Proviamo a
immaginare una storia completamente diversa, dell'ultima settimana del Papa.
Una storia segreta, non confessata, non ufficiale.
A volte
capita, che un racconto fantasticato si avvicini al vero.
Immaginiamo
dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un'enciclica
scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all'enciclica non era
affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava,
era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal
1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri
drammi vedremo, con l'Egitto che sprofonda nel caos e nell'eccidio.
Così grave è
il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche
della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale - con precetti,
verità assolute - può apparire una distrazione, se non un'incuria. Si riempie
un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è
l'emergenza: andare in quell'isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro
disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c'è soprattutto bisogno, ha
detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo
scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette
a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell'indifferenza.
È come se il
Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O
meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non
teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come
Achab, il cacciatore della balena bianca in Moby Dick: di sotto al cappello
calcato, cade nell'oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva
tante ricchezze che valessero quella misera goccia». Perché dove c'è teologia
non c'è teofania: dove c'è ideologia si parla di Dio, ma Dio non si manifesta…
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