Ricordiamo che dal 1992 in poi, su mandato politico, l'Istat ha mentito sistematicamente sui dati dell'inflazione: mantenendoli più bassi del reale consentiva di pagare interessi minori sui Bot, di rivalutare meno le pensioni, di abbassare la scala mobile. Quando fu introdotto l'euro e i prezzi praticamente raddoppiarono d'un colpo (la parità nominale era 1 euro = 2.000 lire, la parità reale era 1 euro = 1.000 lire), l'Istat ebbe il coraggio di dirci che in quell'anno i prezzi erano aumentati del 4 o 5 per cento, se non ricordo male. Divenne un luogo comune dire che spendevamo in euro, ma guadagnavamo ancora in lire.
A detta dello stesso ex ministro Giulio Tremonti, l'introduzione dell'euro provocò la più colossale redistribuzione di reddito della storia repubblicana, a scapito dei lavoratori dipendenti (operai, insegnanti, infermieri, ma anche professori universitari, giudici o diplomatici) e a favore del cosiddetto «popolo della partita Iva».
Come il Giappone, quando è scoppiata la crisi del 2007, anche l'Italia non si era ancora ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda. Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli investimenti in grandi opere, all'acculturazione dei giovani, al mercato del lavoro).
Ma quel che è successo potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i favoritismi nei confronti del nostro paese avevano mascherato durante la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell'Italia, e cioè l'assenza di una classe borghese: in Italia ci sono moltissimi ricchi, come si è visto l'altro ieri a Cortina, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d'oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt'al più calciatori. L'assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote - sembra un'ovvietà - nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».
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