In uno dei testi di riferimento per l’attuale dibattito Philippe Van
Parijs, filosofo ed economista belga riconosciuto come il maggior sostenitore e
teorico sul tema negli ultimi trent’anni, sostiene insieme al collega Yannick
Vanderborght che
la concomitanza di una crescente
disuguaglianza, una nuova ondata di automazione e una più acuta consapevolezza
dei limiti ecologici della crescita lo ha reso oggi oggetto di un interesse
senza precedenti in tutto il mondo.
Reddito di base universale. Definizioni
Tale visibilità è cresciuta di pari passo con la polarizzazione degli
argomenti riguardanti le misure di sostegno al reddito che ha seguito la crisi
finanziaria del 2008. […] In questo scenario il dibattito ha preso rapidamente
quota, vedendo la crescita di una vera e propria advocacy coalition che
raccoglie accademici e attivisti, la cui espressione più nota è rappresentata
dal Bien (Basic
income earth network, attivo in realtà già dal 1986) e un
fiorire di pubblicazioni divulgative e prese di posizione di personaggi
pubblici. Per effetto di questa rinnovata attenzione, la questione è approdata
anche al livello delle istituzioni politiche. L’appoggio del Segretario
generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres, nel 2018, fu salutato con grande
favore dai sostenitori, e oltre al citato referendum svizzero presero
forma diverse sperimentazioni anche in Europa, le più note delle quali sono
avvenute in Finlandia e Olanda. Tanto nel dibattito pubblico quanto in quello
di policy sembra però regnare almeno in parte una certa
confusione su cosa sia, esattamente, un reddito di base universale e
su come differisca da altre forme di sostegno al reddito (come l’assai più diffuso
reddito minimo). È quindi opportuno, muovendosi
in una vasta letteratura, individuare alcune caratteristiche
imprescindibili che lo definiscono, al netto delle possibili varianti.
La prima è che si tratta di un trasferimento economico erogato a intervalli
regolari per l’intero corso di vita, in modo automatico e senza doverne fare
richiesta o sottostare alla prova dei mezzi. Trattandosi di un diritto fondamentale
non può essere cancellato, ritirato o rimborsato in nessuna forma.
Semplicemente è pensato per esserci, sempre.
La seconda caratteristica è l’universalismo, ovvero l’essere rivolto a
tutti i membri di una comunità, a prescindere dal loro reddito o dalle risorse
detenute, dalla condizione professionale o dalla volontà o meno di lavorare, o da qualsiasi altra
caratteristica che definisce un individuo e il suo comportamento. In questo
differisce in modo radicale dai cosiddetti redditi minimi, rivolti unicamente a
chi si trova in condizione di povertà. Tradurre nella pratica il concetto
presenta qualche inevitabile scelta: se la comunità sarà fatta sovrapporre con
lo Stato allora la membership sarà definita dalla
cittadinanza, se si ragionerà su base territoriale potrebbe essere la
residenza, e così di seguito. Definire i confini è operazione complessa, ma
l’idea è quella della massima inclusività e della riduzione al minimo dei
criteri di distinzione.
La terza caratteristica ha che vedere con l’importo, che presuppone
l’uguaglianza di trattamento tra tutti gli individui e l’invariabilità a fronte
del mutare delle condizioni di reddito. Quanto alla generosità del
trasferimento, l’idea è quella di fornire una base necessaria a un’esistenza
degna e alla garanzia dei diritti fondamentali. Definire però quale sia la
linea di base è anche in questo caso operazione complessa […].
Un quarto elemento distintivo è che la titolarità del contributo spetta ai
singoli individui e non ai nuclei familiari, coerentemente con l’idea che si tratti
di un diritto fondamentale della persona. In questo senso la discontinuità con
la quasi totalità dei trasferimenti assistenziali è molto forte, dal momento
che in questi casi si assume quasi sempre che al crescere del numero dei
componenti si realizzino economie di scala, e che dunque l’incremento
diminuisca al crescere dei membri.
Infine, quinto ma non meno importante, è l’assenza di
condizionalità, ovvero di vincoli di alcun tipo nell’accesso e nella
fruizione. Questo tratto rafforza il carattere universalistico, ma soprattutto
segna la differenza tra un approccio basato sul diritto e uno basato sul
merito, in tutte le sue forme. Dal momento che, per definizione, i diritti non
vanno meritati, il reddito di base non solo non prevede condizioni per
l’accesso, ma altrettanto non prevede vincoli o restrizioni rispetto al modo in
cui la cifra viene spesa o requisiti comportamentali di sorta. Questa è forse
la maggior differenza con i sistemi di reddito minimo che conosciamo. […]
Perché un reddito di base cambierebbe il mondo del lavoro
Fermo restando l’imprescindibile presupposto etico di un diritto a una vita
dignitosa e libera dal bisogno, esistono numerose riflessioni sui
presupposti di una misura come il reddito di base universale. […]
Una parte consistente delle sperimentazioni di misure simili e vicine al
modello ideale proposto sopra origina, ad esempio, dall’idea di un diritto a
beneficiare delle risorse comuni: è il caso del noto esperimento dell’Alaska o
di quello dell’Iran, che muovono dal presupposto di una redistribuzione
dei proventi petroliferi. […]
Esiste poi un altro ordine di motivazioni in cui è centrale la dimensione
del lavoro e del suo rapporto con le altre attività di vita. Andrea
Fumagalli nota, ad esempio, che nell’attuale scenario economico
«occorre avere il coraggio di affermare
che se la vita (nei suoi vari tempi […] di lavoro, di opera, di ozio e di
svago) viene messa a valore, allora è la vita intera che deve essere
remunerata».
Il principio è portatore di una prospettiva rivoluzionaria. Da un lato, la
crescente sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita rende difficile
distinguere il primo (remunerato) dal secondo. Dall’altro, se vivere crea
ricchezza perché non pensare a tutto il tempo come degno titolare di una
qualche forma di compenso? Gli esempi che rendono tangibile questo approccio
sono molti. Dalla nota ma mai scontata questione del lavoro di cura non
retribuito, la cui unica forma di remunerazione passa (auspicabilmente, ma non
necessariamente) dal salario del capofamiglia breadwinner, a
scenari più moderni quali quelli della diffusione dei social media, esempio
plastico di come attività di ozio e svago generino una ricchezza (ingente) per
i colossi della tecnologia dell’informazione. In questo senso, suggerisce
Fumagalli, il reddito di base è la remunerazione di
quell’attività di vita produttiva di
valore, che oggi non viene certificata come prestazione lavorativa. […] è
quindi la remunerazione diretta dell’opera, dell’ozio, dello svago, diventati,
oggi, produttori di valore.
Tornando poi sul caso del lavoro di cura, la natura individuale del diritto
garantito potrebbe attenuare le cosiddette dipendenze intranucleo e le loro
conseguenze sui rapporti non solo tra i generi, ma anche tra le generazioni.
Muovendo dai presupposti ai possibili esiti, la relazione con il lavoro
rimane centrale e si declina in due dimensioni che alimentano un serrato
dibattito. La prima è senza dubbio la questione dei possibili disincentivi
al lavoro […]. Se è vero che la disponibilità di un reddito rende il
lavoro meno necessario, non per questo significa che lo renda indesiderabile.
Questo innanzitutto per due ragioni legate alla determinazione dell’importo. La
prima è che la generosità (vedi sopra) è pensata per soddisfare i bisogni
primari, ma non per tutto ciò a cui le persone attribuiscono un valore. […]
Inoltre, l’importo fisso disinnesca quello che in altre misure di sostegno al
reddito è chiamato «effetto di sostituzione». Nei regimi di reddito minimo che
conosciamo (tra cui il Reddito di cittadinanza italiano), al crescere del
reddito da lavoro diminuisce il sussidio, il cui importo è calcolato come
differenza tra reddito disponibile e una data soglia. In questo caso, per
redditi bassi, guadagnare di più riduce semplicemente il trasferimento senza
aumentare la somma complessiva disponibile, e dunque gli incentivi al lavoro
esistono solo da stipendi sopra una certa soglia. Al contrario, il reddito di
base universale non decresce all’aumentare dei guadagni, e di conseguenza rende
il lavoro più remunerativo. […]
Il punto dunque non sembra essere se le persone smetterebbero di lavorare,
ma piuttosto quanto e come lavorerebbero. A leggere con attenzione le
dichiarazioni governo svizzero, in effetti, la maggior preoccupazione era la
scomparsa dei lavori a basso salario. […] Non scomparirebbero dunque le
settimane corte o i part-time, e forse nemmeno il fenomeno dell’overwork.
Si creerebbero però le condizioni per rifiutare i cosiddetti cattivi lavori, e
la sotto-occupazione assumerebbe forse un carattere maggiormente volontario.
Occorre a questo punto considerare seriamente anche le obiezioni, per non
rischiare che un approccio eccessivamente naive possa
danneggiare le argomentazioni. Non c’è dubbio che una misura simile
comporterebbe un incremento della spesa pubblica, che si riverbererebbe sulla
pressione fiscale, e un aumento dei costi sostenuti dalle imprese per i salari,
partendo dal presupposto che i lavori meno desiderabili dovrebbero essere
pagati di più. È però altrettanto vero che la presunta «insostenibilità» va
letta alla luce di due fattori. Il primo è il già citato aumento della
domanda. Siamo sicuri che una società senza povertà non produca dei
ritorni anche economici? Il secondo, ribaltando la prospettiva, ci
riporta al cap. II e alla progressiva divaricazione tra la crescita della
produttività e quella dei salari. Quanto è «sostenibile» un modello in
cui benefici dell’automazione non vengono redistribuiti, attraverso i salari o
misure come un reddito di base? O più semplicemente, a fronte dell’aumento
di guadagni e patrimoni monstre, è davvero impensabile un aumento
di tasse e di stipendi?
Ancora una volta, non si tratta di una misura di cui tutti beneficerebbero,
e sarebbe sbagliato dipingerla in questi termini. Proprio per questo,
però, si tratta di una scelta di natura politica.
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