1. Le più importanti e profonde riforme del dopoguerra si sono fatte in Italia negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso quando al governo del Paese c’era una coalizione di centro-sinistra nella quale la parte moderata era nettamente maggioritaria. Fu possibile essenzialmente grazie all’iniziativa del movimento sindacale capace di elaborare proposte unitarie sui grandi temi del welfare e deciso a sostenerle con la lotta dei lavoratori tanto da conquistarsi il consenso di gran parte del Paese. Si trattò dello sviluppo e della proiezione nei territori e nell’intera società nazionale delle lotte di fabbrica, che già avevano raggiunto un’estensione straordinaria. L’organizzazione tayloristica del lavoro aveva sì enormemente incrementato la produttività, ma aveva consegnato ai lavoratori un potere di interdizione sul processo produttivo che, una volta tradotto dai Consigli dei delegati in capacità e potere negoziale, aveva fatto compiere un grande salto in avanti non solo al salario, ma all’intera condizione di lavoro. Lo slogan “dalla fabbrica al territorio” segnalava appunto l’esigenza e la volontà di consolidare quelle conquiste tanto come difesa del potere d’acquisto, quanto come spostamento nei rapporti di potere fra le classi. Sul piano politico, il PCI dall’opposizione e il PSI dal governo fecero in modo che sul terreno legislativo si realizzassero mediazioni di alto contenuto alle quali dettero un notevole contributo l’area socialmente progressista della DC e parti consistenti dell’associazionismo cattolico.
Niente del
genere è accaduto da allora, neppure quando al governo si sono trovate
coalizioni di centro-sinistra formalmente assai più sbilanciate a sinistra di
quanto fossero i governi degli anni ‘60 e ‘70.
Questa
storia offre degli insegnamenti che sembrano essere stati del tutto dimenticati
dalla sinistra italiana. Il primo è che si possono raggiungere importanti
risultati politici e sociali anche quando si è collocati all’opposizione. Il
secondo è che essere al governo non garantisce affatto di per sé lo sviluppo di
politiche di sinistra, neppure se esse fossero state correttamente delineate
nel programma alla base del successo elettorale. Il terzo, ancora più negletto,
è che a dare la direzione di marcia ai processi sono sempre e comunque i
rapporti di forza fra i contendenti. La sinistra è stata vincente quando ha
saputo mettere il lavoro al centro della scena e costruire attorno ad esso un
movimento di popolo e un’aggregazione più ampia di forze e di interessi.
2. Dopo
quell’esperienza, nella cultura della sinistra si produce, gradualmente ma
rapidamente, una cesura fra lotte sociali e politica. Nasce da quella frattura
il mito del governo, ovvero il travisamento del giusto obiettivo di governare.
Se prevale la convinzione che ciò che più conta è la conquista della
maggioranza parlamentare e che a quell’obiettivo tutto può e deve essere
sacrificato, e se allo stesso tempo si è convinti che le elezioni si vincono
conquistando il centro, come dice la vulgata politologica, ne deriva
necessariamente che le lotte sociali non saranno più il motore e l’essenza
della battaglia politica, e gli stessi programmi elettorali si faranno più
sfumati, più rassicuranti, più ambigui. Fino al punto che matureranno le
condizioni perché sinistra e centro diano vita a una sola formazione politica
la quale, però, dopo una simile metamorfosi, avrà come propria identità solo
quella di proporsi come alternativa alla destra. Il governismo diventa in poco
tempo la malattia cronica della sinistra post PCI e di tutte le sue derivate.
Sulle
origini di questa malattia si può discutere all’infinito. Molti politologi, fra
cui tanti esponenti della sinistra anch’essi oramai più professionisti di
questa disciplina che dirigenti di partito, in verità non la considerano una
malattia e sostengono che in un sistema elettorale maggioritario dove si
confrontano coalizioni, tendenzialmente due, delle quali per un’intera
legislatura una soltanto avrà il diritto-dovere di governare, l’aspirazione
alla conquista del governo è necessariamente il fine ultimo della politica.
Sarebbe facile replicare che, visti i guasti congeniti al sistema
maggioritario, dalla crisi della partecipazione popolare alla vita dei partiti,
alla personalizzazione della politica, dalla trasformazione delle ideologie e
dei progetti politici che dovrebbero sostanziarli a vaghi ed elastici programmi
acchiappavoti, per arrivare a livelli impensabili di astensionismo, forse
sarebbe il caso di battersi per ripristinate un sistema sostanzialmente
proporzionale di sicuro più congeniale, come bene avevano compreso i
costituenti, a restituire una vera identità politica e ideale ai partiti,
facendoli così tornare ad essere insostituibili soggetti della rappresentanza
democratica.
In realtà la
propensione al governismo nasce dalla lettura che gli epigoni del PCI hanno
fatta del cambiamento di fase storica seguito alla grande ristrutturazione
capitalistica avviatasi negli anni ‘70. Una ristrutturazione che, anche grazie
alla rivoluzione tecnologica, ha rapidamente rovesciato i rapporti di forza fra
capitale e lavoro ma, quel che è peggio, ha cambiato la struttura stessa di
questo rapporto polverizzando la grande fabbrica, scomponendo le forme dello
sfruttamento, individualizzando il lavoro, in ultimo facendo della precarietà
l’essenza della condizione lavorativa. A sinistra si è inteso questo processo
come inarrestabile e definitivo, di tale portata da seppellire nelle dinamiche
sociali e di potere la centralità del conflitto fra capitale e lavoro oramai
giunto al suo esito finale. La deriva che ne è seguita anche sul piano della
forma partito è stata nient’altro che la conseguenza ineluttabile di quella
lettura. Avendo dati per morti i lavoratori in quanto classe e persino come
soggetto sociale definibile e identificabile, la sinistra politica, che già con
l’ultimo PCI aveva rimosso l’obiettivo socialista dell’emancipazione del
lavoro, ha accantonato anche l’aspirazione socialdemocratica alla trasformazione
della società nel senso dell’eguaglianza e della solidarietà. Dopo aver
attraversato una fase in cui ha cercato vanamente di conciliare l’adesione al
liberismo, assecondando il primato del mercato nell’economia, con la
conservazione di un welfare non residuale, ha finito per ripiegare sul terreno
ancor più trasversale e socialmente neutro dei diritti civili arricchiti da una
vena, non sempre coerente, di ambientalismo. Un terreno che non rappresenta
un’evoluzione “moderna” del conflitto di classe e neppure un avanzamento
rispetto a quello sui diritti sociali, ma è proprio un altro campo di
battaglia, avulso da qualunque idea che possa evocare il rapporto e il
conflitto capitale-lavoro. In questo nuovo campo si fronteggiano fra destra e
sinistra, divenute non a caso centro-destra e centro-sinistra, due concezioni
della società, delle sue componenti e delle sue relazioni interne, che
attraversano orizzontalmente i gruppi sociali perché trascendono gli interessi
che questi incorporano, più o meno consapevolmente, e fanno invece riferimento
a valori etici assimilando il confronto politico ad un confronto di dottrine.
La nuova strada intrapresa dal PD, centrata sui diritti civili ai quali quelli
sociali vengono ora aggiunti come esigenza palesemente contingente e solo sul
terreno dell’equità, è destinata a restare subalterna e perciò inerte. Anche
l’ambientalismo e il femminismo, di cui si vorrebbe raccogliere la spinta, pur
essendo assolutamente centrali in un progetto di trasformazione, sono tuttavia
socialmente trasversali. Una volta scissi dal conflitto capitale-lavoro, non
producono cambiamenti nei rapporti di potere e quindi negli assetti complessivi
della società e nelle sue dinamiche determinanti.
3. All’ombra
di quel nuovo campo di battaglia la “vecchia” lotta di classe, anche se non più
nominata, ha continuato a svolgersi, ma con la non piccola anomalia che mentre
il capitale, e quanti aderiscono al suo primato, ha avuto nella destra una
solida rappresentanza, il lavoro non ne ha avuta alcuna sul piano politico
istituzionale, e la sua rappresentanza sociale, il sindacato, è stata
enormemente indebolita dalle trasformazioni del lavoro, resa di fatto
inoffensiva e messa nell’angolo. In questa nuova fase della lotta di classe
sapientemente dissimulata dai grandi media in modo da far apparire naturali, e
perciò in fin dei conti giusti, gli scempi che vi si consumavano, al punto di
classificare come riforme nient’altro che vere e proprie controriforme di segno
reazionario, si è determinata la sistematica erosione delle conquiste
realizzate dal mondo dal lavoro e dall’intera società nei venti anni di lotte
della seconda metà del secolo scorso. Si spiegano così lo spaventoso
arretramento del mondo del lavoro nella distribuzione del reddito, nelle
condizioni materiali della prestazione lavorativa, nei diritti e nelle tutele,
nelle prospettive di vita. Anche la demolizione del welfare, il dilagare della
privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, l’asservimento delle
istituzioni alla volontà dei poteri forti e, inevitabilmente, il degrado della
politica e la disaffezione della società alle sue vicende, trovano qui le loro
vere radici.
Il filo del
discorso, a sinistra, andrebbe ripreso nel punto in cui è stato spezzato,
ovvero là dove una parte consistente della sua dirigenza ha ritenuto decadute
non solo le condizioni, ma persino le ragioni del conflitto capitale-lavoro.
Come si è visto dal persistere di quel conflitto, anche se del tutto
sbilanciato a favore del capitale, quella insussistenza, cui fece seguito una
dichiarazione di resa tacita, ma proprio per questo ancor più colpevole, non
aveva fondamenta né sul piano teorico, né su quello pratico.
4. Non si
può dunque ricostruire una strategia di trasformazione sociale senza che al suo
centro vi sia il conflitto capitale-lavoro. Le domande conseguenti sono: alla
luce della storica sconfitta subita e alla luce della frantumazione capillare
del mondo del lavoro che l’ha caratterizzata, è possibile avviare un processo
inverso di ricomposizione del lavoro e della sua identità di classe? Oppure
avevano ragione quei dirigenti provenienti dalle file del PCI che dopo l’’89
decretarono che quella strada era irrimediabilmente chiusa e che bisognava
adattarsi al liberismo vittorioso e, al più, attutirne gli effetti?
Che la via
della ricomposizione sia quanto di più complesso e difficile si possa mettere
all’ordine del giorno è fuori discussione. Il lavoro oggi non è solo privo di
una qualunque attendibile rappresentanza politica. Osservandolo dal lato della
rappresentanza sociale, al di là di quanti sono ancora, e sono molti, gli
iscritti ai sindacati, non esprime, meglio sarebbe dire non può esprimere,
alcun potere negoziale. Alla concentrazione del capitale e dei centri
decisionali si è giustapposta la massima polverizzazione dei luoghi della
produzione e delle attività, all’interno di ogni impresa di un qualsiasi
settore si è realizzato un processo di ghettizzazione dei lavoratori in veri e
propri comparti stagno di cui la coesistenza delle più diverse forme contrattuali
è una visibile testimonianza, il dominio unilaterale delle tecnologie,
soprattutto di quelle informatiche, e la loro presunta oggettività tolgono al
lavoratore non solo la possibilità di contrasto, ma spesso persino quella di
comprendere il senso del processo di cui è parte, e così via.
Eppure,
nella miriade delle modalità che connotano lo sfruttamento del lavoro vi è un
denominatore comune, un dato di realtà che appartiene alla quasi totalità di
questi lavoratori, la precarietà. Era ed è esattamente questo l’obiettivo
perseguito dalla ristrutturazione capitalistica. La tanto sbandierata
flessibilità, contrabbandata come il rimedio necessario per aumentare la
produttività, a questo serviva e continua a servire. Non averlo capito, essersi
illusi di poterla controllare, o addirittura di volgerla dalla propria parte, è
stato l’errore più grande del sindacato. Della parte più rappresentativa della
sinistra politica non tiene conto parlare perché, come detto, aveva già dato
per persa la partita. Il lavoratore è precario perché assunto con uno dei tanti
rapporti di lavoro precari a disposizione dell’impresa. Quando il contratto è a
tempo indeterminato, con la soppressione dell’articolo 18 dello Statuto, il
lavoratore sa di poter essere licenziato in qualunque momento con un costo
irrisorio per l’impresa. L’estrema frammentazione dei processi di lavoro è la
condizione oggettiva in cui il lavoratore si trova ad operare, l’isolamento e
la precarietà sono i tratti dominanti della sua condizione soggettiva. Non c’è
motivo di stupirsi se i salari sono fermi da trent’anni, se da tante parti si
lavora anche a meno di cinque euro l’ora, se la sicurezza è sempre più labile,
se le lotte sono solo quelle difensive contro le chiusure, se non si fa
contrattazione acquisitiva e si dirotta, dove si può, la contrattazione
aziendale sui campi minati, non a caso graditi alle imprese, della sanità e
della previdenza integrative. E non c’è motivo di stupirsi se il sindacato e le
sue rivendicazioni sui grandi temi economici e sociali continuano ad essere
ignorati dalla politica.
5. In questi
anni, settori della sinistra politica, associazioni, intellettuali di varie
discipline, hanno compiuto molti tentativi sia sul piano organizzativo che su
quello della elaborazione programmatica per provare ad uscire da questo cul de sac.
Opera meritevole che, speriamo presto, potrà dimostrarsi utilissima. Ma
riproporre gli obiettivi imprescindibili di una vera trasformazione, tanto per
citare alcuni titoli, dal ruolo della mano pubblica nell’economia, a una
riforma fiscale fortemente progressiva, dalla universalità dei diritti
fondamentali, liberati perciò dalle logiche di mercato, alle politiche
economiche alternative al liberismo e all’austerità, per arrivare, come
suggerisce qualcuno, alla contrattazione degli algoritmi che già stanno
pervadendo i processi di lavoro, non lo si può fare credibilmente se non si
affronta la questione dei rapporti di forza e del loro attuale livello nel
conflitto fra capitale e lavoro perché se non si passa di qui ogni proposta,
per quanto ragionevole e ben argomentata, resta una pura e vana petizione di
principio.
Si torna,
perciò, alla centralità e alla priorità della lotta contro la precarietà, vera
e propria pre-condizione di ogni avanzamento. Questa è la battaglia sulla quale
dovrebbero concentrarsi tutte le forze. Dal punto di vista normativo gli
obiettivi sono di facile individuazione. Da un lato, va ripristinato l’articolo
18 dello Statuto, vale a dire il principio che non si può essere licenziati se
non per giusta causa o giustificato motivo, estendendolo nelle forme più
opportune anche alle imprese di minore dimensione dove non veniva applicato.
Con questo scudo protettivo il lavoratore tornerà ad essere libero di
esprimersi, di organizzarsi, di far valere le proprie ragioni. Uscirà dal
ricatto permanente, che lo priva di qualunque libertà, della perdita del posto.
Dall’altro, va riconquistato il diritto a un reddito garantito, di entità
sufficiente per una vita dignitosa, per tutto il tempo in cui il lavoratore si
trova senza lavoro. La soluzione migliore sarebbe quella di distinguere due
modalità di reddito garantito, una espressamente finalizzata a contrastare la
povertà, l’altra dedicata al mondo del lavoro. In questo secondo caso, la
funzione essenziale dello strumento deve essere quella di non lasciare chi si
colloca nel mercato del lavoro nell’obbligo di accettare una qualunque offerta
di lavoro, magari precaria e sottoretribuita. Non è certo un caso che il
governo di centro-destra ne abbia subito fatto il bersaglio della sua polemica
e lo abbia smantellato in poche battute. Lo scopo era esattamente quello di
obbligare il lavoratore a entrare nel mercato del lavoro nella condizione di
massima debolezza. Gli equivoci e le manipolazioni che hanno accompagnato la
discussione sul reddito di cittadinanza consigliano alcuni accorgimenti che
tolgano di mezzo il pretesto di favorire l’ignavia dei suoi fruitori e
consentano di ottenere la più vasta adesione. A questo scopo è sufficiente, ad
esempio, prevedere la possibilità per il lavoratore di rifiutare, pena la
decadenza di quel reddito, non più di due proposte di lavoro provenienti dai
Centri per l’impiego, sempre comunque alla condizione che in tali proposte la
qualifica sia congrua con il curriculum e che la sede di lavoro sia
raggiungibile con mezzi pubblici in un tempo ragionevole, ad esempio attorno ai
sessanta minuti. In tal modo si riaffermerebbero i principi costituzionali del
diritto al lavoro e dell’impegno attivo dello Stato al suo effettivo esercizio.
La
diffusione di retribuzioni ben al di sotto dei minimi contrattuali suggerisce
di unire a questi due obiettivi la richiesta del salario minimo. Ad esserne
coinvolti è un grande e crescente numero di lavoratori, in maggioranza
immigrati, oggi retribuiti ad un livello ben al di sotto dei minimi contrattuali,
vera e propria testimonianza di quale sia il punto di costrizione cui è giunto
il ricatto “o lavori a queste condizioni, o te ne stai a casa”.
6. La
battaglia contro la precarietà ha il merito, come nessun’altra, di rispondere a
un’esigenza primaria avvertita da tutti i lavoratori, qualunque sia la
posizione che occupano nel processo di lavoro. Persino quelli dotati di una
professionalità elevata, di regola portati a esercitare una contrattazione
diretta e individuale col datore di lavoro, sanno di non essere esenti dal
rischio di trovarsi improvvisamente disoccupati. Come il capitale ha
riconquistato il dominio sul lavoro facendo leva sulla precarietà, così il
lavoro può riappropriarsi della sua dignità, della sua forza negoziale, della
sua coscienza collettiva, e riaprire la partita della trasformazione della
società, fuoriuscendo dalla precarietà.
Questa è la
posta in gioco. Come in ogni vera battaglia, il successo passa dai rapporti di
forza e quindi dalla più vasta mobilitazione del mondo del lavoro e dalla
progressiva conquista del consenso di altre parti della società. Si pensi, in
primo luogo, alle famiglie di quanti si trovano costretti in una condizione di
precarietà, e al multiforme mondo dell’associazionismo e del volontariato, cattolico
e laico, normalmente attento e sensibile verso i temi dello sfruttamento e
verso i principi della solidarietà.
A prendere
l’iniziativa non può essere che il sindacato, auspicabilmente l’intero
sindacato confederale. Ma se ciò non fosse possibile, quello o quelli dei
grandi sindacati confederali che volessero farlo avrebbero comunque le carte in
regola per progettare e avviare una grande campagna di mobilitazione. La scelta
da compiere, difficile ma necessaria, è quella di concentrarsi sull’obiettivo. Il
documento rivendicativo di carattere generale di cui il sindacato si è
giustamente dotato e che sta tentando di discutere col Governo, a dire il vero
vanamente, non va certamente accantonato, ma occorre estrapolare da esso una
mini piattaforma sulla precarietà facendone una grande vertenza. Una
piattaforma che divenga il vero centro di aggregazione del movimento dei
lavoratori, di forze politiche e di associazioni che possono finalmente far
sorgere e rendere visibile un fronte comune in cui le energie di cui ognuno
dispone convergono verso l’obiettivo condiviso.
Come sempre,
sarà la partecipazione a decidere l’esito della battaglia. Ciò significa
anzitutto informazione, e perciò assemblee ovunque, nei luoghi di lavoro, nei
territori, nelle università e nelle scuole superiori, volantini e manifesti,
prender parola nelle emittenti nazionali e locali, portare il confronto nei
social. Ma significa anche rimettere in moto processi decisionali collettivi,
partecipare per co-decidere, cogliere l’occasione di un movimento che scuote
l’abulia e il senso di impotenza oggi così diffusi per riproporre forme attive
di democrazia al posto della delega incondizionata al leader di turno.
Un processo
come questo una volta avviato, assai prima di giungere al traguardo, costringerebbe
le formazioni della sinistra e del centro-sinistra a riflettere
autocriticamente sulla propria crisi e a tentare di costruire nuove identità
ideali e programmatiche, imporrebbe al sindacato di progettare la propria
autoriforma nel vivo di una lotta di massa di cui sarebbe artefice e
protagonista principale, chiederebbe agli intellettuali di schierarsi. Nel
rispetto rigoroso dell’autonomia di ciascuno, probabilmente si creerebbero le
condizioni per un confronto collettivo sulle prospettive che si possono
riaprire per il lavoro e per l’intera sinistra, prospettive che non possono
eludere il discrimine rappresentato dalla guerra.
Nelle
terapie suggerite dalle più diverse parti per fronteggiare l’aggressività della
destra al governo e per immaginare un futuro successo del centro-sinistra, non
mancano certo consigli ragionevoli che spesso comprendono anche l’esigenza di
tutelare meglio i lavoratori. Ma hanno l’insormontabile difetto di ignorare il
nesso inderogabile fra conquiste sociali, rapporti di forza fra le classi,
compattezza del mondo del lavoro. Pensare che le cose cambino sul serio per la
lungimiranza, vera o presunta, di qualche dirigente più o meno illuminato è una
pura mistificazione. Il centro-sinistra ha già governato ma, fermandosi soltanto
ai temi del lavoro e del welfare, ha dato un buon contributo al disastro in cui
siamo. La strada è molto più complicata. Non si può mai essere sicuri di
arrivare in fondo, ma la prima cosa che conta è imboccarla dalla parte giusta.
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