L'ennesima strage di Stato – di
mondo – colora di sangue e riempie di corpi morti – non bianchi, ovviamente –
il mar Mediterraneo. Ogni volta, dopo ogni strage, parte il coro delle
razionalizzazioni, delle analisi, delle critiche e delle giustificazioni, delle
scuse e delle infamie. Razionalizzazioni necessarie ad allontanare la bestiale
verità, che poi è umana verità, perché le bestie non organizzano deliberatamente
e razionalmente dei genocidi, che siamo degli assassini.
Il coro è breve, sempre più
breve, fino a nuova notizia di tragedia più vendibile, più click, con annessa
nuova necessaria razionalizzazione che ci permette di dire che comunque ne
parliamo, comunque ci sconvolgiamo, ci interroghiamo e tiriamo fuori analisi,
numeri, dati, giustificazioni. Senza ormai rendercene più conto sappiamo
affrontare i problemi solo in termini tecnici, burocratici, non sentiamo
i morti, l'abissale ingiustizia, la paura, il senso di colpa; troviamo le
cause, analizziamo le politiche, attribuiamo le colpe, discutiamo i trattati,
ma noi, noi dove siamo?
Dove siamo, mentre quei corpi
non bianchi affondano, si gonfiano, vengono mangiati dai pesci. Corpi di figli
e figlie, bambini piccoli, piccoli come i nostri, come quelli a cui sorridiamo
quando li incrociamo in piazza a giocare a palla; piccoli come quelli a cui
facciamo i regalini a Natale, come quelli che stiamo lobotomizzando a suon di
smartphone, che rimproveriamo quando fanno gli arroganti. Piccoli come quelli
che avrebbero tutta la vita davanti, se fossero bianchi, se fossero i nostri.
Se fossero bianchi e non avessero la sfortuna di finire in quegli squarci che
ogni tanto, sempre più spesso, si aprono anche nel mondo di “quelli che si
credono bianchi”, come dice lo scrittore afroamericano Ta Nehisi Coates: ci
crediamo bianchi finché non ci tocca la sfortuna di passare sul ponte senza
manutenzione che dava più dividenti agli azionisti; di dormire nella casa non a
norma in zona sismica; di trovarsi per caso a bere acqua che un'azienda ha
contaminato per decenni nel silenzio delle istituzioni; di incontrare davanti a
noi un Suv guidato da ragazzi poco più grandi, assassini vuoti cresciuti in una
società piegata dallo spettacolo demente e deanimato che insegna, stimola,
costruisce la violenza come riempimento e poi colpevolizza chi ha premuto il
grilletto.
Siamo tutti assassini: i bravi e
i cattivi, chi dà la colpa agli scafisti e chi allo Stato, chi, infame, sotto
sotto ci gode e chi ci piange; chi si arrabbia e chi alza le spalle; chi pensa ancora,
dopo decenni, “ma com'è possibile?!”, e chi da decenni denuncia il fatto.
Lo siamo tutti perché, malgrado
ormai non ci si guardi più negli occhi e tanto meno si discuta, siamo una
società. Volenti o nolenti, siamo parte di una dimensione collettiva, che può
chiamarsi umanità, Italia o Europa, anche se pensiamo sia carta straccia, o se
pensiamo sia la civiltà migliore mai esistita; siamo tutti assassini perché
abbiamo permesso che tutto questo accadesse e accada quotidianamente,
anche se abbiamo lottato per il diritto d'asilo o eravamo in piazza per
l'accoglienza e l'antirazzismo. Non è bastato e non basta. Non è forse quella
la via. Forse non bastava essere di più a quella manifestazione, dare più voti
a quell'altro partito. Forse dobbiamo andare noi più a fondo, siamo noi
a doverci inabissare, dentro noi stessi e dentro la nostra storia collettiva di
“europei”, di “occidentali”, e parlare con gli assassini che siamo, da tanto
tanto tempo. E stare male, deprimerci, soffrire e avere paura per quello che
siamo come società, senza tirare fuori scuse e razionalizzazioni di conquiste
mediche, di traguardi scientifici, di invenzione tecnologiche.
Dove sono i nostri figli e dove
sono i figli dei governanti, che si vedono per parlare nei parlamenti senza
sentire la morte che producono con le loro scelte, scelte umane.
Non ci rendiamo conto che le
nostre razionalizzazioni e i dibattiti sembrano la versione contemporanea della
“disputa di Valladolid”, quando nel 1550 esperti teologi e giuristi convocati
dall'imperatore discutevano la natura spirituale e giuridica degli indios:
hanno l'anima o non hanno l'anima? Possiamo sterminarli o dobbiamo solo
convertirli? Siamo ancora lì, con parole diverse.
Migliaia di corpi bambini, alti
un metro, con i sandali ai piedi, con un braccialetto al polso, una cicatrice
di una vecchia sbucciatura sul ginocchio, riempiono il mare in cui nuotiamo,
andiamo a vedere i pesci con la maschera, facciamo le crociere con i cocktail e
la musica e i massaggi e le serate a tema. Sono lì, nella stessa acqua, senza
barriere fisiche, gonfi, putrefatti, morti. E noi? Sentiamo questa “cosa”?
Basta, basta, basta. Dovremmo
non poterne più e dovremmo smetterla di “andare a casa”. Come dice Bergonzoni:
non possiamo andare a sentire parlare di diritti, di giustizia, di ecologia, e
poi tornare a casa; non possiamo continuare ad andare ai festival, applaudire
agli intellettuali, e poi tornare a casa. Forse inizieremo davvero a sentire
qualcosa quando non avremmo più una casa a cui tornare. Forse dobbiamo anche
noi perdere tutto.
“Eppure
lo sapevamo anche noi
L'odore delle stive
L'amaro del partire
Lo sapevamo anche noi...”
Gianmaria Testa, Ritals, 2006
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