Parafrasando Adorno, (La musica non è ideologia, ma può esserne fatto un
uso ideologico) direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lingue,
non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un
uso ideologico. Per quanto mi riguarda,
Parafrasando Adorno, direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lingue,
non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un
uso ideologico. Per quanto mi riguarda, non ho difficoltà ad ammettere che, nel
corso di questa conversazione, cercherò di demistificare l’uso ideologico
dell’italiano senza rinunciare all’uso ideologico del sardo. Ragioni di tipo
piuttosto privato mi inducono a coltivare vecchie incazzature nei confronti di
un modo di essere veicolato dall’italiano e a riproporre come ancora attuali le
risposte emotive pensate allora. Proprio per questo il discorso che vorrei fare
stasera non ha molte pretese. Poiché nasce da alcune riflessioni riguardanti un
certo ventaglio di “vissuti” personali, esso ha su di sé il peso di una
pregiudiziale fortemente orientata in senso soggettivo, e può valere più come
testimonianza che non come tesi depurata dalle particolarità della mia
esperienza individuale.
Mi chiedo, però, fino a che punto la dimensione dell'esperienza personale
non sia presente nelle cose che passano per essere forma paradigmatica
dell’astrazione e oltrepassamento per eccellenza del privato. Mi chiedo, cioè,
se davvero, nella genesi delle posizioni culturali meno compromesse sul piano
esistenziale, i vissuti personali non esercitino un peso riconoscibile e
un’incidenza oggettiva superiore al gioco degli occultamenti che gli attori di
quelle posizioni cercano di farne. In realtà, non vedo perché dovrei deprimere
come inezie le questioni che traboccano dallo zaino delle mie cose personali, o
perché dovrei impedir loro di spremere dal proprio interno quel tanto di
significato generale che le spiega come risultato di una
storia e dunque come conseguenza di situazioni che vanno ben oltre la mia
persona. Credo che ogni discorso a titolo personale sia sempre carico di
ulteriorità collettiva e che ogni volta che ci si guarda allo specchio ci si
trovi di fronte a un possibile altro che sente e pensa in modo non molto
diverso dal nostro e a cui possiamo dare in prestito, senza molti scarti, le angustie
e i compiacimenti presenti nelle pieghe di quell'immagine riflessa. Sul piano
storico-culturale ciascuno di noi è sempre se stesso e tre centomila persone,
così come, sul piano della propria differenza, ciascuno di noi è motivato da
ragioni che rassomigliano da vicino alle ragioni per le quali tanti altri
dissentono dall'omogeneità imperante di altre e in nome di qualcosa che si
autoproclama “unico” e “inconfrontabile”.
Sono sicuro, appunto, che quello che posso raccontare di me
stesso, rievocando le fasi
personali che hanno trasformato nel suo contrario l’iniziale vergogna di essere
sardo, possa essere raccontato di molti di voi e della maggior parte dei nostri
conterranei che abbiano vissuto i laceranti passaggi della transizione.
Io provengo da una famiglia linguisticamente schizofrenica che al pari di
tante altre famiglie sarde, ha interiorizzato lo spartiacque storico tracciato
dall'ultima guerra, facendo parlare italiano – e solo italiano – ai figli nati
dopo quella data. Per molto tempo, al suo interno, il paradosso è stato che i
primi tre figli parlassimo in sardo tra di noi e con i genitori e
parlassimo invece italiano con le due ultime sorelle, che tra di loro e con i
genitori, oltre che con noi, parlavano appunto la lingua imparata a scuola.
Solo più tardi, da grandi, anche loro sarebbero diventate bilingui, conservando,
è vero, l’abitudine dell’italiano, ma preferendo il sardo nelle situazioni più
delicate. Se cerco di spiegarmi questo fenomeno, so di poter trovare qualche
risposta convincente nella fisionomia dell’ ambiente socioculturale e
socio-linguistico in cui vivevamo.
Il nostro mondo era un piccolo agglomerato industriale – per la precisione
un cantiere idroelettrico della Società Elettrica Sarda – situato nel Capo di Sopra,
a una ventina di chilometri da Oschiri, ma un po’ a cavallo fra Logudoro e
Gallura. Luogo di molte provenienze etno-linguistiche, il Coghinas era un
microcosmo babelico che aveva accumulato maestranze specializzate in gran parte
cagliaritane e “continentali” (perlopiù venete e liguri), rigorosamente
estranee alla cultura e alla lingua del territorio circostante. Prima che
una koinè imposta come medium comune dal
forte divario delle diverse provenienze linguistiche, l’italiano era un segno
di separazione - distinzione dalle genti del luogo. Tra l’altro, in bocca ai
cagliaritani, che sapevano usare il sardo solo per raccontare le barzellette su
Peppinedda (un famoso omosessuale di queste parti), l’italiano diventava il
vessillo della sicumera etno-sociocentrica ostentata da questa aristocrazia
operaia nei confronti del contesto agro-pastorale della Gallura del dintorni, o
nei confronti degli oschiresi. Era la lingua della tecnologia più avanzata
che si opponeva al “dialetto” dei saperi circolanti nella nostra tradizione. Il
senso di tutto questo era molto esplicito e diventava addirittura corposo nel
modo di fare degli idioti più ingenui. Come metafora estrema di quella sicumera
ricordo il caso di un famoso coglione (un dirigente della SES) che si faceva
accompagnare a Chilivani per non prendere il treno a Oschiri. Ma c’è pure il
caso di un elettromeccanico assai abile nel suo mestiere che tenne a battesimo
l’ultimo nato di una famiglia dei dintorni presentandosi alla cerimonia vestito
con la sua tuta da lavoro. Insomma gli aspetti negativi del rapporto
città-campagna si riproducevano qui nelle loro forme più esplicite, anche se a
rappresentare il polo-città, in questo caso, era solo un frammento di quel
capitale industriale che stava “elettrificando” il sottosviluppo e illuminando
di sé le tenebre dialettali” dei ritardi storici.
Non occorre molta fantasia per capire come, in un orizzonte di questo tipo,
la parte sardofona della mia famiglia dovesse cadere sotto il mirino della
falsa coscienza italianofona e patire le sottili esclusioni ingenerate da
quella fenomenologia. Tanto più che nostro padre, uomo orgogliosissimo e di
rara intelligenza, riusciva a portare sempre all’incandescenza le contraddizioni
esistenti, rispondendo con disprezzo al disprezzo e sfottendo a morte le fisime
di modernità di questa aristocrazia operaia. Laddove gli altri si guardavano
bene dall’avere rapporti con la gente degli stazzi, la nostra casa era sempre
aperta ai galluresi di passaggio e ricordo di aver condiviso tante volte il
letto con ragazzi della mia età, sorpresi dalle tenebre in qualche loro
faccenda fra stazzo e stazzo o fra stazzo e paese. Benché il Coghinas fosse un
santuario dell’elettricità e della sua produzione, e mio padre fosse addetto
alla manutenzione delle linee dell’ alta tensione, gli elettrodomestici a casa
mia erano rigorosamente banditi. Mamma continuava a cucinare in sa
tribide, a conservare le cose deperibili in s’aposentu
friscu, a lavare in sa balza e a fare il pane in
su fùrru a linna. E io dovevo giocarmi un bel po’ delle vacanze
estive per aiutare mio padre a far la provvista di legna nelle boscaglie
di chessas e aliderros. Se so ancora
maneggiare la roncola con la normale abilità di un boscaiolo, lo devo alle
reiterate campagne tardo-estive vissute con babbo tra Corrapala e
la punta di la Cisterra, a due passi dal crinale che apre il varco verso punta Lanzinosa. Cucina-economica,
frigorifero e radio sarebbero entrati molto più tardi, quando io e mio fratello
eravamo già al liceo e quando nelle altre famiglie televisore e microonde erano
già cosa vecchia. Il riscaldamento elettrico non riuscì mai a sostituire sa
ziminera, benché negli ultimi anni di Coghinas fosse diventato
difficile trovare un carro a buoi che facesse il trasporto della legna dal
punto di raccolta a casa. L’ostinazione passatista di mio padre si sarebbe
piegata solo più in là, quando l’impossibilità di ricorrere al carrulante di
sempre avrebbe cominciato ad aprire il varco al trattorista. Solo a quel
punto, i kilowatt della bassa tensione si riconciliarono con lo specialista del
70 mila che alimentava l’arsenale di La Maddalena, e anche a casa mia fu
accettata qualche stufa a tre candele.
Di tutto questo, naturalmente, noi ragazzi ci vergognavamo, così come ci
vergognavamo delle mutande che babbo ripiegava fuori dai calzoni, a formare una
sorta di fascia in luogo della cintola. Invidiavamo molto i nostri compagnetti
per la “signorilità” dei genitori e per l’ascolto che essi sapevano prestare ai
desideri dei figli o per la prontezza con cui sapevano accogliere le esigenze
della famiglia. Le mie otto biciclette di oggi, per esempio, la dicono lunga
sulla frustrazione di allora a proposito di una richiesta rimasta allo stato di
desiderio. In realtà non sapevamo ancora renderci conto che, a differenza di
babbo, nessuno di questi genitori “signorili” si sarebbe fatto in quattro per
far studiare fuori i propri figli. Né sapevamo ancora apprezzare le notevoli
capacità narrative di cui babbo ci dava quotidianamente prova, intrattenendoci
con racconti di cui nessuno di noi ha perduto il ricordo. Se i genitori degli
altri sapevano raccontare solo qualche modesta barzelletta, babbo era in grado
di incantare per ore con un modo di conversare educato sul respiro e sui ritmi
della grande affabulazione nostrana. Inevitabilmente, quando parlava lui, tutt’attorno si veniva formando un orizzonte di attesa, con gente accovacciata sui
tacchi o sdraiata sulle panche, perché si sapeva che la cosa non sarebbe stata
fugace. Per molti anni i dopocena estivi del Coghinas hanno avuto come punto di
convergenza la soglia di casa mia e i racconti di mio padre, malgrado le
riserve che le mutande fuori dai calzoni e i molti passaggi in sardo
suggerivano alla maggior parte degli ascoltatori.
Più che la gradevolezza dei racconti appena sentiti noi interiorizzavamo,
però, la percezione di quelle riserve e andavamo ingigantendo l'irritazione
per la “diversità” a cui ci incollava l’anticonformismo del modo di essere di
babbo. Era ovvio che ci vergognassimo anche del nostro sardo e che
incoraggiassimo le piccole a sbrigarsela con l’italiano. Anzi, nell'elementare
dialettica operante a livello della nostra coscienza adolescente (ma operante
di fatto anche nelle orribili semplificazioni che dominavano l’ideologia
ufficiosa veicolata dalla gente del cantiere), il sardo passava per essere
l’habitus più ovvio dell’arcaico, del sottosviluppo, della rozzezza, mentre
l’italiano aveva in sé tutte le connotazioni dello sviluppo, dell'emancipazione,
della modernità, ecc. Insomma, se il sardo ci pesava come un marchio,
l’italiano ci sembrava addirittura un orizzonte del desiderio.
Quanto tempo è dovuto passare perché tutto questo cambiasse di segno e si
trasformasse in un sentimento diverso? Non saprei dire con precisione, ma ho
la certezza che il passaggio abbia cominciato a verificarsi in coincidenza con
il recupero di nostro padre e con il riconoscimento crescente della sua
figura. C’è stata una fase (l’avvento dell’età della ragione) in cui, per
esempio, le vecchie ulcerazioni provocate in noi dal suo divieto di entrare
nell'organizzazione locale dei boy-scout cominciarono a trasformarsi in
fierezza. E cominciarono ad apparirci epiche le sue battaglie per resistere
(unico al Coghinas) alla corale pressione di capi e capetti a favore del nostro
mascheramento. Cominciammo a essergli molto grati per non aver acconsentito a
darci in pasto a quella patetica coglionata arrivata da lontano. La metanoia
genealogica, insomma, è stata pure una metanoia sul piano della nostra
autocoscienza culturale.
Senza dubbio, a valle di quel crinale ha incominciato a svilupparsi una
lenta riflessione di messe a punto sul problema del perché la nostra identità
di sardi abbia depressivamente interiorizzato l’egemonia del quadro assiologico
simboleggiato dall’italiano. E mi sono a poco a poco reso conto che una vicenda
come la nostra era un riverbero della più generale vicenda che coinvolge la
sardità dei sardi, imponendo loro un atteggiamento di autosvalutazione
rispetto all’acritica stima che si è sempre disposti ad avere degli altri. Mi
sono reso conto, cioè, che la nostra identità è fondamentalmente debole e che
basta un nulla per indurci a preferire il mondo del nostro interlocutore di
turno, piuttosto che quello che abbiamo alle spalle. Ma il problema
dell’identità debole faceva corpo unico col problema della “vergogna di sé”, su
cui con crescente insistenza andava a convergere il giro delle mie riflessioni.
Proprio per questo, nella conversazione di stasera, vorrei fermare l’attenzione
su tale nesso, assumendolo come punto di partenza e come pretesto per altre
considerazioni.
Intanto una domanda. Perché i modelli che ci seducono sono quasi sempre
eurocentrico-occidentali e quasi mai mediterranei o orientali? Perché mai
l’italiano che ci sembra bello è sempre caratterizzato dalle parlate
settentrionali e mai da quelle che si incontrano nel Mezzogiorno? La risposta è
ovvia e rimanda in modo necessario alla geografia storica e alle dislocazioni
che hanno caratterizzato le forme di potere con cui abbiamo avuto a che fare in
tempi recenti. Ma dovrebbe rimandare – a maggior
ragione – a quell’ altra forma di potere che continua a essere operante
anche quando l’egemonia politico-statuale del dominatore di turno è venuta
meno. Mi riferisco evidentemente al potere del capitale e alla sua capacità di
modellare le coscienze e la vita, lavorandoci ai fianchi attraverso la sfera
dei bisogni. Di quelli che abbiamo realmente e di quelli che, per
“svilupparci”, dovremmo avere. Ora, da quando ha cominciato a dare nuova
articolazione al vecchio rapporto città-campagna, il capitale è stato
tendenzialmente settentrionale ed eurocentrico, e parlare della contrapposizione
fra nord e sud, tra capitale e lavoro, tra modernità e persistenza, significa
in fin dei conti parlare sempre della stessa cosa. Di fatto, il nord che ci
seduce ha un piglio capitalistico e parla il linguaggio del valore-in-processo,
il linguaggio della merce e del consumo, con tutti i significati deculturanti
che devono poter appartenere alle dinamiche dell'obsolescenza, dello sviluppo
delle forze produttive e dei molti mutamenti che ne costituiscono il
corollario. E se è vero che il capitale ha sempre avuto antipatia per le
persistenze e per gli specifici che vi si arroccano, è facile capire le ragioni
per le quali, tra una cultura periferica e una cultura di portata nazionale,
esso si faccia sostenitore di quest’ultima e metta alla berlina la maggior
parte delle cose che appartengono alla prima. La dimensione linguistica,
evidentemente, non può restare estranea a queste dialettiche e anzi si presenta
come la dimensione che conferisce una forma immediatamente sensibile alle
frizioni implicite in tali fronteggiamenti. Che le lingue minoritarie siano
viste come una condizione che inceppa lo sviluppo dello “sviluppo” abbiamo
incominciato a capirlo con certo nitore da quando il progetto di egemonia
continentale della borghesia napoleonica privilegiò al massimo il linguaggio
internazionale del Neoclassicismo come strumento catalizzante del processo di
circolazione della produzione francese. Se non si perde di vista il fatto che
la Francia di quel momento era l’epicentro (o almeno uno dei due epicentri)
dell’Europa capitalistica, diventa facile capire come, nel contesto di un
continente molto ancorato alla persistenza, battersi per la circolazione delle
merci francesi voleva dire battersi tout-court per l’affermazione del modello
capitalistico dello sviluppo. Anzi, non è un caso che Napoleone, al fine di
aggirare l’ostacolo del localismo ingenerato dalla geografia degli specifici
nazionali, si sia spinto a progettare l’introduzione di una lingua
superinternazionale equivalente all’esperanto. Non credo che sia necessario
spremere a fondo il senso di questo caso storico per convincersi che il capitale
è sempre stato interessato a rovesciare la resistenza degli specifici
e a sbarazzarsi delle lingue poco aperte alla circolazione. E non occorre
un particolare sforzo per accettare l’equivalenza con l’esperanto napoleonico
che l’italiano verrebbe a giocare nel suo rapporto oppositivo col sardo. Tutte
le dialettiche della deculturazione che il neo classicismo illuministico e
l’egemonia internazionale del francese pretesero di esercitare allora sulle
varie lingue nazionali si ritrovano senza differenze di grado nel rapporto di
egemonia che le lingue nazionali cercano di esercitare sulle lingue
minoritarie di volta in volta comprese nello spazio culturale della propria
geografia.
Ma torniamo sui nostri passi. Se il capitale sembra poter appagare meglio de
su connotu gli orizzonti del desiderio, e se è vero che si presenta
sempre molto carico di promesse, non c’è difficoltà a capire le ragioni per le
quali le sue capacità di seduzione riescono a sedurre la debole identità dei
sardi. I ponti d’oro che ogni cedimento della nostra espressività “dialettale”
prepara all’avvento dell’italiano sono ponti d’oro che ciascuno di noi,
vergognandosi della propria differenza, ha contribuito a preparare. Non mancano
naturalmente i benemeriti dell’ agitprop a favore della modernità, gli “eroi
culturali” della dilagante avanzata dell’italiano liberatore. Tornando al mio
paese e al Coghinas, ho sempre sognato di infilzare alla propria infamia la
memoria dei personaggi che si caricarono di gloria introducendo nella Oschiri
degli anni trenta il genere della canzonetta italiana e la moda del liscio.
Ho sempre sentito raccontare da mia madre di quando, al Coghinas, la
gestora oschirese di una foresteria aperta ai foranei, ma particolarmente
riservata agli ingegneri e ai tecnici che venivano da Cagliari, si rifiutò di
accogliere una comitiva di avventori locali che volevano bere un bicchiere in
compagnia e ascoltare Maria Rosa Punzirudu, ospite in quel momento del fratello
e disposta a cantare per gli amici. La notizia della presenza di Maria Rosa si
era diffusa a Oschiri e una lunga fila di gente in bicicletta era approdata al
cantiere per ascoltare la mitica voce della cantadora ozierese.
La spiegazione di quella gestora fu che non avrebbe mai declassato il suo
albergo lasciando che vi si cantassero cose da zilleri. Io
stesso, peraltro, sono stato testimone di altri eroismi culturali, come quando,
sempre al Coghinas, in occasione di una festa di Santa Barbara, il comitato dei
soliti ariste-operai respinse l’offerta di Luigino Cossu che, in omaggio della
comare-ospite, aveva proposto di esibirsi nella sua esaltante disispirata.
La comare-ospite era poi mia madrina, e da lei venimmo a sapere dello
sdegno omerico di Luigino nei confronti di quella ghenga di imbecilli, che
giammai avrebbe interrotto la squallida band arruolata a
Sassari per dare spazio a un astro del canto sardo. .
Ho sempre pensato a questi episodi ogni volta che mi è stato necessario
trovare una metafora calzante della nozione di “vergogna di sé”, e davvero non
mi riuscirebbe di inventare situazioni più convincenti per dire con altrettanta
pienezza di quanta miseria sia impastata la presunzione di modernità operante
in questa inquietante sindrome. Per contrasto – percorrendo al rovescio il
filo di una matassa tematica come questa – mi viene da pensare alla finezza
delle persone che, per voler fare a Salvatore Cubeddu un regalo di nozze
indimenticabile, offrirono a lui e alla sposa un accompagnamento all’altare
suonato dalle launeddas di Dionigi Burranca. Il maestro di
Ortacesus era già avanti negli anni, ma ancora si la podiat.
Nella “vergogna di sé” patita da molti sardi, l’ago della bussola
coscienziale fibrilla, come si diceva, verso il nord. Che cosa si potrebbe
rispondere a questa vocazione? Posto che si accetti di giocare sullo stesso
piano ideologico (cosa che, a dire il vero, non è molto gradevole), c’è qualche
argomento che potrebbe essere usato come orgogliosa affermazione di
un’appartenenza in grado di far apparire piccola e modesta la mitologia di
questo nord? Io credo che richiamarci ai due o tre nord che abbiamo alle spalle
sia sufficiente, oltre che legittimo. In un passato di cui siamo a vario titolo
eredi, il nord del mondo si chiamava Islam. E, poco più in là, si era chiamato
Bisanzio. Retaggio bizantino e retaggio arabo sono entrati in modo profondo
nelle pieghe coscienziali del nostro modo di essere interagendo forse con i
sostrati di altri nord del mondo mediterranei da cui eravamo stati in
precedenza segnati. Non sto parlando di cose di poco conto, se è vero che è
difficile pensare a forme di civiltà più raffinate di quella bizantina e di
quella islamica. Per non parlare delle civiltà anticoorientali e mesopotamiche
da cui cominciano a derivare le nostre origini. A confronto con questi nord del
passato, il nord capitalistico-occidentale che polarizza le attenzioni di tutti
i sardi che si vergognano di essere tali sfigura in maniera clamorosa. Est
comente a ponnere su cuccu cun Deus.
Provate a pensare alla sbrigatività semplifìcatoria ed estremamente
riduttiva che caratterizza l’ethos dei rapporti intersoggettivi nelle società
occidentali e cercate di misurarla con l’ethos circolante nella raffinata
ritualità che regola la vita delle società mediterranee di età bizantina e di
età islamica. Il risultato è decisamente svantaggioso per il tipo umano che
oggi ci viene propinato dagli strumenti della seduzione e dai fabbricatori di
modelli. E si tratta di un risultato che non migliora le sue posizioni se, dal
tessuto delle situazioni ritualizzate, passiamo al tessuto più specifico della
cultura e a quello delle manifestazioni del pensiero. Non vi è mai capitato di
provare imbarazzo di fronte alla disinvolta ricchezza di attenzioni che
qualsiasi senegalese è in grado di manifestare nei vostri confronti quando il
discorso cade sulla famiglia o sulla salute o sugli amici? Non vi siete accorti
che lui può attingere a un codice del saper-trattare-con-gli altri di gran
lunga più elaborato del nostro? Bene: questo è l’Islam. Ma è importante sapere
che noi non eravamo diversi e che forse, con le ulteriori complicazioni della
cultura bizantina, avevamo molte probabilità di essere un concentrato anche
più intenso di premurosa attenzione per le ragioni dell’altro. Perché mai ai
costumi raffinati di una volta abbiamo accettato di sostituire i costumi
dell’incredibile inciviltà che domina nel modo di essere delle civiltà plasmate
dalle logiche del valore? Perché mai dovremmo preferire di modellarci secondo
le forme che piacciono al ragioniere milanese piuttosto che continuare a essere
come eravamo? Senza dubbio troppa acqua è passata sotto i ponti della storia
per poter presumere di ritrovare nella nostra identità di oggi i tratti
integrali di quel che siamo stati ieri e avantieri. Ma, come testimonia lo stile
di vita dei nostri anziani, le tracce di quel passato sono tutt’altro che
cancellate e possono essere riconosciute qua e là, tra i sopravvissuti
frammenti di una disgregazione che è cominciata da lontano. E che altro sarebbe
la lunga sequela di saluti e di auguri con cui mia madre apre e chiude le sue
conversazioni al telefono, quando nella chiamata rituale del sabato sera si
informa puntualmente della nostra salute, passando in rassegna anche le
condizioni del gatto di casa? A dire il vero, quest’ultimo non c’è, ma sono
certo che se ci fosse entrerebbe di diritto, anche lui, nello sviluppo di quella
rassegna.
Tutto questo, però, non è che fenomenologia della superficie. Se scendessimo
nei labirinti della coscienza e del pensiero, le tracce del passato
diventerebbero più consistenti. A cominciare dal fatto che non è possibile
stabilire sintonie reali tra l’analisi logica utilizzata dal pensiero binario e
l’analisi metalogica utilizzata dalle forme di una razionalità che ama affermare
negando, diventa evidente che le nostre rappresentazioni del mondo e il nostro
modo di rapportarci al mondo gravitano ancora su un certo numero di centri
focali provenienti dai labirinti della coscienzialità bizantina e islamica.
Basta pensare al senso di doverosità problematica che è presente in maniera
dilagante nelle strutture della nostra lingua, o fermarsi a riflettere sulla
metafisica del possibile che caratterizza il modo di definire l’azione da parte
del congegno verbale di cui disponiamo. Ma riferiamoci anche alla nozione di
tempo, o all’architettura formale del narrare che prevede sempre un far
partire da lontano la ragion d’essere di qualsiasi dettaglio. A proposito di
quest’ultima, anzi, occorre dire che il senso della necessità invade con una
cogenza fatale tutti gli spazi dell’ accadere, togliendo al fortuito ogni
possibilità di ingerenza. Oserei dire che, nella visione del mondo dei sardi,
il neoplatonismo plotiniano era cosa già iperdigerita quando Hegel vi ha
costruito sopra le linee portanti del suo sistema. In realtà, quando si dice
che il sardo è fungudu si allude soprattutto alla
inestricabile commistione di questa serie di elementi.
Non so se ci si rende conto del fatto che stiamo parlando di un tipo di
uomo che è tra i più complessi fra quelli che ancora si muovono nell’ecumene.
Non so se si percepisce fino in fondo la portata del torto che il sardo fa a se
stesso vergognandosi di essere sardo. Da quando le ragioni della “vergogna” si
sono trasformate in ragioni di orgoglio, mi riesce insopportabile la sicumera
di chi, dall’alto di chi sa che cosa, dice di non sapersi ritrovare nelle
angustie di ciò che è sardo. Ma ancora più odioso è l’atteggiamento di coloro
che escono dalla sindrome riaccettandosi attraverso gli occhi degli altri.
Questa forma di identità di accatto è la manifestazione più squallida della
mercificazione della propria differenza, come può facilmente dimostrare la
propensione esibizionistica che caratterizza le modalità di riaccettazione
folkloristica della propria immagine. Certo, in tutta la fenomenologia dell’
atteggiamento “vergognoso di sé”, non c’è nulla di più segnato dalla
“vergogna’, perché ci si decide a riaccettare l’immagine di se stessi solo per
una graziosa concessione accordata dall’esterno. [identità qui è in gran
parte falsa, e bisognerebbe parlare di una identità ottriata, poverissima di
autonomia e di imperativi profondi. In sostanza, rassomiglia troppo alla
libertà condizionata del pregiudicato: basta un nulla e siamo alla sua revoca.
Eppure – per strano che possa apparire – anche la “vergogna di sé” è una
conseguenza della nostra raffinatezza, e deriva in modo più o meno diretto
dallo stesso tipo di ragioni che mettiamo in campo quando si tratta di
fronteggiare sulla base di ben altra nobiltà la banale mitologia che seduce la
maggior parte dei sardi. Direi che è una forma implosa e autodepressiva della
nostra civiltà, un epifenomeno indesiderato dell’accumulo di retaggi su cui si
è venuta formando la nostra fisionomia. Proprio la capacità di comprendere
l’altro e di saper accettare le sue ragioni è diventata una condizione che ha
contribuito a indebolire la nostra identità, almeno perché ci ha lasciati
abbastanza disarmati nelle situazioni nelle quali il confronto non è stato più
paritario e dialogico, come poteva accadere nelle civiltà della tolleranza,
allorché la mediazione riusciva a evitare le soluzioni di forza. Di fronte alle
forme di potere incapaci di mediazione, noi siamo rimasti senza parola e senza
passato, vittime di quella stessa “paralisi da inaccessibilità” che giocò le
civiltà precolombiane, quando la rozzezza dei conquistadores le
fece precipitare in un abisso di non-senso prima che in un lago di sangue.
Annullati dallo sgomento, a poco a poco ci siamo spogliati delle nostre
ricchezze, perché ritenute inutili, e abbiamo incominciato a recitarci
imitando le inflessioni delle truppe d’occupazione aqquartierate nei nostri
paesi. A partire da questo punto, la disgregazione dell’identità non avrebbe
potuto non essere fatale, come lascia capire la miscela esplosiva di mimetismo
e dissimulazione di sé che la falsa coscienza è venuta innescando. La
condizione primaria per una buona riuscita della mimesis diventava,
naturalmente, il distacco dalle radici e l’insofferenza per tutto quello che
rischiava di tradire le nostre origini. È triste che si sia potuto arrivare a
queste forme di autonegazione partendo proprio dalle cose che ci fanno apparire
alte le ragioni per le quali vale la pena di farci sostenitori della nostra
differenza.
(Questo testo è la rielaborazione della conferenza svolta dall’Autore nel
1998)