lunedì 19 giugno 2023

Altreconomia fa il punto sui CPR

 

Ors, Ekene, Engel, Badia Grande: le “regine” dell’affare milionario dei Cpr - Luca Rondi

 

Un nuovo rapporto Coalizione italiana libertà e diritti (Cild) pubblicato a inizio giugno approfondisce, dati alla mano, i guadagni e la gestione problematica da parte di cooperative e multinazionali dei Centri per il rimpatrio attivi in Italia. Una “partita” da oltre 56 milioni di euro tra 2021 e 2023 in cui a perderci sono “solo” i reclusi

L'Affare Cpr è il nuovo report della Coalizione italiana libertà e diritti civili, pubblicato a inizio giugno 2023

 

Per il triennio 2021-2023 il ministero dell’Interno ha messo a bando 56 milioni di euro per la gestione dei dieci Centri di permanenza per il rimpatrio attivi nel nostro Paese, luoghi dove vengono recluse le persone “irregolari” in attesa di espulsione. La gestione (o meglio, la malagestione) di queste strutture è nelle mani di diversi soggetti: dalle multinazionali Gepsa e Ors alle società come Engel srl alle cooperative come Edeco-Ekene e Badia Grande come ha ricostruito in dettaglio la Coalizione italiana libertà e diritti (Cild) nel nuovo rapporto “L’Affare Cpr, il profitto sulla pelle delle persone migranti”, pubblicato a inizio giugno 2023. E che sottolinea come sempre più spesso si verifichino due tendenze: da un lato la “minimizzazione dei costi da parte del pubblico”, quindi il ministero dell’Interno tramite gli uffici territoriali, dall’altro la “massimizzazione dei profitti da parte dei privati” che si traduce negli scadenti servizi offerti ai trattenuti. “L’affidamento ai privati comporta il rischio di ‘diluire’ le responsabilità delle autorità pubbliche -si legge nel report– consentendo ai privati di speculare sulla pelle delle persone detenute”.

Dati di bilancio, bandi di gara, contratti di aggiudicazione e inchieste giudiziarie alla mano i sei autori del rapporto (Marika Ikonomu, Alessandro Leone, Simone Manda, Federica Borlizzi, Eleonora Costa e Oiza Q. Obasuyi) tratteggiano il “mostruoso stato di eccezione” che caratterizza la vita di reclusione all’interno dei Cpr e ricostruiscono gli affari delle società e delle multinazionali che gestiscono queste strutture in Italia. Già, perché al fianco delle cooperative (stabilmente coinvolte dal 2011 in avanti) solo negli ultimi dieci anni hanno cominciato a inserirsi sul mercato anche grandi realtà del mondo profit attratte dalla “filiera molto remunerativa” del trattenimento dei migranti. Una filiera in cui i bandi delle prefetture vengono quasi sempre vinti dai privati con offerte al ribasso proprio per massimizzare il profitto. Solo in pochi caso gli importi finali sono stati dichiarati alla Cild: i 56milioni di euro stimati su tre anni (iva esclusa) sono quindi una cifra indicativa, perché conteggiano le cifre indicate in base d’asta delle gare d’appalto, ma non quelle di aggiudicazione. In ogni caso, a questi costi vanno sommati quelli del personale di polizia e quelli relativi alla manutenzione delle strutture.

Una delle principali protagoniste del settore è Organisation for refugees services (Ors), società con sede in Svizzera a Zurigo, che sul proprio sito internet si presenta come “leader nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa” da oltre trent’anni. Un colosso con più di 1.400 dipendenti che nel 2021 gestiva oltre cento strutture tra Svizzera, Austria, Germania e appunto Italia. L’ingresso nel mercato del nostro Paese è avvenuto con dinamiche “particolari”: Ors Italia, società a responsabilità limitata interamente controllata dalla casa madre elvetica, risulta iscritta nel registro delle imprese dal 25 luglio 2018, meno di due mesi dopo l’insediamento del Governo Conte I con Matteo Salvini al ministero dell’Interno. Ma l’azienda da avvio alla propria attività economica, si legge nel report, solo a gennaio 2020: un inizio “prodigioso” perché Ors Italia riesce ad aggiudicarsi la commessa da oltre 572mila euro per la gestione del Cpr di Macomer, in Sardegna, nel dicembre 2019, quando era ancora inattiva.

Un dettaglio che non sfugge né ad Erasmo Palazzotto, che in un’interrogazione parlamentare presentata a metà maggio 2020 chiede al ministero dell’Interno come sia possibile che una società senza alcuna concreta esperienza sia ritenuta idonea alla gestione del centro; né al Tar del Friuli-Venezia Giulia. Già, perché l’attenzione di Ors Italia, un mese dopo essersi aggiudicata il bando per il Cpr sardo, si concentra su Trieste dove la neonata società vince anche quella indetta dalla prefettura per “Casa Malala”, un centro di accoglienza chi arriva dalla rotta balcanica, con un ribasso del 14% (pari a 788mila euro) sulla base d’asta. Il Consorzio italiano rifugiati (Ics), secondo in graduatorio non ci sta e presenta ricorso: il 17 dicembre 2020 è il Tribunale amministrativo regionale a escludere dalla gara Ors Italia sottolineando come “lo stato di inattività di un’impresa sia preclusivo alla possibilità di concorrere a una gara per l’aggiudicazione di un pubblico appalto”. A Macomer, però, nulla cambia: in un cortocircuito per cui un tribunale dichiara che una società non è idonea a gestire una struttura mentre, in un’altra Regione, questa può continuare a svolgere il proprio lavoro.

Gli affari di Ors Italia non si fermano alla Sardegna. In meno di due anni la società si aggiudica la gestione di due strutture di accoglienza a Bologna (settembre 2021) e Milano (ottobre 2021) cui seguono il Cpr di Ponte Galeria a Roma (dicembre 2021) e quello di Torino (febbraio 2022). Gli affari girano, insomma, anche grazie all’attività di lobby svolta dalla società di consulenza” Teleos analisi e strategie”, con cui l’azienda elvetica ha siglato un accordo nel 2020. “Non c’è niente di illegale in tutto questo -si legge nel report– ma è interessante notare come Ors sia l’unica tra le cooperative e società multinazionali che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad avere consulenti che rappresentano i suoi interessi alla Camera dei deputati”.

Il tratto comune della gestione di Ors, da Nord a Sud, dai Cas al Cpr è il massimo ribasso nei servizi per vincere, a qualunque costo, i bandi di assegnazione. Basti pensare che per “Casa Malala” aveva proposto tre pasti al giorno a meno di cinque euro pro-capite. “Non appare difficile immaginare -scrivono i ricercatori di Cild- come questa corsa al ribasso possa incidere sui diritti delle persone accolte o trattenute nei centri gestiti da Ors”. Intanto, la casa madre ha fatto il “salto”: nel settembre 2022 è stata acquisita da Serco Group plc, gruppo britannico che offre numerosi servizi tra cui il “trasporto e controllo della circolazione stradale in aree pubbliche e private, aviazione, contratti militari e armi nucleari, gestioni di centri di detenzione e prigioni”.

Dal settore turistico al business dell’accoglienza e del trattenimento dei migranti. È questa la parabola seguita invece da Engel Italia Srl, società nata nel 2012 e con sede legale a Salerno, città nella quale sorge il primo resort di proprietà. Un albergo che, ben presto, è stato trasformato in centro di accoglienza. Le difficoltà economiche incontrate negli ultimi mesi dall’azienda non hanno fermato la partecipazione alle gare d’appalto bandite dalle prefetture: dopo aver ottenuto l’affidamento del Cpr di Palazzo San Gervasio (in provincia di Potenza), recentemente è riuscita anche ad acquisire la gestione del Centro per il rimpatrio di via Corelli a Milano per un importo stimato di quasi cinque milioni di euro. Lo ha fatto attraverso la controllata Martinina Srl, a cui nel gennaio 2022 ha ceduto un ramo d’azienda.

Da Potenza al capoluogo lombardo, le criticità nella gestione sono comuni: violazione del diritto alla salute e alla difesa legale dei migranti rinchiusi nelle due strutture, cui viene impedito anche di comunicare liberamente con l’esterno. Due ex operatrici di via Corelli hanno raccontato che “l’ente non garantisce ai trattenuti acqua calda per lavarsi, riscaldamento, coperte, oltre a rifiutarsi di pagare molti farmaci (tranne le benzodiazepine, gli unici farmaci che permetteva di comprare). Le stesse hanno riferito che non sono mancati i maltrattamenti nei confronti delle persone trattenute, che sembra venissero definite ‘merde’ o ‘bestie’ o con un numero”. A questo si aggiungono le pessime condizioni di lavoro dei dipendenti. “Le operatrici denunciano come perfino i medici del Centro, così come chi si occupava del servizio mensa, non ricevessero lo stipendio per mesi, e, conseguentemente, diversi prendevano la decisione di dimettersi”, si legge nel report

Tra i colossi della detenzione amministrativa nel nostro Paese non si può non citare la multinazionale Gepsa (società controllata dal colosso energetico Engie) che in Francia gestisce i servizi ausiliari di diversi istituti penitenziari e che nel 2011 ha iniziato ad affacciarsi anche in Italia, affermandosi nel settore dell’accoglienza con una “strategia aggressiva”: “Per mesi ha continuato ad aggiudicarsi appalti offrendo un ribasso sui prezzi a base dell’asta dal 20 al 30% inferiori a quelli dei suoi concorrenti”, si legge nel report. Ottenendo così la gestione dei Cpr di Roma (2014-2017), Torino (2015-2023) e Milano (2014-2017).

Affari milionari che proseguono ancora oggi. Gepsa, infatti, ha gestito il Cpr di corso Brunelleschi a Torino (oggi chiuso a seguito delle proteste dei reclusi che hanno reso inagibile le strutture) fino al marzo 2023: “In questo periodo si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta”, osservano i curatori del rapporto. Inoltre, si sottolinea come “le visite di idoneità al trattenimento effettuate, non dal medico del Sistema sanitario nazionale, come richiesto dalla normativa, bensì da personale sanitario convenzionato con l’ente gestore”. Un evidente conflitto di interessi che caratterizza tutto il sistema Cpr: il datore di lavoro, società o cooperativa che sia, guadagna sulle presenze effettive (quindi per ogni persona che è nel centro e non per il singolo posto messo a bando), avrà interesse nel tenere reclusa la persona e non rilasciare anche se per ragioni sanitarie.

È “italianissima”, invece, la cooperativa Badia Grande nata nel luglio 2017, leader nel settore soprattutto nel Mezzogiorno, dove ha gestito hotspot (Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Messina), Centri per l’accoglienza straordinaria (Cas) e negli ultimi anni anche Cpr. La cooperativa è al centro di diverse inchieste giudiziarie. A Bari, dove Badia Grande si è aggiudicata per cinque milioni di euro la gestione del Cpr, l’accusa dei giudici è “frode nell’esecuzione del contratto di affidamento servizi e forniture relativi al funzionamento del Cpr” con specifico riferimento alla “fornitura del servizio di assistenza sanitaria”. Accuse simili arrivano anche in merito al funzionamento del Cpr Trapani Milo tra il 2017 e il 2019.

I processi riguardano Antonio Manca, l’allora rappresentante legale della cooperativa, rinviato a giudizio dalle procure di Trapani e Bari problematizzando le modalità di gestione dei centri. Proprio queste inchieste, a maggio 2023 hanno fatto fare un “passo indietro” alla Prefettura di Trapani che nell’aprile 2022 aveva assegnato nuovamente a Badia Grande la gestione del Cpr attivo in città con un capienza di 204 posti per una base d’asta di cinque milioni e mezzo di euro. Sette mesi dopo, l’ufficio del governo ha però escluso la cooperativa della gara per “omissione informativa” rispetto alle pendenze in corso che interessano i membri di Badia Grande. Questa ha poi perso il ricorso al Tar contro questa decisione. L’avviso di conclusione delle indagini, notificato a Manca nel luglio 2021, non ha fermato la cooperativa neanche nel partecipare alla nuova gara per l’hotspot di Lampedusa avvenuta pochi mesi dopo e vinta con un ribasso del 18% rispetto alla base d’asta. Anche questa esperienza, però, è stata disastrosa e nel giugno 2023 è subentrata la Croce Rossa Italiana.

A fronte di questo triste quadro, Cild sottolinea come la detenzione amministrativa in Italia “lungo tutto l’arco della sua non-nobile storia si è caratterizzata per l’essere un autonomo binario punitivo di cui possono essere destinatari i soli migranti e cui corrispondono livelli di garanzie differenti rispetto a quelli attribuiti al resto della cittadinanza”. Anche per questo motivo, un eventuale passaggio di gestione nelle mani dello Stato, come previsto dal governo del decreto cosiddetto Cutro varato a metà maggio 2023, non cambierebbe le sorti di questi luoghi. “La detenzione amministrativa è un sistema drammaticamente inumano e non rispettoso della dignità delle persone recluse -concludono i curatori- […]. Una gestione totalmente pubblica non cambierebbe lo stato delle cose e ci riporterebbe esattamente nel luogo da dove siamo partiti: in un buco nero”.

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Abuso di psicofarmaci nei Cpr: perché la versione del ministro Piantedosi non sta in piedi - Luca Rondi e Lorenzo Figoni

 

Intervistato da Piazzapulita sulle terribili condizioni dei trattenuti nei Centri, il titolare del Viminale ha provato a confutare i risultati della nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati”. Ma le sue tesi non reggono: dalla presunta richiesta dei reclusi all’ipotizzata presenza solo di persone con reati commessi durante la loro permanenza in Italia

 

Giovedì 25 maggio su La7 la trasmissione Piazzapulita il servizio di Chiara Proietti D’Ambra ha mostrato immagini inedite sulle condizioni di vita delle persone recluse nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani (Cpr). Il lavoro si è concentrato sulle strutture di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) e palazzo San Gervasio (Potenza) dando conto anche dei risultati dell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata da Altreconomia ad aprile e che per la prima volta ha quantificato, dati alla mano, l’abuso di psicofarmaci in cinque delle nove strutture detentive attualmente attive in Italia.

Le immagini e i dati sono stati mostrati anche al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha risposto alle domande della giornalista Roberta Benvenuto. Risposte lacunose, giunte tra l’altro prima in televisione rispetto alle quattro interrogazioni parlamentari presentate più di un mese fa da diversi senatori e deputati e tuttora rimaste inevase.

Il ministro ha spiegato di “escludere nella maniera più categorica che vi sia un orientamento della gestione dei Centri finalizzata alla sedazione di massa. C’è una richiesta da parte degli ospiti. Fare il confronto tra le prescrizioni all’esterno e all’interno delle strutture non ha senso perché è più facile che nei Cpr si concentrano persone per cui quel tipo di prescrizioni si rivela normale”. Come descritto nella nostra inchiesta, presentata alla Camera dei Deputati a inizio aprile con Riccardo Magi e Ilaria Cucchi, l’utilizzo di psicofarmaci rispetto a un servizio dell’Asl che prende in carico una popolazione simile è però spropositato: 160 volte in più a Milano, 127,5 a Roma, 60 a Torino e così via.

Il confronto è nato esattamente dalla necessità di quantificare un utilizzo di cui neanche le prefetture hanno contezza per partire da un dato di realtà che vada oltre le testimonianze dei reclusi. Piantedosi dichiara che non è significativo questo confronto perché il “sovrautilizzo” è dovuto al fatto che all’interno dei centri vi sono delle persone per cui quei farmaci sono necessari. Ma nell’inchiesta abbiamo riscontrato un largo utilizzo di Quetiapina, Olanzapina o Depakin, indicati nel­la terapia di schizofrenia e disturbo bipolare; Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta); Rivotril.

Se questi farmaci sono forniti tramite prescrizioni e non somministrati al di fuori di quanto previsto dal foglio illustrativo, significa nei centri si trovano persone con patologie psichiatriche gravi. Ma nel maggio 2022 una direttiva dello stesso ministero dell’Interno aveva specificato che la visita d’ingresso nel Centro per valutare l’idoneità alla “vita” in comunità ristretta nella struttura deve escludere “pato­logie evidenti come malattie infettive contagio­se, disturbi psichiatrici, patologie acute o croni­co degenerative che non possano ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”. Delle due l’una: o le persone non possono stare nei Centri per la loro condizione sanitaria, oppure i farmaci vengono forniti off-label, senza cioè seguire un preciso piano terapeutico…

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“Perché i Centri di permanenza per il rimpatrio devono indignare” - Giulia Vicini

 

L’avvocata Giulia Vicini, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, conosce bene i Cpr e le condizioni di vita di chi vi è trattenuto. In particolare in quello di via Corelli a Milano. Luoghi di privazione della libertà, con garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere. Stigmi cittadini. Il suo racconto

 

Cpr. A dispetto del nome e dei nomi che lo hanno preceduto -Centro di permanenza temporanea (Cpt), Centro di identificazione ed espulsione (Cie), e ora l’acronimo sta per Centro di permanenza per il rimpatrio- si tratta di un luogo di privazione della libertà personale. La stessa struttura di questi centri lo dimostra: alte mura, filo spinato e telecamere sul perimetro. Presidio costante di almeno quattro corpi di forze dell’ordine: esercito, carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza.

I francesi hanno trovato un nome per diversificare la privazione della libertà personale dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio dalla detenzione nelle carceri ed è “retention”. In Italia si parla di trattenimento amministrativo. Come lo si voglia chiamare, si tratta della stessa privazione della libertà personale a cui sono sottoposti coloro che sono stati condannati per avere commesso dei reati. Chi sta nel Cpr non può andare da nessuna parte e risponde a regole che sono proprie del carcere, nonostante siano diversi i presupposti per il trattenimento e anche le garanzie e le tutele del trattenuto.

I trattenuti nel Cpr sono cittadini stranieri in attesa dell’espletamento delle procedure di esecuzione di un rimpatrio forzato. Tra i presupposti (quantomeno quelli previsti dalla legge) per il trattenimento presso il Cpr vi è quindi anzitutto di non avere o non avere più un titolo per soggiornare regolarmente nel territorio nazionale, un permesso di soggiorno. Prendendo in prestito uno degli alienanti nomi in voga nel dibattito pubblico, chi può essere trattenuto al Cpr è “irregolare”. O, peggio ancora, “clandestino”. Ma, sempre in forza delle norme di legge, l’irregolarità non è sufficiente perché si possa applicare la misura del trattenimento presso il Cpr. È anche necessario che lo straniero sia “espellibile”, che possa essere destinatario di un provvedimento di rimpatrio. Questo perché l’ordinamento nazionale prevede delle ipotesi in cui il cittadino straniero, pur non avendo un permesso di soggiorno, non può essere allontanato dal territorio nazionale. È il caso dei minori, delle donne in stato di gravidanza e -quantomeno fino alla recente riforma della protezione speciale- di coloro che avevano maturato in Italia dei legami famigliari o sociali significativi e degni di protezione.

Ulteriore presupposto perché le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere al trattenimento è che il provvedimento di rimpatrio comminato possa essere eseguito con la forza. L’uso della forza e il trattenimento sono infatti previsti come ultima ratio per garantire l’esecuzione del rimpatrio. L’ordinamento disciplina delle misure alternative, meno afflittive della libertà personale, quali ad esempio l’obbligo di firma e il ritiro del passaporto.

Questi i presupposti di legge. L’esperienza però ci mostra che nei Cpr vengono spesso trattenute persone inespellibili o che potrebbero avere accesso a misure alternative. Quello che è certo è che chi è trattenuto presso il Cpr non ha commesso alcun reato, o quantomeno non è trattenuto per avere commesso un reato. Il suo trattenimento è unicamente finalizzato a consentire alle autorità di pubblica sicurezza di rimuoverlo forzatamente dal territorio.

Che il trattenimento nel Cpr non sia conseguenza di alcun reato è tanto più evidente se si considera che anche chi vi è trattenuto dopo avere espiato una pena in carcere non lo è per “pagare” una pena -appunto già pagata altrove- ma per essere identificato, in un sistema che si rivela incapace, o forse disinteressato a procedere all’identificazione e al riconoscimento durante la (spesso lunga) permanenza in carcere.

Per riassumere, della popolazione del Cpr fanno parte coloro che entrano nel territorio senza un titolo per l’ingresso o il soggiorno o che entrano con un titolo trattenendosi però oltre la sua scadenza. Coloro che perdono un titolo di soggiorno spesso per cause non a loro imputabili, quali la perdita dell’occupazione. Ma anche i richiedenti asilo. Coloro che chiedono protezione internazionale perché in fuga da persecuzioni e guerre.

Il decreto legge 20/2023 convertito in legge 50/2023 ha peraltro reso il trattenimento del richiedente asilo la norma ogni qualvolta la domanda è presentata “in frontiera”. Dove il concetto di frontiera si amplia a dismisura ricomprendendo territori scelti senza alcuna apparente ragione (si pensi ad esempio Matera) con la conseguenza che alla domanda di protezione presentata in questi territori seguirà un trattenimento. Le direttive europee prescrivono che il trattenimento del richiedente protezione debba rappresentare una misura eccezionale e che si debbano distinguere i luoghi di trattenimento perché diversi sono i presupposti e diverse le procedure e le garanzie. Nondimeno i richiedenti asilo possono essere trattenuti fino a dodici mesi negli stessi luoghi dei cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio.

Quando e quanto si può essere trattenuti nel Cpr? Sul quando, si è già detto, lo straniero che viene portato al Cpr non è solo quello che è appena entrato in Italia ma anche quello che si trova nel territorio da moltissimi anni e che nel territorio ha costruito un percorso di vita. Sul quanto vale la pena interrogarsi perché la disciplina degli stessi termini del trattenimento dimostra l’esclusiva funzionalità alla conclusione di un procedimento -quello di espulsione- che molto spesso le autorità non portano a termine. La proroga del trattenimento, dopo i primi trenta giorni, può infatti essere consentita dal Giudice di pace solo se “l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. Il trattenimento può essere prorogato per altri trenta giorni solo se risulta probabile che il rimpatrio venga eseguito. Il trattenimento non solo è funzionale all’esecuzione del rimpatrio ma anche spesso determinato da inefficienze o ritardi della Pubblica amministrazione.

Dove si consuma il trattenimento ai fini del rimpatrio? Nonostante le nostre preoccupazioni e la nostra indignazione riguardino spesso, legittimamente, i Cpr, gli stranieri destinatari di misure di rimpatrio vengono trattenuti anche negli aeroporti. In quella Malpensa in cui i titolari di passaporto italiano transitano senza alcun ostacolo e in cui i cittadini stranieri a cui si contesta di “non avere i documenti in regola” al momento del loro arrivo vengono trattenuti anche fino a otto giorni, in aree sterili, senza vedere la luce del giorno e senza avere accesso ai loro oggetti personali, e poi vengono “accompagnati” all’aereo che li riporta a casa. Dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 è inoltre possibile trattenere presso dei locali all’interno delle questure in attesa di rimpatrio. E negli uffici di via Montebello della questura di Milano questi locali esistono e vengono comunemente utilizzati.

Infine, quello che forse più deve indignare è come si svolge il trattenimento. Ai trattenuti nel Cpr sono riconosciute garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere, tanto nel procedimento che porta alla privazione della libertà, quanto nelle condizioni materiali di tale privazione. Il caso dell’utilizzo della forza pubblica per l’esecuzione del rimpatrio di cittadini stranieri è l’unico per cui -in alcune ipotesi- la legge nazionale esclude la necessità di una convalida giudiziaria. Questo vale per i respingimenti “immediati” ai valichi di frontiera e anche, con l’entrata in vigore del decreto legge 20/2023, per chi è destinatario di misure di espulsione di carattere penale. Anche dove una convalida giudiziaria è prevista, la stessa è molto al di sotto degli standard del giusto processo, con udienze che si svolgono da remoto, senza concedere ai legali adeguato tempo per conferire con l’assistito, e hanno una durata complessiva di poco più di un quarto d’ora. Nel procedimento di convalida, inoltre, opera spesso un’inversione de facto dell’onere della prova in cui lo straniero deve offrire prova documentale di tutto quello che deduce mentre sulle dichiarazioni rese dalla Questura, parte istante, si fa cieco affidamento.

Quanto alle condizioni, l’ampia reportistica risultante dai sopralluoghi effettuati presso i Cpr è più che eloquente. Lo straniero trattenuto non riceve alcuna informativa sui diritti e sui servizi a cui ha titolo. Significativo è che lo stesso venga identificato e arrivando nella sala colloqui con l’avvocato si identifichi con un numero. Quando si iniziano a identificare le persone con i numeri la storia ci insegna che non si arriva mai a nulla di buono.

Giulia Vicini, avvocata, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

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