato con la Lega e “trasmessa” di recente al partito di Giorgia Meloni (flat tax e riduzione drastica delle aliquote).

Diamo una rapida carrellata delle leggi “sociali” più significative fatte passare dal Berlusconi “presidente-operaio”: abolizione dell’imposta su successioni e donazioni (2001); legge sulle grandi opere (2001); la Bossi-Fini (2002); la legge Biagi (2003); l’ennesima (contro)riforma pensionistica, quella dello “scalone” (2004); lo Scudo Fiscale (2001 e 2009); la sanatoria fiscale (2003). Tutti i “sensori” prima elencati vengono toccati, compresi ovviamente gli attacchi ai lavoratori (flessibilità, precarietà, salario aziendale) ed ai pensionati (ai quali ci si rivolge paternalisticamente con mance “una tantum” e con sparate grottesche, pure queste lasciate in dote alla Meloni).

E come non preparare accuratamente un “canale preferenziale” con la chiesa cattolica?

Il fascismo su questo ha fatto scuola, ma i fascisti sono poco presentabili negli anni ’90.

Allora ci pensa sempre Berlusconi a riciclare in parte il personale politico conservatore ex democristiano (Pier Ferdinando Casini, Rocco Buttiglione), in parte accademici come Marcello Pera o presbiteri come Giovanni Baget-Bozzo; non disdegnando di assumere egli stesso la parte del “cattolicissimo” premier padre di famiglia.

Le porte di un Vaticano ansioso di occupare gli spazi lasciati aperti dall’“Impero del Male”, e di ricongiungere sotto di sé un’Europa Cristiana dall’Atlantico agli Urali (Wojtila-Ratzinger), si spalancano e con il cardinale Camillo Ruini (presidente della CEI) è amore a prima vista.

Insieme condurranno “memorabili” battaglie contro l’aborto e la fecondazione artificiale, sul fine vita, sui crocefissi nelle aule scolastiche … contribuendo a mantenere all’Italia il primato di paese della Controriforma, superata solo recentemente dalla Polonia.

Il rapporto si è un po’ raffreddato con l’avvento del pontificato di Francesco e dopo le disavventure personali di Berlusconi, ma non si è certamente estinto.

Basti vedere il funerale nel duomo di Milano, celebrato dall’arcivescovo Delpini, che nell’omelia parla di “un uomo solo di fronte a Dio”. E cioè: giudicabile solo da Lui…

Sul piano internazionale il berlusconismo cerca di barcamenarsi tra le impellenze dello scenario economico, politico e militare apertosi più di un ventennio addietro.

Aderisce naturalmente al processo di Unificazione Europea, cercando di scaricarne i costi sui proletari e salvaguardare il più possibile la piccola borghesia. Lascito anche questo raccolto dal governo Meloni. È “atlantista” e dunque schierato con la NATO e le sue guerre (Afghanistan ed Iraq), ma tiene sempre ben aperte la sponda dell’Africa Settentrionale (Libia in primis) e soprattutto quella russa.

Su un simile versante il governo Meloni non raccoglie la sua eredità. C’è la guerra in Ucraina, bisogna schierarsi, e l’imperialismo italiano, pur mantenendo un profilo “basso”, è comunque allineato in guerra con la NATO e “deve” recidere la corsia preferenziale che lo collegava al Cremlino.

Rimane aperto il canale nordafricano (e turco) di affari e di “ricollocamento”, previo pagamento, dei migranti “indesiderati” mediante internamento in lager vergognosi. Con l’U.E. che ora si è decisa a “collaborare”.

È il risultato, parziale ed in via di definizione, del famoso “Piano Marshall” per l’Africa ventilato da Berlusconi (“aiutiamoli a casa loro”), che in realtà aspirava concretamente al solo fatto di “parcheggiare” a buon prezzo i flussi migratori che toccano le italiche sponde. Spacciando il tutto, da ottimo imbonitore, come “soluzione umanitaria”.

Come si vede, la “costruzione” berlusconiana, che poi negli anni ha prodotto il berlusconismo, si fonda su un ottimo assiemaggio di pezzi che – presi in sé – non avrebbero avuto possibilità di far funzionare la macchina italiana del neo-liberismo imperialista.

Nessuna “originalità”, ma la ristrutturazione ed il riutilizzo – in sede governista e modernista – degli eredi del fascismo. Oltre alla “nazionalizzazione federalista” (non sembri un gioco di parole) della Lega Nord. Diventata Lega Salvini Premier con l’attuale segretario, ma “costretta” in precedenza da Berlusconi (a suon di scoppole elettorali) a ragionare in termini “nazionali” per far marciare la sua “devolution”.

Berlusconi artefice del Centro-Destra allora? Fino alla sua “caduta in disgrazia” (2011) certamente sì. Ma non va neppure dimenticato come il berlusconismo abbia appunto condizionato fino ai giorni nostri l’assetto della coalizione da esso creata: come contenuti “programmatici”, come tecnica elettorale, e come tecnica di comunicazione di massa.

Da questo punto di vista Meloni è il terminale di Berlusconi.

Anche se vanno ora attentamente considerati alcuni punti di discontinuità, a dire il vero già affiorati, ma che potrebbero in un prossimo futuro modificare l’impalcatura della Destra italiana e/o avere riflessi sulla stabilità del governo Meloni.  

Il primo, già accennato, è il rapporto con la Russia putiniana. Perdurando la guerra (come probabile) settori di F.I. e della Lega potrebbero trovarsi in sofferenza e produrre delle “ricadute” nel governo Meloni. Non è un fattore ideologico né tantomeno “sentimentale”, ma espressione di precisi interessi materiali di frazioni borghesi legate a Mosca; seppur per ora non in grado di spostare le direttrici di fondo dell’imperialismo italiano.   

Il secondo è inerente alla politica “sociale”. L’indirizzo preso dalla Meloni è verso un liberismo “secco”, teso a fornire alle imprese tutti gli apporti necessari: dai subappalti ad una manodopera a prezzi stracciati. Non per nulla la attuale premier “affonda” proprio sugli strati più poveri della popolazione (vedi Reddito di Cittadinanza). Quanto la Destra potrà rimanere “compatta” limitandosi a soddisfare le pretese della piccola borghesia e calcando sul proletariato, a partire dai suoi strati più poveri, tutto il peso della sua politica economica?

Si diceva del berlusconismo. Il fenomeno, con tutti i suoi addentellati ideologici e “comunicativi”, non ha coinvolto e “strutturato” solo il Centro-Destra, ma come abbiamo visto tutto l’arco parlamentare e condizionato pesantemente la vita civile.

Berlusconisti senza Berlusconi? Sono in tanti. Compresa quella parte d’Italia che lo ha contrastato elettoralmente e detestato in mille maniere.

Trattasi non tanto del prevalere della “forma-partito” inaugurata da Berlusconi, che è caratteristica precipua del fondatore di F.I., e neppure della empatia leaderistica e comunicativa verso le masse teledipendenti anch’essa tipica del Cavaliere; quanto della assunzione dichiarata o meno che sia – di quei tratti ideologici e somatici dell’affarismo senza principi che ormai ammorbano trasversalmente tutto il panorama partitico della Seconda Repubblica.

Il PD, alla disperata ricerca di un leader “spendibile” nelle competizioni elettorali (gli è sempre mancato un Berlusconi in carne ed ossa!), ha da tempo assunto quei tratti di produttivismo, aziendalismo, securitarismo, atlantismo ed europeismo che caratterizzano il programma “liberal” di Berlusconi, cercando casomai di dare attuazione a quel “rigorismo economico” su cui il Cavaliere ha più volte gigioneggiato, attaccandolo per “scarsa coerenza liberale”, non per altro. Un modo che più chiaro non si può di assumere in toto tutti i dettami del dominio incontrastato del capitale.

Il PD ha fatto suo l’assunto berlusconiano (a sua volta importato) sulla fine non solo del “comunismo” ma della stessa “sinistra”, rifiutando ogni riferimento “programmatico” al movimento operaio organizzato.

Non a caso questo partito “asettico”, che nasconde dietro vaghe parole di “libertà” e “democrazia” (così come Berlusconi) il totale asservimento ai poteri “forti”, nei periodi in cui ha ininterrottamente governato (gli ultimi due lustri, se si fa eccezione del Conte I), ha implementato politiche smaccatamente antioperaie (il Jobs Act su tutti) e securitarie (Minniti), ancora più feroci di quelle della Destra.

Il M5S, che pur è nato antiberlusconiano, terminata la “fiammata populista” legata alla figura di Beppe Grillo, una volta andato al governo (2018) ha sì messo in cantiere il flebile Reddito di Cittadinanza (osteggiato non a caso sia nel Centro-Destra che nel Centro-Sinistra), ma non si è mai smarcato dalla berlusconiana “politica delle cose” (che non sono né di “destra” né di “sinistra” secondo i grillini), finendo anch’esso nei meandri delle lobby piccolo-borghesi e delle elargizioni “a pioggia” alle imprese, senza peraltro averne il controllo territoriale. Si è fatto portatore di un inesistente capitalismo “onesto” e di un costituzionalismo con il quale cerca di ridare all’Italia un peso “suo proprio” in Europa e nel mondo.

Non solo è fuori tempo massimo ed ondivago in politica estera, ma ha assunto a piene mani il verbo populista sulla fine della lotta di classe e della prospettiva socialista. Tutte cose, tanto per dire, ampiamente presenti nel bagaglio del berlusconismo della prima ora.

Il cosiddetto “Terzo Polo” di Renzi-Calenda, a sua volta, rappresenta sfacciatamente un berlusconismo in re minore: supponente quanto inetto, fino ad ora, a rappresentare quell’Italia “produttiva” di cui Berlusconi è stato a lungo l’incarnazione.

Atlantismo, riarmismo, meritocrazia, snellimento della burocrazia, grandi opere, nucleare, “darwiniana” selezione sociale, sviluppismo…tutti ingredienti messi sul terreno sperando di allungare le mani su almeno uno spezzone di F.I., ora che Berlusconi è venuto a mancare.

È una partita, questa, tutta da giocare che ora vede la Meloni in pole position, ma che ancora deve dipanarsi appieno tra famiglia, partito (diviso in correnti) e strategie aziendali.  

Tirando le somme del trentennio berlusconiano possiamo dire che il berlusconismo – al di là degli alti e bassi del suo percorso – nei fatti si è affermato nel capitalismo italiano come forma politica e riferimento ideologico; nonché come “stile di vita” e di normativa “etica”.

E questo nonostante che nel trentennio i governi Berlusconi siano durati circa un terzo del totale, intervallati o da vittorie dello schieramento rivale (Prodi), o da governi “tecnici”, oppure ancora da coalizioni in cui F.I. non è stata presente.

In fondo, l’efficienza che i governi Berlusconi garantivano alla borghesia non era corrispondente al pieno di voti ed alla “popolarità” del personaggio. Vuoi sulla integrazione nell’Eurozona, vuoi sull’apertura di canali internazionali perlomeno equivoci o comunque poco graditi (Gheddafi), vuoi sulla questione del debito pubblico, vuoi infine per i condizionamenti del populismo berlusconiano in merito a manovre “lacrime e sangue” (vedi il massacro pensionistico del 2011 affidato a Monti), le fortune di F.I. e delle coalizioni di Centro-Destra hanno avuto un andamento altalenante, “rimontato” dopo dodici anni solo ora con la Meloni.

Per un arco di tempo non indifferente, ad intervalli, il grande capitale finanziario ed industriale, insieme a paesi “trainanti” della U.E. come Francia e Germania, ha preferito puntare sul PD (fino a quando tale partito si è dimostrato elettoralmente all’altezza) in quanto ostile ad un populismo piccolo borghese troppo “sfacciato”; a tutto discapito dei conti pubblici e della concentrazione del capitale.

Però quando si parla di “sacra” proprietà, di meritocrazia, di securitarismo, di arroganza del potere, di disprezzo della povertà, di familismo, di individualismo… E ancora di “libera” frode fiscale, di invasiva commercializzazione di ogni cosa (materiale e immateriale) … il tutto condito da corruzione, millanteria ed egocentrismo assurti a sistema…stiamo semplicemente elencando lo scenario ammorbante (la “peste”) che ha ormai pervaso non solo la politica borghese ma una parte del corpo sociale.

Vittoria del capitalismo più becero ed arrogante. Vittoria di quell’ “impoliticismo lombardo” (=politica come gestione delle cose) il quale, alla fine, è riuscito a tratteggiare, mediandoli con fascismo e leghismo, i connotati di una borghesia rimasta sprovvista, trent’anni or sono, della carta di ricambio.

Ma, che cosa è riuscita ad opporre a Berlusconi la parte politica che lo ha “fieramente” avversato, presentandolo come l’alfa e l’omega dei guai dell’universo mondo? Come l’area “progressista” ha contrastato il suo “nemico numero uno”?

Si è ventilato un “altro” capitalismo (“temperato” secondo Romano Prodi), fondato sul “giusto” profitto, sul rispetto dell’equilibrio di poteri e delle leggi, sull’onestà negli affari, sulla redistribuzione della ricchezza, sulla pace, il progresso, le parità di genere, i diritti civili, ecc.

E ci si è sbizzarriti a cercare “modelli”: da quello tedesco a quello francese, per approdare ora a quello spagnolo. Per i più “radicali” lo sguardo spaziava da Cuba al Venezuela, passando per la Grecia.

E giù a tutto gas sul “conflitto di interessi” del Berlusca, sui suoi guai con la magistratura, le leggi ad personam, le sue “fregole” sessuali, la nipote di Mubarak, la mafia, la P2, Previti e Dell’Utri.

Col risultato di presentare l’”attrattiva” di imperialismi europei non di certo “pacifici” e “progressivi” (il coinvolgimento nelle guerre della NATO sta a dimostrarlo, le politiche antiproletarie dei vari governi pure). E per quanto riguarda l’incasso “privatistico” del “Caimano” (che pure c’è indubbiamente e copiosamente stato) a nulla vale sbraitare sugli “attacchi alla Costituzione” ed alla “legalità” quando poi non si è mai messo lo scontro con Berlusconi (ed il berlusconismo) sul terreno di una seria e conseguente lotta di classe!

Ci si è stracciate le vesti su tutto, ma per i signori democratici e “costituzionalisti” i lavoratori italiani, in trent’anni, potevano anche affogare nel canale di Sicilia, insieme a quei migranti fatti periodicamente e realmente affogare!

Ed il perché l’abbiamo già abbondantemente spiegato prima: i governi di Centro-Sinistra hanno gareggiato con Berlusconi ed il berlusconismo (a volte spuntandola pure) nell’approntare misure e manovre che hanno massacrato salari, pensioni, occupazione, rappresentatività, salute, scuola, servizi sociali … insomma l’esistenza stessa della classe sfruttata.

Questo è il pesante bilancio proletario di tre decenni di Berlusconi, di berlusconismo e …di berlusconisti senza Berlusconi!

Tocca ai lavoratori di avanguardia serrare le fila, riprendere una lotta generalizzata e mettere così in discussione l’attuale opprimente coltre di oppressione politica e sociale.

da qui

 

 

Lutto per B. nelle università, l’apoteosi della sudditanza – Tomaso Montanari

L’interrogazione presentata da un cospicuo numero di parlamentari della Lega alla ministra dell’Università e della ricerca per chiedere “che si accertino le responsabilità” di chi scrive (nella scelta di non abbassare le bandiere di una università in ossequio al lutto nazionale imposto dal governo Meloni per la morte di Silvio Berlusconi) intende “assicurare che l’università resti un luogo di apprendimento e convivialità apartitico e apolitico”. Sorvoliamo sull’evocazione tragicomica della convivialità (forse pensano al declino delle mense universitarie?), e concentriamoci sul rapporto università-politica.

Da un punto di vista formale, la questione sta esattamente al contrario di come è stata raccontata da un sistema mediatico nutrito di ignoranza e fondato sulla servitù volontaria. Nessuna legge prescrive il collocamento delle bandiere a lutto sugli edifici pubblici in occasione del lutto nazionale: lo fa una circolare della Presidenza del Consiglio del 18 dicembre 1992, richiamata da quella della Presidenza Meloni del 13 giugno 2023. Ma la legge 168 del maggio 1989, attuando l’autonomia universitaria sancita dalla Costituzione, stabilisce che per le università “è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare”. Sta dunque ai rettori e agli organi di governo delle università stabilire, di volta in volta, se partecipare o meno al lutto nazionale attraverso il simbolo delle bandiere a mezz’asta: mi chiedo quali siano le ragioni che hanno convinto tutti gli altri rettori e rettrici ad abbassare le bandiere, aderendo al lutto più smaccatamente politico della storia della Repubblica, dedicato proprio a colui cui si deve (come ha ricordato Francesco Pallante qui sul Fatto) il massacro del sistema universitario italiano.

Ma si sbaglierebbe a pensare che coloro che guidano le università italiane abbiano inteso proporre a chi studia il modello di uomo pubblico incarnato da Berlusconi (anche se proprio questo, purtroppo, dicevano quelle bandiere calate): il problema è assai più profondo, e più grave. Ed è la totale sudditanza dell’università al potere politico, nazionale e locale.

Le passerelle universitarie dei potenti del momento (ricoperti di lauree ad honorem e invitati a tenere improbabili lectiones magistrales) ne sono solo la manifestazione più grottesca, ma la sostanza è che, dopo aver ridotto alla fame il sistema universitario con un continuo definanziamento, il potere politico ha iniziato a eroderne l’autonomia con crescente successo. A partire dalla ricerca: l’università ha accettato che essa sia valutata da una agenzia (l’Anvur) i cui vertici sono nominati dal potere esecutivo, e che opera secondo criteri la cui logica ultima non è scientifica ma appunto politica. Basti citare l’obbligo di classificare i cosiddetti ‘prodotti della ricerca’ in fasce che non avrebbero dovuto ospitare più del 25% dei testi e non meno del 5%: come ha scritto Maria Chiara Pievatolo, “se adottassimo una simile regola per gli esami di profitto, ci troveremmo a dire: ‘Lei meriterebbe 30, ma dovremo darle un voto più basso perché abbiamo già attribuito un voto di fascia superiore al 25% dei candidati all’appello’”. La stessa studiosa commenta la situazione della valutazione prendendo atto che “Caesar est supra grammaticos”, cioè che il potere politico è riuscito a fare quel che voleva fare un imperatore tardo-medioevale: comandare anche sulle regole grammaticali. In questo caso, sulla grammatica elementare della scienza: che infatti si vede costretta, a causa di queste politiche, a favorire le ricerche più conformiste e meno innovative.

Anche peggio vanno le cose per l’altra missione fondamentale dell’università, la didattica: e qua si deve citare il silenzio delle istituzioni universitarie sul progetto di autonomia differenziata che mira a dare alla Regione Lombardia nientemeno che il “coordinamento delle università lombarde”, e in generale al potere politico delle tre regioni-locomotiva (Lombardia, Veneto ed Emilia) un ruolo determinante nella creazione di corsi professionalizzanti al servizio del territorio regionale.

Come anche con il Pnrr, e con altri infiniti provvedimenti, si stabilisce che di fatto i “portatori di interesse” del sistema universitario non sono i cittadini, ma i vari interessi economici legati alla politica. E che, di conseguenza, l’università non deve essere lasciata libera di elaborare idee e progetti per costruire una società diversa, ma deve essere messa al servizio della società come è oggi: così, di fatto, annullandone la funzione ultima.

Chi, dentro e fuori dell’università, dice che le bandiere del mio ateneo andavano abbassate perché nell’università non si fa politica, dovrebbe riflettere su tutto questo e su moltissimo altro: prendendo atto che le cose stanno esattamente all’inverso. E cioè che le bandiere di tutte le altre università sono automaticamente scese proprio perché da troppo tempo ci siamo abituati a non esercitare il pensiero critico, in una triste sudditanza al potere politico.

da qui

 

 

Cavaliere o pedone? - Paolo Di Marco

Del lestofante testé morto tutti ricordano l’aspetto esteriore e gli atteggiamenti da guitto ma pochissimi (il solo Fatto) le malefatte; e anche qui con molta discrezione e tutti i distinguo (“la magistratura ha sempre archiviato”…).

E invece mi sembra buona occasione per ricostruire un pezzo significativo di storia patria con tutti i suoi intrecci espliciti e sotterranei.

 

1- breve cronaca

Il padre lavora in una piccola banca (Rasini) che si diceva (fonte Sindona) essere avamposto dei ricicli mafiosi; ma ha anche contatti col mondo della borghesia milanese a cui piace tenere i soldi in Svizzera (vizietto che in quegli anni era assai diffuso);

Quando il piccolo si mette in affari immobiliari -con Milano 2 opera più nota- i soldi arrivano tramite quelle fonti (v. Travaglio et al, ‘L’odore dei soldi’, più recentemente su Il Fatto gli audioarticoli della biografia; sempre sul Fatto l’art di Marco Lillo). Soci principali dell’Edilnord sono Rasini e Rezzonico, commercialista svizzero.

Colla collaborazione di don Verzè (poi sospeso a divinis) nel ’68 compra i terreni di Segrate; su una parte sorgerà il San Raffaele, sull’altra Milano2; corrompendo dirigenti e piloti Alitalia per spostare le rotte degli aerei che rendevano i terreni privi di valore. Questa volta gli occulti finanziatori svizzeri tirano fuori 3 miliardi.

Dietro all’operazione compaiono la Privat Credit Bank (controllata da Tito Tettamanti e da Giuseppe Pella), la FiMo (società fiduciaria di Silvio Berlusconi a Chiasso, coinvolta nelle inchieste giudiziarie aperte in diversi paesi europei per riciclaggio di ingenti somme di narcodollari provenienti dalla mafia colombiana e delle tangenti ENI ed Enimont. è coinvolta anche nel caso Kolbrunner), la Interchange Bank (coinvolta nel “caso Texon”, primo grande scandalo finanziario che vede la Svizzera come crocevia del riciclaggio di capitali illegali), la Banca Svizzera Italiana (controllata da Tito Tettamanti, vicino all’Opus Dei e alla massoneria, anticomunista viscerale implicato in scandali finanziari), esponenti della DC svizzera e Giuseppe Pella, esponente della destra democristiana italiana.

Grazie a Previti, il cui figlio è l’avvocato della figlia orfana dei Casati-Stampa, porta via la villa di Arcore che vale miliardi per un tozzo di pane.

Entra progressivamente nell’industria televisiva, prima con emittenti locali poi con una rete, poi coi le tre reti nazionali, inizialmente abusive; i soldi per l’acquisto, dichiarano i pentiti, vengono dal clan Bontate (Bontate e Graviano diventano soci Fininvest): tra il ’77 e l’80 sono 113 miliardi. I Bontate vengono poi fatti fuori dai Corleonesi e sostituiti dai Pullarà.

Tra il ’77 e l’80 il sodalizio con Dell’Utri si attenua: D.U. va da Rapisarda, finanziere legato alla famiglia Caruana-Contrera, i monopolisti del traffico di droga col SudAmerica-e anche per questo immuni alla guerra tra le bande mafiose, poi nell’80 torna con B; fondano Publitalia e Fininvest. Si legano nel contempo a Carboni, in Sardegna, che ha legami con Calvi e il clan Calò, da cui rilevano attività e terreni in Costa Smeralda.

Quando Fininvest esce allo scoperto con B. alla sua testa (prima si presentava come consulente) richiama l’attenzione della Guardia di Finanza, che viene tamponata comprando il capitano Berruti; ulteriori visite vengono deviate ricorrendo ai buoni uffici di un nuovo amico, Craxi. A questo si aggiunge il rapporto con Gelli e la P2 (tessera 1816), che favorisce i finanziamenti della banche da loro controllate, MPS e BNL.

Compra prima il Giornale poi la Mondadori (dopo uno scontro con De Benedetti risolto in via giudiziaria comprando i giudici); le sue televisioni vengono prima autorizzate a trasmettere su tutto il territorio nazionale, poi a portar via alla RAI programmi e conduttori di prestigio (M. Bongiorno passa da 52 a 600 milioni annui) e acquistano un peso notevole sia nell’intrattenimento sia nell’opinionismo e nel giornalismo. Si consolida uno stretto legame col Vaticano, con buona sintonia con Woytila e fortissimo legame col segretario di stato card Ruini.

Nel ’93 Dell’Utri inizia a preparare prima ed organizzare poi un partito il cui programma è modellato sul Piano di Rinascita Nazionale di Gelli e la cui struttura riprende quella aziendale di Fininvest. I pentiti più volte (v. Processo di Firenze) indicano B e D.U come i referenti politici e beneficiari della campagna di bombe del ’93, dai Georgofili a Milano e Roma. Dell’Utri sarà poi condannato per concorso esterno in mafia, B. archiviato, entrambi poi inquisiti nell’indagine di Firenze

Nel ’94 il partito di B vince le elezioni, alleandosi con la Lega al Nord e coi missini al Sud, anche grazie ai 4 milioni di voti che la TV di B. ha spostato da sinistra a destra.

Governa in più riprese, fa cadere Prodi comprando deputati e senatori, poi sostiene la sua maggioranza sempre con una campagna acquisti tanto disinvolta quanto pubblica. Dulcis in fundo, D’Alema nel ’98 lo dichiara ufficialmente pilastro dell’Italia chiamandolo a partecipare a una bicamerale per le riforme; due anni dopo lo stesso si dimette inspiegabilmente dopo le elezioni amministrative lasciando passo libero alla destra.

 

2- giochiamo a ‘unisci i puntini’

-Il primo puntino riguarda la mafia, che va subito spogliata degli abiti demoniaci che le vengono cuciti addosso: non perché non sia demoniaca, ma perchè gli abiti sono ingannatori, la fanno sembrare un’apparizione a lato, un estraneo. E invece quanto sappiamo (ricordiamo i rapporti Guarrasi/mafia-Cuccia/Mediobanca, le loro periodiche passeggiate) e quanto qui abbiamo accennato (i fondi e finanzieri svizzeri che gestiscono insieme i soldi della borghesia milanese e quella di trafficanti di droga della mafia ad esempio) ci dice che da tempo non si può fare distinzione: tra capitali borghesi e capitali mafiosi non ci sono barriere né porte, nemmeno cancelletti. Entrambi giocano nello stesso campo, entrambi hanno imparato a controllare il proprio territorio, con metodi alla fin fine non tanto diversi (ricordiamo i cannoni di Bava Beccaris..), entrambi si destreggiano coi vari livelli dello stato. In fondo questo mi diceva nel ’68 Idomeneo Barbadoro quando, anni prima di Falcone, raccontava che in Sicilia, se vuoi capire, devi seguire il denaro (in quel caso le vicende dell’Ente Minerario Siciliano..guarda caso protagonista Guarrasi). Ma la mafia non può essere presa isolatamente anche in un altro senso: a partire dall’armistizio del ’43, mallevadori Eisenhower e il trio Galvano Lanza di Trabia, il suo amministratore ‘don’ Calogero Vizzini, il suo amico Vito Guarrasi, i patti sono chiari: alla mafia viene garantita la ricostituzione del potere sull’isola, lo sviluppo degli affari in tutta Europa anche a spese dei marsigliesi, il ristabilimento dei legami oltreoceano di Lucky Luciano; in cambio la Sicilia deve diventare una portaerei americana, pronta, su indicazioni di Guarrasi, a intervenire per ristabilire l’ordine americano. Da piazza Fontana a Bologna ai Georgofili le bombe della mafia obbediscono puntuali. Ma anche la mafia cresce e cambia: se in Sicilia rimane il classico controllo del territorio-a cui si aggiungono i territori controllati da Ndrangheta e Camorra con cui si stabilisce una proficua alleanza, lasciando ai nigeriani e albanesi il ruolo di carrettieri della droga- l’espansione al nord non è più nell’economia ‘illegale’ ma diventa investimento di capitali in senso lato, vettori Guarrasi e Cuccia in Italia, altri mediatori nel resto del mondo, dalla Svizzera alla Germania al Sud America.

-Come scrive Barbacetto, ‘Nel biennio 1992-’93 l’Italia vive una grande trasformazione politica ed economica, nel contesto della profonda mutazione geopolitica internazionale (la fine della Guerra Fredda). Molti poteri, italiani e non, cercano di incunearsi in questa svolta storica e provano a pilotarla per i propri interessi: la massoneria tenta di sostituirsi ai partiti morenti; Cosa nostra va a caccia di nuovi referenti e tratta nuovi equilibri con lo Stato; le centrali economiche internazionali provano a influire sulla metamorfosi del sistema italiano; alcuni imprenditori portano a casa a prezzi di saldo pezzi dell’industria di Stato. Ma non c’è alcun complotto. Gli Stati Uniti, molto attenti a ciò che accade in casa nostra fin dal dopoguerra, tengono sotto osservazione l’evoluzione italiana, ma con maggiore distacco rispetto a prima, quando il nostro Paese era terra di confine tra i due blocchi e la Dc era blindata al governo e improcessabile. Dopo l’implosione dell’impero sovietico, gli americani lasciano che l’Italia segua il suo destino. E le indagini di Mani pulite possono decollare.’ Largamente vero ma non del tutto; mancano due piccoli particolari: il primo puntino è il discorso di Draghi sul Britannia nel ’92, in cui promette la privatizzazione delle imprese pubbliche e lo smantellamento dello stato sociale (inclusa la distruzione del sistema sanitario pubblico come passaggio necessario per la creazione di una disponibilità finanziaria delle assicurazioni salute private); una nota apparentemente marginale del suo discorso rileva che in Italia però non c’è una Thatcher; l’altro puntino sono le bombe a Firenze, Milano e Roma del ’93, che i pentiti di mafia ripetutamente attribuiscono vuoi alle richieste dirette di B vuoi ad accordi tra lo stesso e i capi, coi Graviano&c convinti di aver fatto un ottimo affare. E appare improbabile che la mafia si muova sul piano nazionale, e in più a livello politico, senza ordini d’oltreoceano. La coincidenza del percorso di B colle tappe e gli obiettivi del Piano di Rinascita Nazionale di Gelli non significa che B sia un esecutore del PRN e della galassia che gli ruota intorno, quanto che entrambe, G e B, seguono la stessa logica.

-L’’ultimo puntino è ovviamente la dissoluzione del sistema dei partiti seguito a Mani Pulite: spariscono DC, PSI, PRI e PLI, cioè l’architrave e i muri dell’edificio; il PCI/PDS, toccato solo marginalmente a Milano, gongola. Anche se non c’è più il muro e D’Alema e soprattutto Napolitano sono in buoni rapporti cogli americani, la situazione per loro non è positiva. Ma torniamo al discorso di Draghi: per gestire il rovesciamento degli equilibri economici e sociali che la linea delle privatizzazioni occorre un governo autorevole ma soprattutto con un orientamento culturale opposto a quello del nuovo PDS.

 

3- la grande reazione culturale

In un anno viene cresciuto un partito/bebè mostruoso, che alle prime elezioni, insieme agli alleati Lega e AN, prende il 42% dei voti e il governo, un risultato improbabile e anche impensabile per i comuni mortali. Sul piano culturale l’Italia cambia ancora, e le televisioni di B (e poi i giornali) ne rappresentano la nuova faccia; l’elemento forse più significativo è però il blocco sociale che vi sta dietro e di cui vuole essere l’espressione: la coalizione fra tre grandi protagonisti: la finanza internazionale che scorrazza a proprio piacimento, gli industriali che colla dissoluzione dello stato-imprenditore si trasformano in rentiers, e la piccola borghesia- dagli affittacamere agli intermediari ai commercianti agli artigiani; un blocco sociale che richiama quello che aveva portato al potere prima Hitler poi Mussolini e che si agevola della sparizione della classe operaia tradizionale e di quello che una volta si chiamava movimento operaio; e paradossalmente si nutre dei venti culturali del postindustrialismo e della sensazione, non ancora consapevolezza, che il tempo del lavoro obbligato è finito; ma che, usato all’opposto del suo significato reale, diventa elogio dell’evasione e della pigrizia e scomparsa della morale. Un percorso abilmente incarnato in un personaggio solo. In un ruolo che è complesso nella sua molteplicità. La prima faccia rimanda direttamente al thatcherismo: c’era un accordo tacito in Inghilterra come in Italia tra movimento operaio e capitale, un accordo nato da noi durante gli anni del boom economico degli anni ’60: (in Inghilterra assai prima): noi rinunciamo alle pretese rivoluzionarie e voi in cambio ci garantite condizioni di vita dignitose e opportunità di buone carriere per i nostri figli (quello che si un tempo chiamava socialdemocrazia); quando il capitale finanziario diventa il motore della progettata unificazione europea Draghi nel discorso sul Britannia annuncia la rottura di quel patto, con la trasformazione dei beni comuni in terreni di caccia al profitto (ripercorrendo la via di quella recinzione delle terre comuni che era stata alle origini dell’accumulazione originaria inglese). Inizia una guerra di classe di cui oggi vediamo gli ultimi sviluppi: riduzione del peso economico del lavoro salariato, estensione a dismisura del precariato, eliminazione di fatto della tassazione del capitale e anche del lavoro autonomo (sigillando materialmente il patto politico tra capitale finanziario e piccola borghesia). È come quando B compra la villa Casati Sforza: contro un valore di 3 miliardi (è la cifra a cui la usa come garanzia) paga sulla carta 400 milioni; ma non soldi bensì con azioni di società immobiliare non quotate in Borsa, di fatto carta straccia. Quando l’erede Casati chiede di riscattarli B acconsente... ma alla metà del valore, quindi 200 milioni. È l’ingordigia che non ha più freni. Lo stesso faranno i Benetton con le autostrade: Prodi gli regala un bancomat coll’impegno di una minima manutenzione e loro non fanno neppure quella. E così i governatori PD o FI delle regioni: si accordano colla ndrangheta per le opere pubbliche e poi legiferano anche i permessi di costruire sui greti dei torrenti il giorno dopo le alluvioni. Ogni freno inibitorio è sparito (una delle frasi famose dei luogotenenti di B prima di andare al governo fu ‘non faremo prigionieri’). Ovviamente perché erano sparite le forze che dei freni dovevano rappresentare la forza motrice: sindacati e partiti della sinistra. A quello che era il PCI si sostituisce la fusione tra quel che resta del PCI e quel che resta della DC: un animale che sembra preso dallo zoo di animali fantastici di Borges e Casares; là c’era il mirmicoleone, col il corpo da leone e la testa da formica, che moriva subito dato che la piccola testa non poteva nutrire il corpaccione; qui c’è il millepiedi a gambe indipendenti, che si agita molto ma non riesce mai a muoversi. La seconda faccia è la costruzione di un’immagine del mondo condivisa funzionale a questa trasformazione sociale: le televisioni di B prima e poi tutte nel loro complesso svolgono questo ruolo, così come Mike Bongiorno aveva traghettato l’Italia provinciale e frugale a una visione disneyana dell’ascesa sociale. C’è una continuità tra personaggi e movenze e discorsi televisivi e quello che avviene nel quotidiano negli uffici e nelle strade, un uniformarsi progressivo di valori e immagini della realtà. La politica estera di B appare la più progressiva degli ultimi decenni: gli accordi con la Libia echeggiano il Mediterraneo di Mattei, l’amicizia con Putin esplicita quello che Germania e Grancia sogniamo di nascosto: un’Europa espansa a oriente capace di contrastare il moloch americano. Ma che sia teatro e non realtà si vede quando gli americani fan fuori Gheddafi, e ora quando con l’Ucraina seppelliscono definitivamente il sogno nascosto tedesco senza che nessuno abbozzi una reazione. Ma ormai in Italia non esiste più informazione, con un Giornalino dei Piccoli unificato che la piccola borghesia che ancora legge sventola quando fa caldo. Murió el actor, sigue la farsa. Difficile immaginare come rovesciare questo processo, ma questo non ci impedisce di cominciare a toglierci dal naso gli occhiali rosa che ci hanno conficcato a forza.

da qui


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