Ors, Ekene, Engel, Badia
Grande: le “regine” dell’affare milionario dei Cpr - Luca Rondi
Un nuovo rapporto Coalizione italiana libertà e
diritti (Cild) pubblicato a inizio giugno approfondisce, dati alla mano, i
guadagni e la gestione problematica da parte di cooperative e multinazionali
dei Centri per il rimpatrio attivi in Italia. Una “partita” da oltre 56 milioni
di euro tra 2021 e 2023 in cui a perderci sono “solo” i reclusi
L'Affare Cpr è il nuovo report della Coalizione
italiana libertà e diritti civili, pubblicato a inizio giugno 2023
Per il
triennio 2021-2023 il ministero dell’Interno ha messo a bando 56 milioni di
euro per la gestione dei dieci Centri di permanenza per il rimpatrio attivi nel
nostro Paese, luoghi dove vengono recluse le persone “irregolari” in attesa di
espulsione. La gestione (o meglio, la malagestione) di queste strutture è nelle
mani di diversi soggetti: dalle multinazionali Gepsa e Ors alle società come
Engel srl alle cooperative come Edeco-Ekene e Badia Grande come ha ricostruito
in dettaglio la Coalizione italiana libertà e diritti (Cild) nel nuovo rapporto
“L’Affare Cpr, il profitto sulla pelle delle persone
migranti”,
pubblicato a inizio giugno 2023. E che sottolinea come sempre più spesso
si verifichino due tendenze: da un lato la “minimizzazione dei costi da parte
del pubblico”, quindi il ministero dell’Interno tramite gli uffici
territoriali, dall’altro la “massimizzazione dei profitti da parte dei privati”
che si traduce negli scadenti servizi offerti ai trattenuti. “L’affidamento ai
privati comporta il rischio di ‘diluire’ le responsabilità delle autorità
pubbliche -si legge nel report– consentendo ai privati di speculare
sulla pelle delle persone detenute”.
Dati di
bilancio, bandi di gara, contratti di aggiudicazione e inchieste giudiziarie
alla mano i sei autori del rapporto (Marika Ikonomu, Alessandro Leone, Simone
Manda, Federica Borlizzi, Eleonora Costa e Oiza Q. Obasuyi) tratteggiano il
“mostruoso stato di eccezione” che caratterizza la vita di reclusione
all’interno dei Cpr e ricostruiscono gli affari delle società e delle
multinazionali che gestiscono queste strutture in Italia. Già, perché al fianco
delle cooperative (stabilmente coinvolte dal 2011 in avanti) solo negli ultimi
dieci anni hanno cominciato a inserirsi sul mercato anche grandi realtà del
mondo profit attratte dalla “filiera molto remunerativa” del
trattenimento dei migranti. Una filiera in cui i bandi delle prefetture vengono
quasi sempre vinti dai privati con offerte al ribasso proprio per massimizzare
il profitto. Solo in pochi caso gli importi finali sono stati dichiarati alla
Cild: i 56milioni di euro stimati su tre anni (iva esclusa) sono quindi una
cifra indicativa, perché conteggiano le cifre indicate in base d’asta delle
gare d’appalto, ma non quelle di aggiudicazione. In ogni caso, a questi costi
vanno sommati quelli del personale di polizia e quelli relativi alla
manutenzione delle strutture.
Una delle
principali protagoniste del settore è Organisation for refugees services (Ors),
società con sede in Svizzera a Zurigo, che sul proprio sito internet si
presenta come “leader nei settori dell’accoglienza e della
detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa” da oltre trent’anni. Un
colosso con più di 1.400 dipendenti che nel 2021 gestiva oltre cento strutture
tra Svizzera, Austria, Germania e appunto Italia. L’ingresso nel mercato del
nostro Paese è avvenuto con dinamiche “particolari”: Ors Italia, società a
responsabilità limitata interamente controllata dalla casa madre elvetica,
risulta iscritta nel registro delle imprese dal 25 luglio 2018, meno di due
mesi dopo l’insediamento del Governo Conte I con Matteo Salvini al ministero
dell’Interno. Ma l’azienda da avvio alla propria attività economica, si legge
nel report, solo a gennaio 2020: un inizio “prodigioso” perché Ors
Italia riesce ad aggiudicarsi la commessa da oltre 572mila euro per la gestione
del Cpr di Macomer, in Sardegna, nel dicembre 2019, quando era ancora inattiva.
Un dettaglio
che non sfugge né ad Erasmo Palazzotto, che in un’interrogazione parlamentare
presentata a metà maggio 2020 chiede al ministero dell’Interno come sia
possibile che una società senza alcuna concreta esperienza sia ritenuta idonea
alla gestione del centro; né al Tar del Friuli-Venezia Giulia. Già, perché
l’attenzione di Ors Italia, un mese dopo essersi aggiudicata il bando per il
Cpr sardo, si concentra su Trieste dove la neonata società vince anche quella
indetta dalla prefettura per “Casa Malala”, un centro di accoglienza chi arriva
dalla rotta balcanica, con un ribasso del 14% (pari a 788mila euro) sulla base
d’asta. Il Consorzio italiano rifugiati (Ics), secondo in graduatorio non ci
sta e presenta ricorso: il 17 dicembre 2020 è il Tribunale amministrativo
regionale a escludere dalla gara Ors Italia sottolineando come “lo stato di
inattività di un’impresa sia preclusivo alla possibilità di concorrere a una
gara per l’aggiudicazione di un pubblico appalto”. A Macomer, però, nulla cambia:
in un cortocircuito per cui un tribunale dichiara che una società non è idonea
a gestire una struttura mentre, in un’altra Regione, questa può continuare a
svolgere il proprio lavoro.
Gli affari
di Ors Italia non si fermano alla Sardegna. In meno di due anni la società si
aggiudica la gestione di due strutture di accoglienza a Bologna (settembre
2021) e Milano (ottobre 2021) cui seguono il Cpr di Ponte Galeria a Roma
(dicembre 2021) e quello di Torino (febbraio 2022). Gli affari girano, insomma,
anche grazie all’attività di lobby svolta dalla società di
consulenza” Teleos analisi e strategie”, con cui l’azienda elvetica ha siglato
un accordo nel 2020. “Non c’è niente di illegale in tutto questo -si legge
nel report– ma è interessante notare come Ors sia l’unica tra le
cooperative e società multinazionali che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad
avere consulenti che rappresentano i suoi interessi alla Camera dei deputati”.
Il tratto
comune della gestione di Ors, da Nord a Sud, dai Cas al Cpr è il massimo ribasso
nei servizi per vincere, a qualunque costo, i bandi di assegnazione. Basti
pensare che per “Casa Malala” aveva proposto tre pasti al giorno a meno di
cinque euro pro-capite. “Non appare difficile immaginare -scrivono i
ricercatori di Cild- come questa corsa al ribasso possa incidere sui diritti
delle persone accolte o trattenute nei centri gestiti da Ors”. Intanto, la casa
madre ha fatto il “salto”: nel settembre 2022 è stata acquisita da Serco Group
plc, gruppo britannico che offre numerosi servizi tra cui il “trasporto e
controllo della circolazione stradale in aree pubbliche e private, aviazione,
contratti militari e armi nucleari, gestioni di centri di detenzione e
prigioni”.
Dal settore
turistico al business dell’accoglienza e del trattenimento dei
migranti. È questa la parabola seguita invece da Engel Italia Srl, società nata
nel 2012 e con sede legale a Salerno, città nella quale sorge il primo resort di
proprietà. Un albergo che, ben presto, è stato trasformato in centro di
accoglienza. Le difficoltà economiche incontrate negli ultimi mesi dall’azienda
non hanno fermato la partecipazione alle gare d’appalto bandite dalle
prefetture: dopo aver ottenuto l’affidamento del Cpr di Palazzo San Gervasio
(in provincia di Potenza), recentemente è riuscita anche ad acquisire la
gestione del Centro per il rimpatrio di via Corelli a Milano per un importo
stimato di quasi cinque milioni di euro. Lo ha fatto attraverso la controllata
Martinina Srl, a cui nel gennaio 2022 ha ceduto un ramo d’azienda.
Da Potenza al
capoluogo lombardo, le criticità nella gestione sono comuni: violazione del
diritto alla salute e alla difesa legale dei migranti rinchiusi nelle due
strutture, cui viene impedito anche di comunicare liberamente con l’esterno.
Due ex operatrici di via Corelli hanno raccontato che “l’ente non garantisce ai
trattenuti acqua calda per lavarsi, riscaldamento, coperte, oltre a rifiutarsi
di pagare molti farmaci (tranne le benzodiazepine, gli unici farmaci che
permetteva di comprare). Le stesse hanno riferito che non sono mancati i
maltrattamenti nei confronti delle persone trattenute, che sembra venissero
definite ‘merde’ o ‘bestie’ o con un numero”. A questo si aggiungono le pessime
condizioni di lavoro dei dipendenti. “Le operatrici denunciano come perfino i medici
del Centro, così come chi si occupava del servizio mensa, non ricevessero lo
stipendio per mesi, e, conseguentemente, diversi prendevano la decisione di
dimettersi”, si legge nel report
Tra i
colossi della detenzione amministrativa nel nostro Paese non si può non citare
la multinazionale Gepsa (società controllata dal colosso energetico Engie) che
in Francia gestisce i servizi ausiliari di diversi istituti penitenziari e che
nel 2011 ha iniziato ad affacciarsi anche in Italia, affermandosi nel settore
dell’accoglienza con una “strategia aggressiva”: “Per mesi ha continuato ad
aggiudicarsi appalti offrendo un ribasso sui prezzi a base dell’asta dal 20 al
30% inferiori a quelli dei suoi concorrenti”, si legge nel report. Ottenendo
così la gestione dei Cpr di Roma (2014-2017), Torino (2015-2023) e Milano
(2014-2017).
Affari
milionari che proseguono ancora oggi. Gepsa, infatti, ha gestito il Cpr di
corso Brunelleschi a Torino (oggi chiuso a seguito delle proteste dei reclusi
che hanno reso inagibile le strutture) fino al marzo 2023: “In questo periodo
si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta”,
osservano i curatori del rapporto. Inoltre, si sottolinea come “le visite di
idoneità al trattenimento effettuate, non dal medico del Sistema sanitario
nazionale, come richiesto dalla normativa, bensì da personale sanitario
convenzionato con l’ente gestore”. Un evidente conflitto di interessi che
caratterizza tutto il sistema Cpr: il datore di lavoro, società o cooperativa
che sia, guadagna sulle presenze effettive (quindi per ogni persona che è nel
centro e non per il singolo posto messo a bando), avrà interesse nel tenere
reclusa la persona e non rilasciare anche se per ragioni sanitarie.
È
“italianissima”, invece, la cooperativa Badia Grande nata nel luglio
2017, leader nel settore soprattutto nel Mezzogiorno, dove ha
gestito hotspot (Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Messina),
Centri per l’accoglienza straordinaria (Cas) e negli ultimi anni anche Cpr. La
cooperativa è al centro di diverse inchieste giudiziarie. A Bari, dove Badia
Grande si è aggiudicata per cinque milioni di euro la gestione del Cpr,
l’accusa dei giudici è “frode nell’esecuzione del contratto di affidamento
servizi e forniture relativi al funzionamento del Cpr” con specifico
riferimento alla “fornitura del servizio di assistenza sanitaria”. Accuse
simili arrivano anche in merito al funzionamento del Cpr Trapani Milo tra il
2017 e il 2019.
I processi
riguardano Antonio Manca, l’allora rappresentante legale della cooperativa,
rinviato a giudizio dalle procure di Trapani e Bari problematizzando le
modalità di gestione dei centri. Proprio queste inchieste, a maggio 2023 hanno
fatto fare un “passo indietro” alla Prefettura di Trapani che nell’aprile 2022
aveva assegnato nuovamente a Badia Grande la gestione del Cpr attivo in città
con un capienza di 204 posti per una base d’asta di cinque milioni e mezzo di
euro. Sette mesi dopo, l’ufficio del governo ha però escluso la cooperativa
della gara per “omissione informativa” rispetto alle pendenze in corso che
interessano i membri di Badia Grande. Questa ha poi perso il ricorso al Tar
contro questa decisione. L’avviso di conclusione delle indagini, notificato a
Manca nel luglio 2021, non ha fermato la cooperativa neanche nel partecipare
alla nuova gara per l’hotspot di Lampedusa avvenuta pochi mesi dopo
e vinta con un ribasso del 18% rispetto alla base d’asta. Anche questa
esperienza, però, è stata disastrosa e nel giugno 2023 è subentrata la Croce
Rossa Italiana.
A fronte di
questo triste quadro, Cild sottolinea come la detenzione amministrativa in
Italia “lungo tutto l’arco della sua non-nobile storia si è caratterizzata per
l’essere un autonomo binario punitivo di cui possono essere destinatari i soli
migranti e cui corrispondono livelli di garanzie differenti rispetto a quelli
attribuiti al resto della cittadinanza”. Anche per questo motivo, un eventuale
passaggio di gestione nelle mani dello Stato, come previsto dal governo del
decreto cosiddetto Cutro varato a metà maggio 2023, non cambierebbe le sorti di
questi luoghi. “La detenzione amministrativa è un sistema drammaticamente
inumano e non rispettoso della dignità delle persone recluse -concludono i
curatori- […]. Una gestione totalmente pubblica non cambierebbe lo stato delle
cose e ci riporterebbe esattamente nel luogo da dove siamo partiti: in un buco
nero”.
Abuso di psicofarmaci nei Cpr: perché la versione del ministro Piantedosi non sta in piedi - Luca Rondi e Lorenzo Figoni
Intervistato da Piazzapulita sulle
terribili condizioni dei trattenuti nei Centri, il titolare del Viminale ha
provato a confutare i risultati della nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati”. Ma
le sue tesi non reggono: dalla presunta richiesta dei reclusi all’ipotizzata
presenza solo di persone con reati commessi durante la loro permanenza in
Italia
Giovedì 25
maggio su La7 la trasmissione Piazzapulita il
servizio di Chiara Proietti D’Ambra ha mostrato immagini
inedite sulle condizioni di vita delle persone recluse nei Centri di permanenza
per il rimpatrio italiani (Cpr). Il lavoro si è concentrato sulle strutture di
Gradisca d’Isonzo (Gorizia) e palazzo San Gervasio (Potenza) dando conto anche
dei risultati dell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata da Altreconomia ad aprile e che per
la prima volta ha quantificato, dati alla mano, l’abuso di psicofarmaci in
cinque delle nove strutture detentive attualmente attive in Italia.
Le immagini
e i dati sono stati mostrati anche al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
che ha risposto alle domande della giornalista Roberta
Benvenuto. Risposte lacunose, giunte tra l’altro prima in televisione rispetto
alle quattro interrogazioni parlamentari presentate più di un mese fa da
diversi senatori e deputati e tuttora rimaste inevase.
Il ministro
ha spiegato di “escludere nella maniera più categorica che vi sia un
orientamento della gestione dei Centri finalizzata alla sedazione di massa. C’è
una richiesta da parte degli ospiti. Fare il confronto tra le prescrizioni
all’esterno e all’interno delle strutture non ha senso perché è più facile che
nei Cpr si concentrano persone per cui quel tipo di prescrizioni si rivela
normale”. Come descritto nella nostra inchiesta, presentata alla Camera dei Deputati a inizio aprile con Riccardo Magi e Ilaria
Cucchi, l’utilizzo di psicofarmaci rispetto a un servizio dell’Asl che prende
in carico una popolazione simile è però spropositato: 160 volte in più a
Milano, 127,5 a Roma, 60 a Torino e così via.
Il confronto
è nato esattamente dalla necessità di quantificare un utilizzo di cui neanche
le prefetture hanno contezza per partire da un dato di realtà che vada oltre le
testimonianze dei reclusi. Piantedosi dichiara che non è significativo questo
confronto perché il “sovrautilizzo” è dovuto al fatto che all’interno dei
centri vi sono delle persone per cui quei farmaci sono necessari. Ma
nell’inchiesta abbiamo riscontrato un largo utilizzo di Quetiapina, Olanzapina
o Depakin, indicati nella terapia di schizofrenia e disturbo bipolare;
Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo
di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta); Rivotril.
Se questi
farmaci sono forniti tramite prescrizioni e non somministrati al di fuori di
quanto previsto dal foglio illustrativo, significa nei centri si trovano
persone con patologie psichiatriche gravi. Ma nel maggio 2022 una direttiva
dello stesso ministero dell’Interno aveva specificato che la visita d’ingresso
nel Centro per valutare l’idoneità alla “vita” in comunità ristretta nella
struttura deve escludere “patologie evidenti come malattie infettive contagiose,
disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possano
ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”. Delle due l’una: o le persone
non possono stare nei Centri per la loro condizione sanitaria, oppure i farmaci
vengono forniti off-label, senza cioè seguire un preciso piano
terapeutico…
“Perché i Centri di permanenza
per il rimpatrio devono indignare” - Giulia Vicini
L’avvocata Giulia Vicini, socia
dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, conosce bene i Cpr
e le condizioni di vita di chi vi è trattenuto. In particolare in quello di via
Corelli a Milano. Luoghi di privazione della libertà, con garanzie inferiori a
quelle della custodia in carcere. Stigmi cittadini. Il suo racconto
Cpr. A
dispetto del nome e dei nomi che lo hanno preceduto -Centro di permanenza
temporanea (Cpt), Centro di identificazione ed espulsione (Cie), e ora
l’acronimo sta per Centro di permanenza per il rimpatrio- si tratta di un luogo
di privazione della libertà personale. La stessa struttura di questi centri lo
dimostra: alte mura, filo spinato e telecamere sul perimetro. Presidio costante
di almeno quattro corpi di forze dell’ordine: esercito, carabinieri, polizia di
Stato e Guardia di Finanza.
I francesi
hanno trovato un nome per diversificare la privazione della libertà personale
dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio dalla detenzione nelle carceri
ed è “retention”. In Italia si parla di trattenimento amministrativo. Come lo
si voglia chiamare, si tratta della stessa privazione della libertà personale a
cui sono sottoposti coloro che sono stati condannati per avere commesso dei
reati. Chi sta nel Cpr non può andare da nessuna parte e risponde a regole che
sono proprie del carcere, nonostante siano diversi i presupposti per il
trattenimento e anche le garanzie e le tutele del trattenuto.
I trattenuti
nel Cpr sono cittadini stranieri in attesa dell’espletamento delle procedure di
esecuzione di un rimpatrio forzato. Tra i presupposti (quantomeno quelli
previsti dalla legge) per il trattenimento presso il Cpr vi è quindi anzitutto
di non avere o non avere più un titolo per soggiornare regolarmente nel
territorio nazionale, un permesso di soggiorno. Prendendo in prestito uno degli
alienanti nomi in voga nel dibattito pubblico, chi può essere trattenuto al Cpr
è “irregolare”. O, peggio ancora, “clandestino”. Ma, sempre in forza delle
norme di legge, l’irregolarità non è sufficiente perché si possa applicare la
misura del trattenimento presso il Cpr. È anche necessario che lo straniero sia
“espellibile”, che possa essere destinatario di un provvedimento di rimpatrio.
Questo perché l’ordinamento nazionale prevede delle ipotesi in cui il cittadino
straniero, pur non avendo un permesso di soggiorno, non può essere allontanato
dal territorio nazionale. È il caso dei minori, delle donne in stato di
gravidanza e -quantomeno fino alla recente riforma della protezione speciale- di
coloro che avevano maturato in Italia dei legami famigliari o sociali
significativi e degni di protezione.
Ulteriore
presupposto perché le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere al
trattenimento è che il provvedimento di rimpatrio comminato possa essere
eseguito con la forza. L’uso della forza e il trattenimento sono infatti
previsti come ultima ratio per garantire l’esecuzione del rimpatrio.
L’ordinamento disciplina delle misure alternative, meno afflittive della
libertà personale, quali ad esempio l’obbligo di firma e il ritiro del
passaporto.
Questi i
presupposti di legge. L’esperienza però ci mostra che nei Cpr vengono spesso
trattenute persone inespellibili o che potrebbero avere accesso a misure
alternative. Quello che è certo è che chi è trattenuto presso il Cpr non ha
commesso alcun reato, o quantomeno non è trattenuto per avere commesso un
reato. Il suo trattenimento è unicamente finalizzato a consentire alle autorità
di pubblica sicurezza di rimuoverlo forzatamente dal territorio.
Che il
trattenimento nel Cpr non sia conseguenza di alcun reato è tanto più evidente
se si considera che anche chi vi è trattenuto dopo avere espiato una pena in
carcere non lo è per “pagare” una pena -appunto già pagata altrove- ma per
essere identificato, in un sistema che si rivela incapace, o forse
disinteressato a procedere all’identificazione e al riconoscimento durante la
(spesso lunga) permanenza in carcere.
Per
riassumere, della popolazione del Cpr fanno parte coloro che entrano nel
territorio senza un titolo per l’ingresso o il soggiorno o che entrano con un
titolo trattenendosi però oltre la sua scadenza. Coloro che perdono un titolo
di soggiorno spesso per cause non a loro imputabili, quali la perdita
dell’occupazione. Ma anche i richiedenti asilo. Coloro che chiedono protezione
internazionale perché in fuga da persecuzioni e guerre.
Il decreto
legge 20/2023 convertito in legge 50/2023 ha peraltro reso il trattenimento del
richiedente asilo la norma ogni qualvolta la domanda è presentata “in
frontiera”. Dove il concetto di frontiera si amplia a dismisura ricomprendendo
territori scelti senza alcuna apparente ragione (si pensi ad esempio Matera)
con la conseguenza che alla domanda di protezione presentata in questi
territori seguirà un trattenimento. Le direttive europee prescrivono che il
trattenimento del richiedente protezione debba rappresentare una misura
eccezionale e che si debbano distinguere i luoghi di trattenimento perché
diversi sono i presupposti e diverse le procedure e le garanzie. Nondimeno i
richiedenti asilo possono essere trattenuti fino a dodici mesi negli stessi
luoghi dei cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio.
Quando e
quanto si può essere trattenuti nel Cpr? Sul quando, si è già detto, lo
straniero che viene portato al Cpr non è solo quello che è appena entrato in
Italia ma anche quello che si trova nel territorio da moltissimi anni e che nel
territorio ha costruito un percorso di vita. Sul quanto vale la pena
interrogarsi perché la disciplina degli stessi termini del trattenimento
dimostra l’esclusiva funzionalità alla conclusione di un procedimento -quello
di espulsione- che molto spesso le autorità non portano a termine. La proroga
del trattenimento, dopo i primi trenta giorni, può infatti essere consentita
dal Giudice di pace solo se “l’accertamento dell’identità e della nazionalità
ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”.
Il trattenimento può essere prorogato per altri trenta giorni solo se risulta
probabile che il rimpatrio venga eseguito. Il trattenimento non solo è
funzionale all’esecuzione del rimpatrio ma anche spesso determinato da
inefficienze o ritardi della Pubblica amministrazione.
Dove si
consuma il trattenimento ai fini del rimpatrio? Nonostante le nostre
preoccupazioni e la nostra indignazione riguardino spesso, legittimamente, i
Cpr, gli stranieri destinatari di misure di rimpatrio vengono trattenuti anche
negli aeroporti. In quella Malpensa in cui i titolari di passaporto italiano
transitano senza alcun ostacolo e in cui i cittadini stranieri a cui si
contesta di “non avere i documenti in regola” al momento del loro arrivo
vengono trattenuti anche fino a otto giorni, in aree sterili, senza vedere la
luce del giorno e senza avere accesso ai loro oggetti personali, e poi vengono
“accompagnati” all’aereo che li riporta a casa. Dall’entrata in vigore del
decreto legge 113/2018 è inoltre possibile trattenere presso dei locali all’interno
delle questure in attesa di rimpatrio. E negli uffici di via Montebello della
questura di Milano questi locali esistono e vengono comunemente utilizzati.
Infine,
quello che forse più deve indignare è come si svolge il trattenimento. Ai
trattenuti nel Cpr sono riconosciute garanzie inferiori a quelle della custodia
in carcere, tanto nel procedimento che porta alla privazione della libertà,
quanto nelle condizioni materiali di tale privazione. Il caso dell’utilizzo
della forza pubblica per l’esecuzione del rimpatrio di cittadini stranieri è
l’unico per cui -in alcune ipotesi- la legge nazionale esclude la necessità di
una convalida giudiziaria. Questo vale per i respingimenti “immediati” ai
valichi di frontiera e anche, con l’entrata in vigore del decreto legge
20/2023, per chi è destinatario di misure di espulsione di carattere penale.
Anche dove una convalida giudiziaria è prevista, la stessa è molto al di sotto
degli standard del giusto processo, con udienze che si svolgono da remoto,
senza concedere ai legali adeguato tempo per conferire con l’assistito, e hanno
una durata complessiva di poco più di un quarto d’ora. Nel procedimento di
convalida, inoltre, opera spesso un’inversione de facto dell’onere della prova
in cui lo straniero deve offrire prova documentale di tutto quello che deduce
mentre sulle dichiarazioni rese dalla Questura, parte istante, si fa cieco
affidamento.
Quanto alle
condizioni, l’ampia reportistica risultante dai sopralluoghi effettuati presso
i Cpr è più che eloquente. Lo straniero trattenuto non riceve alcuna
informativa sui diritti e sui servizi a cui ha titolo. Significativo è che lo
stesso venga identificato e arrivando nella sala colloqui con l’avvocato si
identifichi con un numero. Quando si iniziano a identificare le persone con i
numeri la storia ci insegna che non si arriva mai a nulla di buono.
Giulia
Vicini, avvocata, socia dell’Associazione per gli
studi giuridici sull’immigrazione
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