La
visita del Papa a Lampedusa
Ci
voleva un Papa, evidentemente.
Ci
voleva un Papa per dire quello che la politica non dice, per affermare un nuovo
umanesimo attraverso la parola e il corpo, nella solitudine di un abito bianco
in mezzo a quei corpi sfuggiti da guerre, fame e carestie. In mezzo ai visi
sporchi, cotti dal sole e dalla salsedine che solo per il calcolo delle
probabilità sono sbarcati su quell'isola e non sono, invece, affogati come
altre migliaia: sconosciuti, dimenticati.
Non
credo che ci sia calcolo nelle cose di questo Papa, c'è molto istinto, molto
rischio, molto caos interiore. C'è intuizione nello scegliere le parole, nella
semplicità del discorso, nella profondità del pozzo dove le pesca le parole.
Ma
più di tutto c'è il corpo che si fa messaggio e passaggio, incontro,
accoglienza, abbraccio, carezza.
E
c'è quel discorso sugli ultimi, quell'incontro ricercato, perduto e ritrovato
dalla Chiesa secolarizzata, dalla Chiesa del potere, degli agi, degli ori, dei
vizi.
E
non c'è un posto, nell'Europa mediterranea che significhi più e meglio di
Lampedusa le contraddizioni del mondo, un luogo dove si incontrano le miserie:
degli stranieri, degli autoctoni che tutto sopportano, degli apolidi, dei
clandestini, di chi solca il mare perchè speranza non ne ha più.
Un
luogo che è incrocio di mille altri luoghi, di onde che si attorcigliano alle
gambe del naufrago per ghermirlo ed affogarlo, un luogo che si fa destino, che
si fa galera e prigione secondo i dettami fascisti della legislazione italiana.
E
va lì questo Papa senza il codazzo dei politici in fila per una foto, ci va da
solo senza curia, senza gli approfittatori e parla con parole leggere, parole
d'amore, di tenerezza, di conforto…
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