Silvio Berlusconi, il corruttore - Angelo d’Orsi
“Un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane più che nel l’ordine dei Cromwell, dei Bolivar, dei Garibaldi”.
Con queste parole, Antonio Gramsci, nell’agosto 1924, dipingeva Benito
Mussolini, naturalmente, ma sono parole che possono identificare a pieno Silvio
Berlusconi. Il duce trascinò il paese verso la catastrofe, da cui esso è poi
faticosamente, dolorosamente rinato grazie all’impegno, l’abnegazione e le
sofferenze di decine di migliaia di antifascisti, e dal ’43 al ’45 di migliaia
di partigiani. Berlusconi non ci ha portato in guerra, ma ha corrotto l’anima
di questo paese, una colpa non meno grave. In sintesi, Silvio Berlusconi era un
corrotto che ha passato la sua esistenza a corrompere. Certo, ha creato, ha
costruito, ha vinto, in tanti campi, ma sempre con il sistema della corruzione,
che esaltava la sua indubbia capacità “creativa”, fino all’estrema
spregiudicatezza.
Si potrebbe tuttavia osservare che per ogni corruttore esiste qualcuno
disposto a lasciarsi corrompere, per ogni compratore c’è chi – uomo o donna – è
pronto a vendersi. In fondo Berlusconi, con le sue mille attività
(dall’edilizia ai media, dalla finanza al calcio), tutte ai confini della
legalità, e spesso fuori da quei confini, ha sollecitato gli istinti peggiori
del popolo italiano. Così come ha “sdoganato” il neofascismo, Berlusconi ha
sdoganato parimenti la tendenza nascosta di larga parte degli italiani alla
illegalità, e ha trasformato in virtù i peggiori vizi nazionali, dall’evasione
fisale, teorizzata ancor prima che praticata, al maschilismo, dal sessismo al
razzismo, dalla insofferenza per le regole e le norme all’esasperato
individualismo, dal servilismo all’opportunismo, e così via: quello di Berlusconi
è un classico esempio (per servirsi ancora di Gramsci) di “sovversivismo delle
classi dirigenti”.
Con lui, l’illegalità è assurta a illegalismo, come una vera e propria
dottrina non soltanto politica, ma esistenziale: i rapporti con “Cosa nostra”
diventano leciti; la compravendita di politici e magistrati prassi normale;
l’uso (teorizzato, ostentato e praticato) delle donne come oggetti sessuali
viene presentato alla stregua di un gioco divertente che suscita ammirazione;
l’affarismo spregiudicato una pratica inevitabile e persino necessaria, il
denaro teorizzato come un metro per tutte le cose; la ricchezza esagerata, il
lusso ostentato, oltre ogni limite, il pansessualismo cinico e volgare, sono
proposti come obiettivi che tutti devono perseguire a costo di sentirsi esclusi
dalla comunità nazionale, diventando dei paria, dei reietti, degli esclusi,
ossia la base antropologica dei “comunisti”, che, nella narrazione tossica
berlusconiana, sono mossi da “invidia”, che nasce dalla loro impotenza a
diventare ricchi, in sintesi. Vorrebbero, ma non possono; e dunque “odiano”. Il
lessico sentimentale, accanto a quello calcistico, sono state le due grandi
innovazioni introdotte nel discorso politico da Berlusconi, divenuto leader di
Forza Italia.
Quando Berlusconi ascese per la prima volta al governo della nazione, tuonò
contro “i lacci e lacciuoli” che impediscono di governare, promettendo (meglio:
minacciando) di eliminarli, in nome di efficienza e funzionalità, ossia di
quella sciagurata “governabilità” che era stata la chiave di volta del potere
di Bettino Craxi, grande sponsor politico di Silvio Berlusconi. In realtà, con
quella espressione, il “Cavaliere” (era stato insignito del titolo
giovanissimo, per avere edificato “Milano 2”), si riferiva a un ambito assai
più ampio: stava annunciando che avrebbe governato al di fuori (ossia al di
sopra, nel suo egotismo bonapartistico) delle leggi. Tutto diveniva lecito, in
nome della “libertà”: è significativo che molti commentatori berlusconiani
abbiano ripreso e rilanciato questo concetto, nelle ore successive alla ferale
notizia. Libertà in tutto, di fare tutto, di creare e distruggere, di
appropriarsi qualunque oggetto del desiderio, palese o oscuro, con qualsiasi
mezzo; anche quando si trattava di donne belle e impossibili, che per il Cav
dovevano diventare possibili; anche quando si trattava della casa editrice di
cultura, fondata da Giulio Einaudi, o della “grande” editrice generalista
Mondadori: in fondo la conquista di una bella donna o di un editore importante (grande
o piccolo, purché degni di attenzione), erano obiettivi particolarmente
desiderabili per il miliardario che voleva ostentare una cultura che non
possedeva, per il maschio privo di attrattive fisiche, a cui sopperiva
con assegni e gioielli e villette in grazioso omaggio, che finivano per
renderlo “attraente”, più del rialzo delle scarpe o del capello tristemente
catramato sul cranio. La casa dello Struzzo o la “biondona mozzafiato” erano
per lui medaglie da appuntarsi sul petto, elementi che conferivano prestigio al
Berlusconi conquistador, nella sua psiche malata. Non so se avesse
in animo di comprarsi anche la Ferrari (la casa automobilistica di Maranello,
non una vettura!), ma certo sapeva che non era in vendita, per la medesima
ragione per la quale lui avrebbe potuto desiderarla: era un brand.
Aveva annunciato la “rivoluzione liberale” (povero Gobetti!), ma sebbene
sia stato il più longevo presidente del Consiglio (lui provò a ribattezzare la
carica come “capo del governo”, ma gli fecero notare che era la dicitura
mussoliniana, anche se troviamo ancora pseudogiornalisti che se ne servono,
gongolanti, non importa a quale governo si riferiscano), è stato anche,
indubitabilmente, il più inconcludente. Delle mille “riforme” messe in
cantiere, soltanto una – per nostra fortuna – andò in porto, la “riforma
Gelmini” che ha devastato letteralmente la scuola italiana.
Ma quella berlusconiana è stata a ben vedere una rivoluzione, ma una
“rivoluzione passiva” (ricorro ancora a Gramsci): una rivoluzione sulle masse,
non delle masse, una rivoluzione che ha, in verità, trasformato le masse
in folle (e qui il confronto con Mussolini si impone), una rivoluzione senza
rivoluzione, nella quale la “gente” da lui osannata era coacervo passivo, in
cui il cittadino ritornava suddito e consumatore. “Ma dov’è questa crisi?”:
così in uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana, il Cavaliere
esorcizzava la paura di essere cacciato dal governo: “I ristoranti sono sempre
pieni”…, eccetera. La grande narrazione di Silvio e del suo esercito di
lanzichenecchi della penna e dello schermo, faceva grancasssa ad ogni
baggianata, si sganasciava ad ogni sua pietosa barzelletta, rideva anche quando
le sue parole suscitavano moti di fastidio o di pena.
L’Italia, si sa, è paese-laboratorio, e dopo aver inventato il fascismo,
abbiamo inventato il berlusconismo, che, in tutta evidenza, è diventato senso
comune, e sono state in fondo poche le proteste per questa incredibile, quanto
incresciosa sceneggiata governativa, con l’avallo di Mattarella (funerali di
Stato, una settimana di lutto, sospensione di ogni attività del Parlamento e
dell’Esecutivo, bandiere abbrunate, e una serie di circolari di complemento che
somigliavano ai “Fogli di disposizione” del Minculpop, negli anni Trenta).
L’Italia perbene, l’Italia che non si riconosce nell’illegalismo e nel
cialtronismo, avrebbe dovuto insorgere, contro questo ultimo scempio, che anche
da morto, Silvio Berlusconi ha fatto a quel paese che nell’incipit del suo
primo discorso, quello della “discesa in campo”, dichiarava di “amare”. E lui
era un piacione, uno che voleva piacere a tutti, anche agli avversari, pronto a
distribuire prebende: forse il suo desiderio più grande, inconfessabile, era di
potere sovvenzionare qualche “comunista”, o quanto meno invitarlo a cena,
coccolarlo, mostrargli la sua collezione di opere d’arte, e magari offrirgli
persino la scelta di una delle ragazze che lui pagava “per sottrarle alla
prostituzione” (sic, nei verbali del tribunale di Milano). Voleva riuscire
“simpatico” a tutti (tutte, specialmente): e rideva, gesticolava, sciorinava
sorrisi e barzellette, ma forse coloro che oggi ricordano quel volto
ridente (qualcuno gli appioppò l’etichetta “iena ridens”), dimenticano
come quello stesso volto si tramutasse in faccia minacciosa, e le battute
diventavano anatemi contro la sinistra: a un gruppo di contestatori a un suo
comizio urlò, con il volto devastato dalla rabbia, “siete solo dei poveri
comunisti!”: dove “poveri” aveva un duplice significato, quello economico, e
quello morale.
Davanti a questo grottesco tripudio di Stato, questo pianto imposto per
decreto, forse lui avrebbe esitato, e recalcitrato. Troppa grazia, forse
avrebbe detto. Il suo trionfo lo aveva già avuto, e si chiama
“post-democrazia”. Non è un caso che lo stesso termine (in inglese: post
democracy) fu usato e inventato da uno studioso britannico, Colin Crouch,
dopo un soggiorno di studio in Italia nel primo periodo berlusconiano. La
postdemocrazia è il prodotto finito, l’espressione compiuta del berlusconismo,
la sua traduzione politico-istituzionale: la democrazia rappresentativa
sostituita dal rapporto diretto tra il capo e la massa, attraverso un
predellino di un’auto, un palco imbandierato, uno schermo televisivo, o da
ultimo un’app sullo smartphone (Tik Tok, per essere precisi). Le elezioni non
sono state eliminate ma si è generata l’idea che “il teatrino della politica”
(formula berlusconiana poi accettata da concorrenti, sodali e avversari) sia
superfluo, e che la vera novità, la vera essenza della modernizzazione d’Italia
sta nel “fare” (“io sono uomo del fare”, quante volte l’abbiamo sentito?!), e
chi meglio di un imprenditore di successo può dare garanzie di fare e fare
bene? La polemica contro “il politichese”, era funzionale al “superamento”
della democrazia, e alla rottamazione dei partiti, come erano stati intesi fino
agli anni Ottanta, pur nel loro degrado a macchine di potere, come aveva
denunziato lucidamente Enrico Berlinguer. Nasceva il partito azienda: non a
caso il personale politico di Forza Italia era tutto o quasi proveniente da
Fininvest, e c’è stata poi una osmosi continua tra Mediaset e il partito, due
“cose” di proprietà del Cavaliere. La coincidenza con il sorgere del
berlusconismo, la crisi del sistema dei partiti, e l’implosione della sinistra,
trascinata dal vergognoso suicidio del PCI guidato da Occhetto, non è casuale.
E la fortuna dell’uno (il berlusconismo) è direttamente legata alla scomparsa
dell’altro (la sinistra). Il PCI che abdicava a se stesso, e si fustigava per
le colpe storiche del comunismo, era già una vittoria ante litteram di
Berlusconi.
Il collante anticomunista su cui spesso si è insistito e che abbiamo veduto
persino ai funerali, con manifestazioni fascistoidi (“chi non salta comunista
è”), era in realtà solo la facciata. Il vero collante, e la spiegazione del
successo di B. risiede nell’illegalismo: la libertà da lui teorizzata e messa
in atto era il sogno venduto a basso prezzo al popolo italiano (B. è stato
fondamentalmente un piazzista), incrociava il sogno inespresso di milioni di
uomini e donne: essere ricchi, possedere e ostentare auto di lusso, ville al
mare, donne e uomini da set cinematografico, spendere un “pacco di bigliettoni”
per una serata in un locale “top”, fino al sogno più segreto di tutti,
partecipare a una “cena elegante” in una delle tante, troppe dimore di
quest’uomo che non ha segnato la storia d’Italia, ma ha riempito le sue
cronache. Prima rumorosamente, poi via via sotto tono, fino alla mesta uscita
di scena, con lacrime vere di alcuni, finte di tutti gli altri, pronti ora a
scannarsi per l’eredità politica ed economica, per l’impero Mediaset come per
Forza Italia, o quel che ne rimane.
Sic transit gloria mundi.
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