Finalmente si è fatto vivo. Dopo oltre
un anno che lavoravo per lui come freelance, periodo in cui mi sono beccata il
tifo e un proiettile nel ginocchio, il mio editor avrà visto le ultime notizie
e, pensando che fossi tra i quattro giornalisti italiani brevemente rapiti a
inizio aprile, mi ha mandato una mail chiedendo: “Riesci a connetterti? Puoi
mandare tweet sulla situazione?”
La sera stessa sono tornata nella base dei ribelli che mi ospita, nel bel mezzo dell’inferno che è Aleppo, e tra la polvere e la fame e la paura, speravo di trovare un amico, una parola gentile, un abbraccio. Invece mi aspettava soltanto l’ennesima mail da Clara, che sta trascorrendo le vacanze a casa mia in Italia. Mi aveva già mandato otto messaggi con il titolo “Urgente!”. Oggi non riesce a trovare la mia tessera per la sauna, così da andarci gratis. Le altre mail erano del tipo: “Ottimo pezzo oggi; brillante come il tuo libro sull’Iraq”. Peccato che il mio non era un libro sull’Iraq, bensì sul Kosovo.
La gente coltiva quest’immagine romantica
del giornalista freelance che ha barattato la sicurezza dello stipendio fisso
per la libertà di seguire quelle storie che l’affascinano di più. Ma noi non
siamo affatto liberi; piuttosto, l’esatto contrario. La verità è che l’unico
lavoro che oggi mi sia capitato è quello di trovarmi in Siria, dove non vuole
andarci nessuno. E non si tratta neppure di Aleppo, per essere precisi; è la
linea del fronte. Perché gli editor in Italia non chiedono altro che il sangue,
gli scontri a fuoco. Io parlo degli Islamisti e della loro rete di servizi
sociali, le radici del loro potere – un articolo decisamente più complesso da
costruire di un racconto in prima linea. Mi arrovello per spiegare al meglio,
non solo per commuovere, per colpire chi legge, e mi sento rispondere: “Cos’è
'sta roba? Seimila parole e non c’è nessun morto?”
In realtà avrei dovuto capire come
stavano le cose quella volta che il mio editor mi chiese un pezzo su Gaza,
perché, come al solito, era lì che piovevano le bombe. Ecco cosa mi ha scritto:
“Conosci Gaza a occhi chiusi. Che importa se ora sei ad Aleppo?” Giusto. La
verità è che sono finita in Siria dopo aver visto le fotografie di Alessio Romenzi su Time, il quale era riuscito a raggiungere Homs seguendo le
condutture dell’acqua, quando nessuno aveva la più pallida idea di dove fosse
Homs. Guardavo le sue istantanee al suono dei Radiohead, quegli occhi che mi
penetravano, gli occhi delle persone massacrate dall’esercito di Assad, una
dopo l’altra, e nessuno aveva mai sentito parlare di un posto chiamato Homs.
Una morsa che mi stringeva la coscienza: dovevo andare immediatamente in
Siria.
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