domenica 11 giugno 2023

Dobbiamo davvero lavorare tutti? - Sandro Busso

 

In uno dei testi di riferimento per l’attuale dibattito Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga riconosciuto come il maggior sostenitore e teorico sul tema negli ultimi trent’anni, sostiene insieme al collega Yannick Vanderborght che

la concomitanza di una crescente disuguaglianza, una nuova ondata di automazione e una più acuta consapevolezza dei limiti ecologici della crescita lo ha reso oggi oggetto di un interesse senza precedenti in tutto il mondo.

 

Reddito di base universale. Definizioni

Tale visibilità è cresciuta di pari passo con la polarizzazione degli argomenti riguardanti le misure di sostegno al reddito che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. […] In questo scenario il dibattito ha preso rapidamente quota, vedendo la crescita di una vera e propria advocacy coalition che raccoglie accademici e attivisti, la cui espressione più nota è rappresentata dal Bien (Basic income earth network, attivo in realtà già dal 1986) e un fiorire di pubblicazioni divulgative e prese di posizione di personaggi pubblici. Per effetto di questa rinnovata attenzione, la questione è approdata anche al livello delle istituzioni politiche. L’appoggio del Segretario generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres, nel 2018, fu salutato con grande favore dai sostenitori, e oltre al citato referendum svizzero presero forma diverse sperimentazioni anche in Europa, le più note delle quali sono avvenute in Finlandia e Olanda. Tanto nel dibattito pubblico quanto in quello di policy sembra però regnare almeno in parte una certa confusione su cosa sia, esattamente, un reddito di base universale e su come differisca da altre forme di sostegno al reddito (come l’assai più diffuso reddito minimo). È quindi opportuno, muovendosi in una vasta letteratura, individuare alcune caratteristiche imprescindibili che lo definiscono, al netto delle possibili varianti.

La prima è che si tratta di un trasferimento economico erogato a intervalli regolari per l’intero corso di vita, in modo automatico e senza doverne fare richiesta o sottostare alla prova dei mezzi. Trattandosi di un diritto fondamentale non può essere cancellato, ritirato o rimborsato in nessuna forma. Semplicemente è pensato per esserci, sempre.

La seconda caratteristica è l’universalismo, ovvero l’essere rivolto a tutti i membri di una comunità, a prescindere dal loro reddito o dalle risorse detenute, dalla condizione professionale o dalla volontà o meno di lavorare, o da qualsiasi altra caratteristica che definisce un individuo e il suo comportamento. In questo differisce in modo radicale dai cosiddetti redditi minimi, rivolti unicamente a chi si trova in condizione di povertà. Tradurre nella pratica il concetto presenta qualche inevitabile scelta: se la comunità sarà fatta sovrapporre con lo Stato allora la membership sarà definita dalla cittadinanza, se si ragionerà su base territoriale potrebbe essere la residenza, e così di seguito. Definire i confini è operazione complessa, ma l’idea è quella della massima inclusività e della riduzione al minimo dei criteri di distinzione.

La terza caratteristica ha che vedere con l’importo, che presuppone l’uguaglianza di trattamento tra tutti gli individui e l’invariabilità a fronte del mutare delle condizioni di reddito. Quanto alla generosità del trasferimento, l’idea è quella di fornire una base necessaria a un’esistenza degna e alla garanzia dei diritti fondamentali. Definire però quale sia la linea di base è anche in questo caso operazione complessa […].

Un quarto elemento distintivo è che la titolarità del contributo spetta ai singoli individui e non ai nuclei familiari, coerentemente con l’idea che si tratti di un diritto fondamentale della persona. In questo senso la discontinuità con la quasi totalità dei trasferimenti assistenziali è molto forte, dal momento che in questi casi si assume quasi sempre che al crescere del numero dei componenti si realizzino economie di scala, e che dunque l’incremento diminuisca al crescere dei membri.

Infine, quinto ma non meno importante, è l’assenza di condizionalità, ovvero di vincoli di alcun tipo nell’accesso e nella fruizione. Questo tratto rafforza il carattere universalistico, ma soprattutto segna la differenza tra un approccio basato sul diritto e uno basato sul merito, in tutte le sue forme. Dal momento che, per definizione, i diritti non vanno meritati, il reddito di base non solo non prevede condizioni per l’accesso, ma altrettanto non prevede vincoli o restrizioni rispetto al modo in cui la cifra viene spesa o requisiti comportamentali di sorta. Questa è forse la maggior differenza con i sistemi di reddito minimo che conosciamo. […]

Perché un reddito di base cambierebbe il mondo del lavoro

Fermo restando l’imprescindibile presupposto etico di un diritto a una vita dignitosa e libera dal bisogno, esistono numerose riflessioni sui presupposti di una misura come il reddito di base universale. […]

Una parte consistente delle sperimentazioni di misure simili e vicine al modello ideale proposto sopra origina, ad esempio, dall’idea di un diritto a beneficiare delle risorse comuni: è il caso del noto esperimento dell’Alaska o di quello dell’Iran, che muovono dal presupposto di una redistribuzione dei proventi petroliferi. […]

Esiste poi un altro ordine di motivazioni in cui è centrale la dimensione del lavoro e del suo rapporto con le altre attività di vita. Andrea Fumagalli nota, ad esempio, che nell’attuale scenario economico

«occorre avere il coraggio di affermare che se la vita (nei suoi vari tempi […] di lavoro, di opera, di ozio e di svago) viene messa a valore, allora è la vita intera che deve essere remunerata».

Il principio è portatore di una prospettiva rivoluzionaria. Da un lato, la crescente sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita rende difficile distinguere il primo (remunerato) dal secondo. Dall’altro, se vivere crea ricchezza perché non pensare a tutto il tempo come degno titolare di una qualche forma di compenso? Gli esempi che rendono tangibile questo approccio sono molti. Dalla nota ma mai scontata questione del lavoro di cura non retribuito, la cui unica forma di remunerazione passa (auspicabilmente, ma non necessariamente) dal salario del capofamiglia breadwinner, a scenari più moderni quali quelli della diffusione dei social media, esempio plastico di come attività di ozio e svago generino una ricchezza (ingente) per i colossi della tecnologia dell’informazione. In questo senso, suggerisce Fumagalli, il reddito di base è la remunerazione di

quell’attività di vita produttiva di valore, che oggi non viene certificata come prestazione lavorativa. […] è quindi la remunerazione diretta dell’opera, dell’ozio, dello svago, diventati, oggi, produttori di valore.

Tornando poi sul caso del lavoro di cura, la natura individuale del diritto garantito potrebbe attenuare le cosiddette dipendenze intranucleo e le loro conseguenze sui rapporti non solo tra i generi, ma anche tra le generazioni.

Muovendo dai presupposti ai possibili esiti, la relazione con il lavoro rimane centrale e si declina in due dimensioni che alimentano un serrato dibattito. La prima è senza dubbio la questione dei possibili disincentivi al lavoro […]. Se è vero che la disponibilità di un reddito rende il lavoro meno necessario, non per questo significa che lo renda indesiderabile. Questo innanzitutto per due ragioni legate alla determinazione dell’importo. La prima è che la generosità (vedi sopra) è pensata per soddisfare i bisogni primari, ma non per tutto ciò a cui le persone attribuiscono un valore. […] Inoltre, l’importo fisso disinnesca quello che in altre misure di sostegno al reddito è chiamato «effetto di sostituzione». Nei regimi di reddito minimo che conosciamo (tra cui il Reddito di cittadinanza italiano), al crescere del reddito da lavoro diminuisce il sussidio, il cui importo è calcolato come differenza tra reddito disponibile e una data soglia. In questo caso, per redditi bassi, guadagnare di più riduce semplicemente il trasferimento senza aumentare la somma complessiva disponibile, e dunque gli incentivi al lavoro esistono solo da stipendi sopra una certa soglia. Al contrario, il reddito di base universale non decresce all’aumentare dei guadagni, e di conseguenza rende il lavoro più remunerativo. […]

Il punto dunque non sembra essere se le persone smetterebbero di lavorare, ma piuttosto quanto e come lavorerebbero. A leggere con attenzione le dichiarazioni governo svizzero, in effetti, la maggior preoccupazione era la scomparsa dei lavori a basso salario. […] Non scomparirebbero dunque le settimane corte o i part-time, e forse nemmeno il fenomeno dell’overwork. Si creerebbero però le condizioni per rifiutare i cosiddetti cattivi lavori, e la sotto-occupazione assumerebbe forse un carattere maggiormente volontario.

Occorre a questo punto considerare seriamente anche le obiezioni, per non rischiare che un approccio eccessivamente naive possa danneggiare le argomentazioni. Non c’è dubbio che una misura simile comporterebbe un incremento della spesa pubblica, che si riverbererebbe sulla pressione fiscale, e un aumento dei costi sostenuti dalle imprese per i salari, partendo dal presupposto che i lavori meno desiderabili dovrebbero essere pagati di più. È però altrettanto vero che la presunta «insostenibilità» va letta alla luce di due fattori. Il primo è il già citato aumento della domanda. Siamo sicuri che una società senza povertà non produca dei ritorni anche economici? Il secondo, ribaltando la prospettiva, ci riporta al cap. II e alla progressiva divaricazione tra la crescita della produttività e quella dei salari. Quanto è «sostenibile» un modello in cui benefici dell’automazione non vengono redistribuiti, attraverso i salari o misure come un reddito di base? O più semplicemente, a fronte dell’aumento di guadagni e patrimoni monstre, è davvero impensabile un aumento di tasse e di stipendi?

Ancora una volta, non si tratta di una misura di cui tutti beneficerebbero, e sarebbe sbagliato dipingerla in questi termini. Proprio per questo, però, si tratta di una scelta di natura politica.

da qui

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