Una sera ho
deciso di telefonare a Pierre, un mio amico d’infanzia.
«Ciao Pierre, come stai?»
«Ciao Lilian, bene e tu?»
«Senti, posso farti una domanda?»
«Dimmi.»
«Pierre, tu sai di essere bianco?»
Percepisco un’esitazione dall’altra parte del filo.
«In che senso? Non capisco…»
«Pierre, sei d’accordo che io sono nero?»
«Beh, sì.»
«Se io sono nero, tu cosa sei?»
«Beh… io sono normale.»
Sono scoppiato a ridere.
«Tu sei normale? Quindi io non sono normale?»
«No, non volevo dire questo…».
Questa
bizzarra, ma significativa, conversazione è riportata da Lilian Thuram nel suo
libro Il pensiero bianco, in cui riflette sulla percezione del
colore della pelle e sulle sue storiche conseguenze.
La pelle è
l’ultimo confine tra noi e il mondo, ciò che separa il nostro essere
dall’ambiente, ed è la prima cosa che vediamo di un essere umano al primo
incontro, ciò che lo individua. Per questo ha finito per assumere una così
grande importanza nella nostra percezione dell’altro. Non stupisce, quindi, che
i primi esploratori, incontrando genti diverse, rimanessero colpiti dal colore
della loro pelle. Il colore conta, conta molto, perché spesso associamo alle
diversità cromatiche significati profondamente culturali.
In una scena
del celebre film di Richard Attenborough Grido di libertà, durante
il processo al leader antiapartheid Steven Biko, il giudice accusatore si
rivolge al fondatore di Black Consciousness in tono provocatorio, dicendo:
«Perché vi definite neri? Siete più marroni che neri». «E voi perché vi
definite bianchi? Siete più rosa che bianchi» è la risposta di Biko. Come si
vede, però, non si tratta solo di una questione cromatica pura e semplice,
perché i colori non esistono di per sé. «Il colore deve essere visto» ha
scritto Walter Benjamin, esiste nel momento in cui il nostro cervello elabora
le informazioni che provengono dall’osservazione di un oggetto. In effetti, i
colori non sono come sono, ma come noi li percepiamo. «La sensazione del colore
è fisica; la percezione del colore è culturale», perciò, come ha detto Vasilij
Kandinsky, «il colore è un potere che influenza direttamente l’anima».
Peraltro, se
prendiamo in esame le prime forme di classificazione razziale attuate dagli
scienziati del diciottesimo secolo (ma ancora nel diciannovesimo), scopriamo
che si basavano fondamentalmente sulla collocazione geografica e sul colore a
partire da Linneo, che stabilì l’esistenza di quattro razze umane: Europeus
albus; Americanus rubescens; Asiaticus fuscus (luridus); Africanus
niger. Così, a partire dalle prime teorie razziali, il colore è diventato
un forte indicatore di differenza, che dal piano visivo si sposta a quello
culturale e politico. Inutile dire che a soffrire più di tutti di questa
discriminazione è stata la gente dalla pelle scura. La sua visibilità, nel
mondo dei bianchi, è già indice di condanna e inferiorizzazione a seguito di
secoli di persecuzioni subite, proprio da parte di chi ha la pelle chiara.
Possiamo
tranquillamente affermare che le espressioni razziste sono intrise, in modo
conscio o inconscio, del rapporto di forza tra Occidente e Africa. Così, in
Occidente il nero è il colore del lutto, da bambini ci spaventano con l’uomo
nero; inoltre, aggiunto come aggettivo, nero rende il concetto negativo,
illegale: lavoro nero, mercato nero, cambio nero, pagamento in nero… Le cose
non migliorano con l’utilizzo di un linguaggio politically correct:
infatti si usa l’espressione «afro-americano», ma nessuno si sognerebbe di
definire Robert De Niro «euro-americano» o Bruce Lee «asio-americano». Come
scrive Amin Maalouf: «Negli Usa avere antenati yoruba o hausa è indifferente:
sei nero. Per i bianchi avere origini italiane, irlandesi o inglesi è diverso».
I neri-africani sono tutti uguali, appiattiti e sovrastati nelle loro specificità
dal colore della pelle.
Anche quando
cerchiamo di addolcire il colpo, usando, eufemisticamente, ma sarebbe meglio
dire ipocritamente, l’espressione «uomo (o donna) di colore», di fatto pensiamo
solo ed esclusivamente a qualcuno che ha la pelle nera. Contemporaneamente il
pensarci bianchi ci esime dal fardello di essere di qualunque colore,
paradossalmente ci fa essere come privi di colore. Prendendo il colore della
pelle come metro di distinzione, da un lato si finisce per accomunare tutti gli
individui dalla pelle scura in un unico insieme, annullando le differenze (a
volte anche marcate) che intercorrono tra di loro; dall’altro si riducono tutte
queste persone a semplici corpi. La loro storia viene cancellata, le loro
aspirazioni, i loro pensieri anche. Sono solo ed esclusivamente dei corpi,
perlopiù estranei. È quello che Ta-Nehisi Coates, nel suo bellissimo e
accorato Tra me e il mondo, vuole dire rivolgendosi a suo figlio:
quel confine che separa i neri dal mondo dei bianchi passa proprio sulla linea
della pelle. Una linea che, nella realtà quotidiana, si traduceva nella
separazione sugli autobus, nei quartieri, per cui in seguito a una politica
immobiliare mirata, i neri erano costretti ad abitare nei ghetti, per non
parlare dell’apartheid sudafricano, dove ogni spazio era rigorosamente diviso.
Negli Stati
Uniti, dove la discriminazione razziale era legalizzata fino alla metà del
secolo scorso, è ancora diffusissima l’idea che sia scontata una dominazione
anglo-protestante sugli americani con il trattino. L’immaginario razzista crea
negli Stati Uniti una macchia indelebile: la linea del colore che trasforma il
nero in negro. Come afferma lo scrittore e saggista James Baldwin: «Non ci sono
negri al di fuori dell’America». Il negro, termine che assunse nel tempo una
valenza profondamente spregiativa, è uno dei frutti amari del razzismo, che
trasforma un dato di fatto epidermico, un colore, in una macchia di
inferiorità, che legittima ogni forma di sfruttamento e di esclusione. Al
contrario, essere bianco non si limita al colore della pelle, ma in molti casi
indica un modo di pensare a sé stesso come dominante. Essere dalla parte giusta
del confine, quindi essere normale, ecco cosa intendeva Pierre. Siamo ancora
lontani dalle speranze di Martin Luther King: «Io sogno che i miei quattro
figli piccoli un giorno vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per
il colore della pelle, ma per il contenuto della loro personalità».
Anche i
nativi americani hanno sofferto la linea del colore (oltre al fatto di essere
chiamati «indiani»), in questo caso ancora più fasulla. Infatti, tale
definizione (redskin) venne loro attribuita dai primi europei arrivati
nelle terre che abitavano, per il fatto che alcuni di loro usavano talvolta
dipingersi o decorarsi il volto con pigmenti rossi ricavati da terre o bacche
colorate. A partire dalle guerre dei coloni con le tribù native (fine
diciannovesimo – inizio ventesimo secolo) il termine «pellerossa» iniziò ad
avere un significato sempre più negativo. Successivamente molti western
hollywoodiani contribuirono non poco a diffondere l’immagine del pellerossa
cattivo e pericoloso, mentre al contrario celebravano le gesta di un criminale
come il bianco e biondo George Custer. Così come «negro» ha finito per indicare
nient’altro che pelle nera, anche «pellerossa» ha assunto con il tempo un
significato sempre più negativo.
Una cosa
simile è accaduta agli asiatici. Tanto ne Il Milione che nei
resoconti di Matteo Ricci, il gesuita del sedicesimo secolo che trascorse
lunghi anni in Cina, leggiamo che gli asiatici sono «bianchi». A cambiare
colore ai cinesi contribuirono alcuni resoconti di viaggio e in particolare l’Historia
del granreyno de la China scritto nel 1582 dal monaco agostiniano Juan
Gonzales de Mendoza, in cui si legge che la vastità della Cina fa sì che i suoi
abitanti coprano un ampio spettro di colori e che alcuni di loro siano
addirittura simili ai tedeschi chiari (rubios) e rossi (colorados).
Il termine rubio in realtà può essere tradotto con «chiaro», ma anche con
«biondo» e nella traduzione inglese quel rubio divenne yellow. Da
allora l’aggettivo si diffuse e gli orientali non furono più pensati come
bianchi, e tale pregiudizio venne ripreso nel diciottesimo secolo dai primi
scienziati, animati dallo spirito classificatorio del discorso scientifico.
Seppure con
conseguenze diverse e con altrettanto diverse modalità, il colore della pelle
finisce spesso per tracciare un confine, che trasforma un semplice dato
cromatico, dovuto a ragioni climatiche e di adattamento, pertanto non
dipendente dalla volontà umana, in un marchio da cui dipenderebbero le
caratteristiche culturali di un determinato gruppo. Si viene così a creare uno
dei pilastri su cui poggiano le principali manifestazioni razziste, per cui
l’altro è, innanzitutto, un individuo di colore diverso.
L’articolo riproduce un capitolo del
libro Confini, Edizioni Gruppo Abele, 2023
Si ringraziano gli autori e la casa editrice per l’autorizzazione a riprodurlo
Nessun commento:
Posta un commento