mercoledì 28 giugno 2023

Lotta alla precarietà del lavoro, snodo decisivo per sinistra politica e sindacato - Carlo Lucchesi

 

1. Le più importanti e profonde riforme del dopoguerra si sono fatte in Italia negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso quando al governo del Paese c’era una coalizione di centro-sinistra nella quale la parte moderata era nettamente maggioritaria. Fu possibile essenzialmente grazie all’iniziativa del movimento sindacale capace di elaborare proposte unitarie sui grandi temi del welfare e deciso a sostenerle con la lotta dei lavoratori tanto da conquistarsi il consenso di gran parte del Paese. Si trattò dello sviluppo e della proiezione nei territori e nell’intera società nazionale delle lotte di fabbrica, che già avevano raggiunto un’estensione straordinaria. L’organizzazione tayloristica del lavoro aveva sì enormemente incrementato la produttività, ma aveva consegnato ai lavoratori un potere di interdizione sul processo produttivo che, una volta tradotto dai Consigli dei delegati in capacità e potere negoziale, aveva fatto compiere un grande salto in avanti non solo al salario, ma all’intera condizione di lavoro. Lo slogan “dalla fabbrica al territorio” segnalava appunto l’esigenza e la volontà di consolidare quelle conquiste tanto come difesa del potere d’acquisto, quanto come spostamento nei rapporti di potere fra le classi. Sul piano politico, il PCI dall’opposizione e il PSI dal governo fecero in modo che sul terreno legislativo si realizzassero mediazioni di alto contenuto alle quali dettero un notevole contributo l’area socialmente progressista della DC e parti consistenti dell’associazionismo cattolico.

Niente del genere è accaduto da allora, neppure quando al governo si sono trovate coalizioni di centro-sinistra formalmente assai più sbilanciate a sinistra di quanto fossero i governi degli anni ‘60 e ‘70.

Questa storia offre degli insegnamenti che sembrano essere stati del tutto dimenticati dalla sinistra italiana. Il primo è che si possono raggiungere importanti risultati politici e sociali anche quando si è collocati all’opposizione. Il secondo è che essere al governo non garantisce affatto di per sé lo sviluppo di politiche di sinistra, neppure se esse fossero state correttamente delineate nel programma alla base del successo elettorale. Il terzo, ancora più negletto, è che a dare la direzione di marcia ai processi sono sempre e comunque i rapporti di forza fra i contendenti. La sinistra è stata vincente quando ha saputo mettere il lavoro al centro della scena e costruire attorno ad esso un movimento di popolo e un’aggregazione più ampia di forze e di interessi.

 

2. Dopo quell’esperienza, nella cultura della sinistra si produce, gradualmente ma rapidamente, una cesura fra lotte sociali e politica. Nasce da quella frattura il mito del governo, ovvero il travisamento del giusto obiettivo di governare. Se prevale la convinzione che ciò che più conta è la conquista della maggioranza parlamentare e che a quell’obiettivo tutto può e deve essere sacrificato, e se allo stesso tempo si è convinti che le elezioni si vincono conquistando il centro, come dice la vulgata politologica, ne deriva necessariamente che le lotte sociali non saranno più il motore e l’essenza della battaglia politica, e gli stessi programmi elettorali si faranno più sfumati, più rassicuranti, più ambigui. Fino al punto che matureranno le condizioni perché sinistra e centro diano vita a una sola formazione politica la quale, però, dopo una simile metamorfosi, avrà come propria identità solo quella di proporsi come alternativa alla destra. Il governismo diventa in poco tempo la malattia cronica della sinistra post PCI e di tutte le sue derivate.

Sulle origini di questa malattia si può discutere all’infinito. Molti politologi, fra cui tanti esponenti della sinistra anch’essi oramai più professionisti di questa disciplina che dirigenti di partito, in verità non la considerano una malattia e sostengono che in un sistema elettorale maggioritario dove si confrontano coalizioni, tendenzialmente due, delle quali per un’intera legislatura una soltanto avrà il diritto-dovere di governare, l’aspirazione alla conquista del governo è necessariamente il fine ultimo della politica. Sarebbe facile replicare che, visti i guasti congeniti al sistema maggioritario, dalla crisi della partecipazione popolare alla vita dei partiti, alla personalizzazione della politica, dalla trasformazione delle ideologie e dei progetti politici che dovrebbero sostanziarli a vaghi ed elastici programmi acchiappavoti, per arrivare a livelli impensabili di astensionismo, forse sarebbe il caso di battersi per ripristinate un sistema sostanzialmente proporzionale di sicuro più congeniale, come bene avevano compreso i costituenti, a restituire una vera identità politica e ideale ai partiti, facendoli così tornare ad essere insostituibili soggetti della rappresentanza democratica.

In realtà la propensione al governismo nasce dalla lettura che gli epigoni del PCI hanno fatta del cambiamento di fase storica seguito alla grande ristrutturazione capitalistica avviatasi negli anni ‘70. Una ristrutturazione che, anche grazie alla rivoluzione tecnologica, ha rapidamente rovesciato i rapporti di forza fra capitale e lavoro ma, quel che è peggio, ha cambiato la struttura stessa di questo rapporto polverizzando la grande fabbrica, scomponendo le forme dello sfruttamento, individualizzando il lavoro, in ultimo facendo della precarietà l’essenza della condizione lavorativa. A sinistra si è inteso questo processo come inarrestabile e definitivo, di tale portata da seppellire nelle dinamiche sociali e di potere la centralità del conflitto fra capitale e lavoro oramai giunto al suo esito finale. La deriva che ne è seguita anche sul piano della forma partito è stata nient’altro che la conseguenza ineluttabile di quella lettura. Avendo dati per morti i lavoratori in quanto classe e persino come soggetto sociale definibile e identificabile, la sinistra politica, che già con l’ultimo PCI aveva rimosso l’obiettivo socialista dell’emancipazione del lavoro, ha accantonato anche l’aspirazione socialdemocratica alla trasformazione della società nel senso dell’eguaglianza e della solidarietà. Dopo aver attraversato una fase in cui ha cercato vanamente di conciliare l’adesione al liberismo, assecondando il primato del mercato nell’economia, con la conservazione di un welfare non residuale, ha finito per ripiegare sul terreno ancor più trasversale e socialmente neutro dei diritti civili arricchiti da una vena, non sempre coerente, di ambientalismo. Un terreno che non rappresenta un’evoluzione “moderna” del conflitto di classe e neppure un avanzamento rispetto a quello sui diritti sociali, ma è proprio un altro campo di battaglia, avulso da qualunque idea che possa evocare il rapporto e il conflitto capitale-lavoro. In questo nuovo campo si fronteggiano fra destra e sinistra, divenute non a caso centro-destra e centro-sinistra, due concezioni della società, delle sue componenti e delle sue relazioni interne, che attraversano orizzontalmente i gruppi sociali perché trascendono gli interessi che questi incorporano, più o meno consapevolmente, e fanno invece riferimento a valori etici assimilando il confronto politico ad un confronto di dottrine. La nuova strada intrapresa dal PD, centrata sui diritti civili ai quali quelli sociali vengono ora aggiunti come esigenza palesemente contingente e solo sul terreno dell’equità, è destinata a restare subalterna e perciò inerte. Anche l’ambientalismo e il femminismo, di cui si vorrebbe raccogliere la spinta, pur essendo assolutamente centrali in un progetto di trasformazione, sono tuttavia socialmente trasversali. Una volta scissi dal conflitto capitale-lavoro, non producono cambiamenti nei rapporti di potere e quindi negli assetti complessivi della società e nelle sue dinamiche determinanti.

 

3. All’ombra di quel nuovo campo di battaglia la “vecchia” lotta di classe, anche se non più nominata, ha continuato a svolgersi, ma con la non piccola anomalia che mentre il capitale, e quanti aderiscono al suo primato, ha avuto nella destra una solida rappresentanza, il lavoro non ne ha avuta alcuna sul piano politico istituzionale, e la sua rappresentanza sociale, il sindacato, è stata enormemente indebolita dalle trasformazioni del lavoro, resa di fatto inoffensiva e messa nell’angolo. In questa nuova fase della lotta di classe sapientemente dissimulata dai grandi media in modo da far apparire naturali, e perciò in fin dei conti giusti, gli scempi che vi si consumavano, al punto di classificare come riforme nient’altro che vere e proprie controriforme di segno reazionario, si è determinata la sistematica erosione delle conquiste realizzate dal mondo dal lavoro e dall’intera società nei venti anni di lotte della seconda metà del secolo scorso. Si spiegano così lo spaventoso arretramento del mondo del lavoro nella distribuzione del reddito, nelle condizioni materiali della prestazione lavorativa, nei diritti e nelle tutele, nelle prospettive di vita. Anche la demolizione del welfare, il dilagare della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, l’asservimento delle istituzioni alla volontà dei poteri forti e, inevitabilmente, il degrado della politica e la disaffezione della società alle sue vicende, trovano qui le loro vere radici.

Il filo del discorso, a sinistra, andrebbe ripreso nel punto in cui è stato spezzato, ovvero là dove una parte consistente della sua dirigenza ha ritenuto decadute non solo le condizioni, ma persino le ragioni del conflitto capitale-lavoro. Come si è visto dal persistere di quel conflitto, anche se del tutto sbilanciato a favore del capitale, quella insussistenza, cui fece seguito una dichiarazione di resa tacita, ma proprio per questo ancor più colpevole, non aveva fondamenta né sul piano teorico, né su quello pratico.

 

4. Non si può dunque ricostruire una strategia di trasformazione sociale senza che al suo centro vi sia il conflitto capitale-lavoro. Le domande conseguenti sono: alla luce della storica sconfitta subita e alla luce della frantumazione capillare del mondo del lavoro che l’ha caratterizzata, è possibile avviare un processo inverso di ricomposizione del lavoro e della sua identità di classe? Oppure avevano ragione quei dirigenti provenienti dalle file del PCI che dopo l’’89 decretarono che quella strada era irrimediabilmente chiusa e che bisognava adattarsi al liberismo vittorioso e, al più, attutirne gli effetti?

Che la via della ricomposizione sia quanto di più complesso e difficile si possa mettere all’ordine del giorno è fuori discussione. Il lavoro oggi non è solo privo di una qualunque attendibile rappresentanza politica. Osservandolo dal lato della rappresentanza sociale, al di là di quanti sono ancora, e sono molti, gli iscritti ai sindacati, non esprime, meglio sarebbe dire non può esprimere, alcun potere negoziale. Alla concentrazione del capitale e dei centri decisionali si è giustapposta la massima polverizzazione dei luoghi della produzione e delle attività, all’interno di ogni impresa di un qualsiasi settore si è realizzato un processo di ghettizzazione dei lavoratori in veri e propri comparti stagno di cui la coesistenza delle più diverse forme contrattuali è una visibile testimonianza, il dominio unilaterale delle tecnologie, soprattutto di quelle informatiche, e la loro presunta oggettività tolgono al lavoratore non solo la possibilità di contrasto, ma spesso persino quella di comprendere il senso del processo di cui è parte, e così via.

Eppure, nella miriade delle modalità che connotano lo sfruttamento del lavoro vi è un denominatore comune, un dato di realtà che appartiene alla quasi totalità di questi lavoratori, la precarietà. Era ed è esattamente questo l’obiettivo perseguito dalla ristrutturazione capitalistica. La tanto sbandierata flessibilità, contrabbandata come il rimedio necessario per aumentare la produttività, a questo serviva e continua a servire. Non averlo capito, essersi illusi di poterla controllare, o addirittura di volgerla dalla propria parte, è stato l’errore più grande del sindacato. Della parte più rappresentativa della sinistra politica non tiene conto parlare perché, come detto, aveva già dato per persa la partita. Il lavoratore è precario perché assunto con uno dei tanti rapporti di lavoro precari a disposizione dell’impresa. Quando il contratto è a tempo indeterminato, con la soppressione dell’articolo 18 dello Statuto, il lavoratore sa di poter essere licenziato in qualunque momento con un costo irrisorio per l’impresa. L’estrema frammentazione dei processi di lavoro è la condizione oggettiva in cui il lavoratore si trova ad operare, l’isolamento e la precarietà sono i tratti dominanti della sua condizione soggettiva. Non c’è motivo di stupirsi se i salari sono fermi da trent’anni, se da tante parti si lavora anche a meno di cinque euro l’ora, se la sicurezza è sempre più labile, se le lotte sono solo quelle difensive contro le chiusure, se non si fa contrattazione acquisitiva e si dirotta, dove si può, la contrattazione aziendale sui campi minati, non a caso graditi alle imprese, della sanità e della previdenza integrative. E non c’è motivo di stupirsi se il sindacato e le sue rivendicazioni sui grandi temi economici e sociali continuano ad essere ignorati dalla politica.

 

5. In questi anni, settori della sinistra politica, associazioni, intellettuali di varie discipline, hanno compiuto molti tentativi sia sul piano organizzativo che su quello della elaborazione programmatica per provare ad uscire da questo cul de sac. Opera meritevole che, speriamo presto, potrà dimostrarsi utilissima. Ma riproporre gli obiettivi imprescindibili di una vera trasformazione, tanto per citare alcuni titoli, dal ruolo della mano pubblica nell’economia, a una riforma fiscale fortemente progressiva, dalla universalità dei diritti fondamentali, liberati perciò dalle logiche di mercato, alle politiche economiche alternative al liberismo e all’austerità, per arrivare, come suggerisce qualcuno, alla contrattazione degli algoritmi che già stanno pervadendo i processi di lavoro, non lo si può fare credibilmente se non si affronta la questione dei rapporti di forza e del loro attuale livello nel conflitto fra capitale e lavoro perché se non si passa di qui ogni proposta, per quanto ragionevole e ben argomentata, resta una pura e vana petizione di principio.

Si torna, perciò, alla centralità e alla priorità della lotta contro la precarietà, vera e propria pre-condizione di ogni avanzamento. Questa è la battaglia sulla quale dovrebbero concentrarsi tutte le forze. Dal punto di vista normativo gli obiettivi sono di facile individuazione. Da un lato, va ripristinato l’articolo 18 dello Statuto, vale a dire il principio che non si può essere licenziati se non per giusta causa o giustificato motivo, estendendolo nelle forme più opportune anche alle imprese di minore dimensione dove non veniva applicato. Con questo scudo protettivo il lavoratore tornerà ad essere libero di esprimersi, di organizzarsi, di far valere le proprie ragioni. Uscirà dal ricatto permanente, che lo priva di qualunque libertà, della perdita del posto. Dall’altro, va riconquistato il diritto a un reddito garantito, di entità sufficiente per una vita dignitosa, per tutto il tempo in cui il lavoratore si trova senza lavoro. La soluzione migliore sarebbe quella di distinguere due modalità di reddito garantito, una espressamente finalizzata a contrastare la povertà, l’altra dedicata al mondo del lavoro. In questo secondo caso, la funzione essenziale dello strumento deve essere quella di non lasciare chi si colloca nel mercato del lavoro nell’obbligo di accettare una qualunque offerta di lavoro, magari precaria e sottoretribuita. Non è certo un caso che il governo di centro-destra ne abbia subito fatto il bersaglio della sua polemica e lo abbia smantellato in poche battute. Lo scopo era esattamente quello di obbligare il lavoratore a entrare nel mercato del lavoro nella condizione di massima debolezza. Gli equivoci e le manipolazioni che hanno accompagnato la discussione sul reddito di cittadinanza consigliano alcuni accorgimenti che tolgano di mezzo il pretesto di favorire l’ignavia dei suoi fruitori e consentano di ottenere la più vasta adesione. A questo scopo è sufficiente, ad esempio, prevedere la possibilità per il lavoratore di rifiutare, pena la decadenza di quel reddito, non più di due proposte di lavoro provenienti dai Centri per l’impiego, sempre comunque alla condizione che in tali proposte la qualifica sia congrua con il curriculum e che la sede di lavoro sia raggiungibile con mezzi pubblici in un tempo ragionevole, ad esempio attorno ai sessanta minuti. In tal modo si riaffermerebbero i principi costituzionali del diritto al lavoro e dell’impegno attivo dello Stato al suo effettivo esercizio.

La diffusione di retribuzioni ben al di sotto dei minimi contrattuali suggerisce di unire a questi due obiettivi la richiesta del salario minimo. Ad esserne coinvolti è un grande e crescente numero di lavoratori, in maggioranza immigrati, oggi retribuiti ad un livello ben al di sotto dei minimi contrattuali, vera e propria testimonianza di quale sia il punto di costrizione cui è giunto il ricatto “o lavori a queste condizioni, o te ne stai a casa”.

 

6. La battaglia contro la precarietà ha il merito, come nessun’altra, di rispondere a un’esigenza primaria avvertita da tutti i lavoratori, qualunque sia la posizione che occupano nel processo di lavoro. Persino quelli dotati di una professionalità elevata, di regola portati a esercitare una contrattazione diretta e individuale col datore di lavoro, sanno di non essere esenti dal rischio di trovarsi improvvisamente disoccupati. Come il capitale ha riconquistato il dominio sul lavoro facendo leva sulla precarietà, così il lavoro può riappropriarsi della sua dignità, della sua forza negoziale, della sua coscienza collettiva, e riaprire la partita della trasformazione della società, fuoriuscendo dalla precarietà.

Questa è la posta in gioco. Come in ogni vera battaglia, il successo passa dai rapporti di forza e quindi dalla più vasta mobilitazione del mondo del lavoro e dalla progressiva conquista del consenso di altre parti della società. Si pensi, in primo luogo, alle famiglie di quanti si trovano costretti in una condizione di precarietà, e al multiforme mondo dell’associazionismo e del volontariato, cattolico e laico, normalmente attento e sensibile verso i temi dello sfruttamento e verso i principi della solidarietà.

A prendere l’iniziativa non può essere che il sindacato, auspicabilmente l’intero sindacato confederale. Ma se ciò non fosse possibile, quello o quelli dei grandi sindacati confederali che volessero farlo avrebbero comunque le carte in regola per progettare e avviare una grande campagna di mobilitazione. La scelta da compiere, difficile ma necessaria, è quella di concentrarsi sull’obiettivo. Il documento rivendicativo di carattere generale di cui il sindacato si è giustamente dotato e che sta tentando di discutere col Governo, a dire il vero vanamente, non va certamente accantonato, ma occorre estrapolare da esso una mini piattaforma sulla precarietà facendone una grande vertenza. Una piattaforma che divenga il vero centro di aggregazione del movimento dei lavoratori, di forze politiche e di associazioni che possono finalmente far sorgere e rendere visibile un fronte comune in cui le energie di cui ognuno dispone convergono verso l’obiettivo condiviso.

Come sempre, sarà la partecipazione a decidere l’esito della battaglia. Ciò significa anzitutto informazione, e perciò assemblee ovunque, nei luoghi di lavoro, nei territori, nelle università e nelle scuole superiori, volantini e manifesti, prender parola nelle emittenti nazionali e locali, portare il confronto nei social. Ma significa anche rimettere in moto processi decisionali collettivi, partecipare per co-decidere, cogliere l’occasione di un movimento che scuote l’abulia e il senso di impotenza oggi così diffusi per riproporre forme attive di democrazia al posto della delega incondizionata al leader di turno.

Un processo come questo una volta avviato, assai prima di giungere al traguardo, costringerebbe le formazioni della sinistra e del centro-sinistra a riflettere autocriticamente sulla propria crisi e a tentare di costruire nuove identità ideali e programmatiche, imporrebbe al sindacato di progettare la propria autoriforma nel vivo di una lotta di massa di cui sarebbe artefice e protagonista principale, chiederebbe agli intellettuali di schierarsi. Nel rispetto rigoroso dell’autonomia di ciascuno, probabilmente si creerebbero le condizioni per un confronto collettivo sulle prospettive che si possono riaprire per il lavoro e per l’intera sinistra, prospettive che non possono eludere il discrimine rappresentato dalla guerra.

Nelle terapie suggerite dalle più diverse parti per fronteggiare l’aggressività della destra al governo e per immaginare un futuro successo del centro-sinistra, non mancano certo consigli ragionevoli che spesso comprendono anche l’esigenza di tutelare meglio i lavoratori. Ma hanno l’insormontabile difetto di ignorare il nesso inderogabile fra conquiste sociali, rapporti di forza fra le classi, compattezza del mondo del lavoro. Pensare che le cose cambino sul serio per la lungimiranza, vera o presunta, di qualche dirigente più o meno illuminato è una pura mistificazione. Il centro-sinistra ha già governato ma, fermandosi soltanto ai temi del lavoro e del welfare, ha dato un buon contributo al disastro in cui siamo. La strada è molto più complicata. Non si può mai essere sicuri di arrivare in fondo, ma la prima cosa che conta è imboccarla dalla parte giusta.

da qui

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