giovedì 31 agosto 2023

Come lavora la propaganda per l'uscita dell’Italia dalla Via della Seta - Eusebio Filopatro

 

Riceviamo e volentieri rilanciamo un articolo di Eusebio Filopatro, vittima della solita aggressione dei media "liberi" per una sua riflessione pubblicata sul Global Times.


“Sogno un mondo dove gli scrittori, obbligati dalla legge, devono tenere segreta la loro identità e usare uno pseudonimo.” Così il compianto Milan Kundera ne L’arte del romanzo.

In quelle pagine, Kundera parlava soprattutto dei romanzieri, e la sua preoccupazione era evitare lo stridulo ed egotistico ritornello: “come scrivo nel mio libro…” Kundera notava che, giunti al compiaciuto “mio libro” la voce scarta di un’ottava.

Ci sono però altre ragioni valide, e ben più politiche, dietro alla scelta dell’anonimato, o dello pseudonimo.

Ad esempio, l’Economist pubblica tutti gli articoli anonimamente, con poche e specifiche eccezioni, dalla sua fondazione nel 1843, ovvero da 180 anni. Uno dei suoi editori (1938-1956), Geoffrey Crowther, così giustificava questa linea: il giornalista “non è il padrone ma il servitore di qualcosa di gran lunga più grande di sé stesso… [l’anonimato] concede allo scritto un sorprendente slancio di pensiero e di principio”. Più succintamente, come scrive – anonimamente – l’Economist: “ciò che si scrive conta più di chi lo scrive”.

Allora vien da chiedersi: perché l’anonimato del mio articolo sull’uscita dell’Italia dalla Via della Seta ha attratto le critiche degli “esperti di propaganda”?

Logicamente, se l’intento è quello di identificare e screditare le fake news e promuovere la libertà di pensiero e dibattito, l’attacco è assurdo, e diametralmente controproducente.

Gli effetti di questo degrado nel dibattito pubblico sono tanto gravi quanto evidenti. Da un lato disturbando il lavoro di chi ricerca, riflette, e dibatte, e riservando il campo ai plaudenti “esperti di propaganda”, i decisori si privano dei necessari riscontri critici per correggere errori potenzialmente disastrosi. Come dire, se copro lo specchio perché ingeneroso finirà che prima o poi esco di casa con qualcosa di ridicolo indosso. Dall’altro, sempre più persone si renderanno gradualmente conto che la narrazione è monofonica, e alla lunga gli esclusi, gli emarginati, e poi molti altri si domanderanno se davvero la nostra società sia sincera nel proclamare determinati valori, oltre che più pluralista e migliore di altre.

Chiedersi “chi si nasconde dietro a Eusebio Filopatro” è invece perfettamente razionale se chi pone la domanda ha altri ed opposti obiettivi.

Anzitutto, il Global Times stampa quotidianamente 2 milioni e 600 mila copie, le sue pagine sono viste da 8 milioni di utenti al giorno, e i suoi social media contano qualcosa come 100 milioni di followers. Non esattamente i numeri di Formiche, con ogni rispetto per una pubblicazione che talvolta leggo anch’io. Insomma, accusare chi vi scrive, sia pure sotto pseudonimo, di “nascondersi”, appare ad un esame obiettivo abbastanza ridicolo, ma perfettamente comprensibile quale tentativo di screditarne le idee. In realtà chi si “nasconde” sta zitto, o pubblica di comodo là dove conviene farlo, o per un pubblico selezionato.

Dunque un chiaro intento è quello di screditare l’articolo e l’autore, accusato di “nascondersi”. Che poi qualche ingenuo lettore possa non rendersi conto che tutti i maggiori giornali pubblicano pezzi anonimi e pseudonimi alla bisogna, è solo un indice del degrado del dibattito critico sulla stampa occidentale.

Un obiettivo ancora più evidente, almeno per chi scrive, è quello di intimidire. “Ci interessa sapere chi sei”. Naturale preludio all’allusione: “lo sappiamo già. E se ci pare veniamo pure a prenderti”.

Dopo quanto abbiamo letto sull’NSA, grazie a Edward Snowden e compagni, e avendo davanti agli occhi l’integrazione crescente tra apparati di “informazione” e di stampa, servizi segreti, interessi politici, industriali e personali, sembra ragionevole supporre che, quando i mentori della politica estera di Giorgia Meloni si domandano su Twitter chi io sia, essi in realtà già lo sappiano, o possano perlomeno scoprirlo agevolmente.

Sulla base dei principi che l’occidente indica come moralmente e legalmente imprescindibili, dovrei comunque dormire sonni tranquilli. Neanche un secolo fa, il premio Nobel George Bernard Shaw viveva apprezzato e indisturbato nonostante la sua sperticata e pubblica ammirazione per Stalin. E questo in piena Guerra Fredda.

Sulla base dell’attualità, però, pare che persone indubbiamente competenti come Alessandro Orsini o Elena Basile non possano divulgare delle importanti ovvietà sul conflitto russo-ucraino senza che qualche esaltato con la schiuma alla bocca li additi come traditori. O perlomeno arriva qualche “moderato” che invita a trasferirsi in Siberia: “Ma non si tratta di un insulto, è piuttosto un buon consiglio da amico”, chiosano, come Herr Pompetzki. Insomma, meglio non essere troppo ottimisti.

Quindi questo messaggio intimidatorio verso un anonimo, cioè verso chiunque proponga un’opinione politica divergente, è un’altra delle possibili spiegazioni dell’altrimenti futile domanda “chi si nasconde dietro Eusebio Filopatro”. Non tralasciamo poi l’usuale morbosità giornalistica verso le vite degli altri.

C’è altro? Forse sì.

Non rinnovare il memorandum d’intesa tra Italia e Cina è una decisione cruciale per il futuro economico e politico del nostro paese, sia che essa sia stata presa a Washington o a Roma. Sottrarla non solo al dibattito parlamentare, ma addirittura all’opinione pubblica, appare pertanto corrispondentemente grave. Alla luce di un tale orientamento, è perlomeno lecito chiedersi se mettendo nel mirino la persona non vi sia anche l’intenzione di distrarre dai fatti e dalle questioni sollevati nell’articolo, e che qui riassumo a favore dei lettori e dei nostri decisori politici, nel caso questi vogliano finalmente chiarire:

1) Dopo 11 pacchetti di sanzioni sostanziali, l’economia russa cresce più di Gran Bretagna e Germania, e questo a detta del Fondo Monetario Internazionale (che risiede a Washington). Non vi sono nemmeno segni di cedimenti sul campo, o più generalmente militari. Quali sarebbero allora gli obiettivi concreti del rapsodico “de-risking” o “de-coupling” che si è scelto di perseguire, soprattutto considerato che l’economia cinese è circa dieci volte più voluminosa di quella russa, che dal 2008-9 la Cina è il maggior partner commerciale per più della metà dei paesi del mondo, e che secondo lo stesso Fondo Monetario Internazionale la Cina guiderà la crescita mondiale almeno per i prossimi 5 anni con un tasso doppio degli Stati Uniti? Quali sono i costi che verranno prevedibilmente sostenuti dall’economia italiana a causa di questa “scelta”?

2) Tradizionalmente, la politica estera italiana, imperniata sull’appartenenza occidentale e atlantica, si è articolata in una discreta apertura a relazioni di vario tipo con paesi diversi, inclusi alcuni che durante la Guerra Fredda erano considerati nemici. La “diplomazia del petrolio” di Enrico Mattei, per il quale recentemente la stessa Giorgia Meloni ha profuso parole d’omaggio; le fabbriche FIAT nella città sovietica di Togliatti; il “Lodo Moro” e la relativa sicurezza nazionale che esso assicurò, assieme a discrete relazioni coi paesi arabi; i rapporti stabili con la Libia: tutto questo ha senso solo in una prospettiva di relativa discrezionalità in politica estera. Quali sono quindi le giustificazioni ideali e materiali che spingerebbero ora a volgersi quasi esclusivamente al blocco occidentale, e in particolare agli Stati Uniti? Sinora la Cina era infatti l’unico paese extraeuropeo tra i primi dieci partner commerciali dell’Italia, ad eccezione degli stessi USA.

Quanto agli “esperti di propaganda”, qualche domanda ancora più semplice:

1) Perché la pubblicazione anonima e pseudonima dovrebbe essere esclusiva della stampa occidentale?

2) Cos’è che renderebbe il mio articolo, come è stato sbrigativamente derubricato, “propaganda”?

3) Tra i dati e i fatti riportati nello stesso articolo, c’è forse qualche errore da correggere a beneficio dell’opinione pubblica?

Milan Kundera, convocato in commissariato il 12 agosto del 1974, ascoltò dall’agente Platenik una sola domanda, di un genere affatto diverso: "Perché alle 9.27 del primo giugno ha scartato una caramella alla ciliegia sotto il terzo castagno del secondo cortile interno del Clementinum?".

L’indagine arbitraria sulla sfera personale è di per sé una pratica intimidatoria e potenzialmente violenta, e contraria ai principi di libertà di opinione e di dibattito. Nel momento in cui viene propagandato che per tali valori vale la pena sacrificare le vite degli altri rasentando conflitti mondiali, sarebbe apprezzabile mantenere un minimo di coerenza.

da qui

Bilancio pubblico, da noi trionfano i predatori – Emiliano Brancaccio

 

Se osserviamo l’impatto delle manovre di bilancio pubblico sulle diverse classi sociali, noteremo che da circa un trentennio lo Stato redistribuisce risorse dai deboli ai forti Ricordate la storiella secondo cui il ceto medio si sarebbe allargato a dismisura e saremmo tutti diventati dei piccoli, pasciuti capitalisti? Anni fa questa immane sciocchezza la ripetevano in molti, inclusi autorevoli leader della sinistra. Oggi però la litania non va più di moda. Persino l’Ocse ha ammesso che nel mondo sta avvenendo un fenomeno esattamente opposto, di erosione dei ceti intermedi e di polarizzazione tra i gruppi sociali. Al punto che, negli olimpi della ricerca economica, si assiste a un recupero del concetto marxiano di «classe». La contrapposizione tra capitale e lavoro, cioè, resta un duro fatto di cui occorre tener conto se si vuol comprendere una realtà altrimenti indecifrabile. Inclusa la realtà del bilancio statale.

Se osserviamo l’impatto delle manovre di bilancio pubblico sulle diverse classi sociali, noteremo che da circa un trentennio lo Stato redistribuisce risorse dai deboli ai forti. Vale a dire, dagli abitanti delle regioni povere a quelli delle regioni ricche, dai malati ai sani, dai bisognosi di assistenza agli autosufficienti, dai figli degli analfabeti di ritorno ai figli degli acculturati, dai proletari ai proprietari, dai salariati ai percettori di rendite e profitti. James Galbraith l’ha definita una lotta che vede i capitalisti nel ruolo di «predatori dello Stato»: impegnati ad accaparrarsi risorse che un tempo venivano trasferite alle classi inferiori.Il fenomeno è di portata globale. Ma l’Italia, più di altri paesi, si sta rivelando un habitat eccezionalmente favorevole per le scorribande dei «predatori dello Stato». Il governo Meloni, al riguardo, offre esempi rilevanti.

Consideriamo l’abolizione del reddito di cittadinanza. Nelle regioni più martoriate dalla povertà e dal lavoro nero, il reddito agiva come una sorta di salario minimo di fatto. La sua eliminazione comporterà quindi un trasferimento non semplicemente dagli indigenti allo Stato, ma più in generale dai lavoratori ai capitalisti. Pensiamo poi alla riforma fiscale con cui il governo intende scendere ad appena tre aliquote di prelievo, con una ulteriore ipotesi di «scudo» a favore delle rendite. È l’ennesimo colpo inferto al principio costituzionale di progressività delle imposte. Ricordando che negli anni Settanta esistevano ben ventidue aliquote e non c’erano privilegi per i rentiers, comprendiamo la forza con cui, da decenni, i «predatori» spostano i carichi fiscali sulle spalle delle classi subalterne.

Ma ci sono anche esempi più subdoli. Esaminiamo la riduzione del cuneo fiscale, che a dire dei ministri in carica dovrebbe dare ampio sostegno ai salariati. Se la confrontiamo con l’inflazione degli ultimi tre anni, che ha accresciuto non solo i profitti ma anche il valore nominale del bilancio statale, ci rendiamo conto che l’intervento sul cuneo non è nemmeno un pannicello caldo. È una beffa.

Infine, analizziamo la proposta, avanzata dal ministro dell’economia, di un rilancio delle privatizzazioni. Se osserviamo gli effetti delle dismissioni record attuate dall’Italia nei decenni passati, scopriremo che il loro impatto in termini di cassa è stato ben diverso dalle attese, per un motivo evidenziato anche dalla Corte dei conti: se è vero che all’atto della vendita lo Stato incassa dai privati, è altrettanto vero che negli anni successivi perde le entrate che venivano dalle aziende di cui era proprietario, con un risultato complessivo che spesso risulta persino negativo per i conti pubblici.

Ancora dalla Corte dei conti, del resto, si scopre che il vero effetto delle privatizzazioni è stato un altro: vale a dire, un impatto incerto sui prezzi, negativo sui salari, molto positivo sui profitti. Ancora una volta, una redistribuzione alla rovescia nell’interesse dei «predatori».

Molto ci sarebbe da fare per un’opposizione intenzionata a contrastare questo spaventoso asservimento del bilancio statale agli esclusivi interessi della classe egemone. Bisognerebbe tuttavia iniziare da un’onesta ammissione. Dalle riforme regressive del fisco alle privatizzazioni, molte misure attuate oggi da Meloni e soci sono state pane quotidiano per vari governi di centrosinistra. La dura lotta contro i «predatori», se davvero comincia, parte dall’autocritica.

 

da Il manifesto

 

da qui

mercoledì 30 agosto 2023

L'estate sta finendo, anche per la scuola

La Neoscuola delle libertà - Daniela Di Pasquale 

Qualche anno fa, il comico Corrado Guzzanti realizzò alcuni fortunati sketch televisivi in cui simulava gli spot elettorali della berlusconiana Casa delle Libertà, dove tutto si poteva fare liberamente, anche le più assurde indecenze, chiosando alla fine con il motto “È la Casa delle Libertà, facciamo un po’ come c…. ci pare”.

Ecco, quello che sta accadendo alla scuola italiana in questo periodo storico è più o meno la stessa cosa, presa d’assalto com’è da esperti pedagogisti di varia forma e natura che hanno aperto le porte a un libertarismo insulso, corredato da un buonismo indulgente senza senso. È iniziata l’era della Neoscuola delle libertà, dove si può fare un po’ come ci pare: è l’autonomia scolastica, bellezza! Tanto nessuno va a verificare se gli studi su cui si basano le elucubrazioni dei sedicenti esperti siano convalidate o meno da tutta la letteratura scientifica; è molto più comodo delegare la nostra cultura professionale e comunitaria ai teorici dell’apprendimento.

Oggi pochissimi osano contestare la degradazione della professionalità docente a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Agli insegnanti ci si rivolge come a dei profani e questa delega agli specialisti in ogni settore è diventata una sorta di religione di Stato, come scrisse Ivan Illich (che riprendo da Boarelli): ecco allora che il professionista-sacerdote impone soluzioni a chi non ha saputo nemmeno riconoscere il problema. Gli esperti, affermava sempre Illich, sono “disabilitanti” e, aggiunge Boarelli, “gli insegnanti vengono progressivamente espropriati di una parte del loro mestiere (la capacità di valutare in modo indipendente e di decidere autonomamente cosa insegnare). Ciò compromette la libertà di insegnamento e mette in contrapposizione le finalità del lavoro con la fedeltà a un sistema imposto dall’esterno, creando in tal modo ‘conflitti di lealtà’ ” (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 74).

Siamo quotidianamente invasi da post, video, reels, articoli e libri di pedagogisti influencer che parlano della Scuola, senza distinguere tra i vari gradi di istruzione e mettendo tutti (bambini, preadolescenti e adolescenti) in un unico calderone indistinto. Il più delle volte si tratta di figure di accademici o ricercatori che hanno smesso di frequentare le aule scolastiche dai tempi del liceo e che, al più, si fanno vanto di partecipare a progetti ad hoc o di avere brillantemente sottoposto un campione di docenti a questionari e sperimentazioni di dubbia validità. La Neoscuola delle libertà ha così stabilito i suoi mantra e questi, purtroppo, fanno presa sulle famiglie, ignare di cosa realmente siano la pedagogia scolastica e il lavoro educativo di milioni di docenti che ogni giorno, da decenni, contribuiscono alla crescita culturale e globale dei loro figli.

Sfortunatamente fanno presa anche su molti docenti che amano seguire le mode, gli “esperti” esterni e le autorità ministeriali. Si potrebbe quasi parlare di un Manifesto della Neoscuola delle Libertà, i cui capisaldi potrebbero essere descritti come segue:

1. I docenti sono carenti dal punto di vista metodologico, non conoscono le tecniche di insegnamento più efficaci e internazionalmente sperimentate, si limitano alla lezione frontale, desueta e nociva. Occorre formare gli insegnanti alle nuove e mirabolanti tecniche di insegnamento punto zero. 

2. I docenti valutano i loro studenti senza cognizione di causa, senza conoscere i traumi che provocano loro, senza saperne valorizzare i talenti e le potenzialità, dando semplicemente parametrazioni quantitative del tutto soggettive e prive di validità formativa. Occorre spiegare ai docenti come si deve valutare il profitto di un alunno, possibilmente scandagliandone l’intima psiche ed emotività e procrastinando il più possibile la presa di coscienza delle proprie responsabilità e il lavoro personale sul superamento degli ostacoli (mal che vada, si potrà sempre ricorrere al TAR).

3. I docenti rifuggono dalla rivoluzione digitale che sta investendo il mondo; sono ormai dei soggetti anacronistici, refrattari al cambiamento, ostinatamente incistati nei loro scranni, mentre brandiscono fieri la vetusta cultura del libro. Occorre educarli alla contemporaneità e alla post-education.

4. I docenti non hanno capito che lo studente (chi? il bambino? l’adolescente?) è al centro dell’apprendimento; l’insegnante è solo un facilitatore: guida, allestisce, indica.

5. Competenze, competenze, competenze.



Assistiamo quotidianamente a lezioni di esperti che, pur non avendo mai insegnato un’ora sola a dei bambini o a dei ragazzi, formano i formatori che noi siamo propinandoci bias e fraintendimenti sugli effetti di metodologie didattiche sperimentate in contesti specifici, scambiando la ricerca sperimentale qualitativa con quella quantitativa. Tecnici dell’educazione che non sanno che gli studi su cui si basano le loro tanto osannate riforme sono già stati sconfessati da gran parte della letteratura scientifica internazionale (quando va bene), altrimenti sono addirittura privi di validità scientifica, perché frutto di buone prassi circoscritte e circostanziali. Accademici chiamati a rivoluzionare la scuola che fanno errori sesquipedali confondendo concetti basilari della docimologia come assessment for learningassessment of learning e assessment as learning. Specialisti in Scienze della formazione che non conoscono la psicologia dell’età dello sviluppo e applicano strumenti validi, al più, per adolescenti e adulti ai bambini della scuola primaria. Ancora, professori che gridano a gran voce che a scuola occorre rendere visibile l’apprendimento e valutare il processo metacognitivo senza conoscere le ricerche che hanno decretato l’invalidità di questo concetto ai fini valutativi. Per non parlare di coloro i quali ignorano (o fingono di ignorare) le implicazioni ideologiche e politiche della loro longa manus sulla scuola.

Di tutto questo e di molto altro parlo nel mio libro sulla deriva neoliberista nella scuola primaria (Daniela Di Pasquale, Livelli di scuola. La deriva neoliberista nella scuola primaria, Roma, Aracne, 2022), che dei partecipanti al dibattito in corso hanno voluto declassare a retorica tiritera sul trito e ritrito spauracchio del neoliberismo.

Probabilmente si tratta della solita tiritera trita e ritrita di chi vuole insabbiare una manovra concertata secondo una precisa agenda politica (il capitalismo cognitivo), travestita astutamente da welfare educativo democratico e progressista.

Ripropongo qui di seguito alcune considerazioni che esprimo nell’introduzione.

Il problema è che ai docenti non viene mai data l’opportunità di studiare in modo approfondito tutte le implicazioni ideologiche e pedagogiche dei cambiamenti che arrivano dall’alto. Purtroppo le innovazioni nella scuola italiana non sono mai preparate in anticipo e per tempo, ma vengono introdotte ex abrupto ad anno in corso, spesso a ridosso di importanti pause dall’attività didattica. Solitamente i docenti non possono applicare un’attenzione analitica a quanto viene loro imposto durante la loro attività lavorativa e, di conseguenza, il più delle volte sono costretti ad affidarsi e a fidarsi degli organi competenti, salvo poi accorgersi col tempo che, forse, quanto richiesto potrebbe presentare ombre pericolose e comportare torsioni intellettuali non di poco conto per la classe docente. Quella della riforma calata dall’alto e da attuare nell’immediato, senza dare il tempo al corpo insegnante tutto di studiarla, dibatterla e, al limite, anche di criticarla per rivederla, è una tattica che viene spesso giustificata con la motivazione che, se i cambiamenti non si introducono subito e di colpo, il mondo della scuola tende a procrastinarli eccessivamente e si fa fatica a realizzarli in tempi accettabili. In altre parole, secondo chi amministra la scuola è meglio fare in fretta, anche se con evidenti difficoltà e dubbi, piuttosto che prendersi il tempo di ragionarci approfonditamente e rischiare magari di non potere realizzare il loro bel compitino.

Sono punti di vista del tutto opinabili, a mio parere, ma sembra che sia così che a livello ministeriale e accademico si interpreti la professionalità della classe docente. Inoltre, con il bel pretesto dell’autonomia scolastica si sta praticamente distruggendo il carattere nazionale, unitario, di formazione e promozione culturale della nostra scuola. Mi riferisco all’idea che tutto debba essere calato sulla realtà specifica, contestuale/contestualizzata, localistica, dell’ambiente socio-geografico e amministrativo dello studente, con la scusa di potenziarne le caratteristiche e le qualità specifiche, per meglio garantirne il successo scolastico. Lo dice chiaramente Giulio Tosoni: “se c’è l’autonomia scolastica, non può esserci un programma unico in tutta Italia […] Avrebbe senso, oggi, far studiare in tutte le scuole d’Italia nello stesso giorno gli stessi argomenti? Che una piccola scuola (magari una pluriclasse) della Val Formazza debba fare lo stesso identico programma di una scuola nel centro di Roma? Secondo me no. E non perché i bambini di Roma siano ‘meglio’ o ‘più importanti’ di quelli della Val Formazza (o viceversa), ma perché vivono in situazioni diverse; ed è proprio dalla situazione reale dei bambini che bisogna partire per portarli al traguardo delle competenze” (Giulio Tosone, Dare valore alla scuola. Una guida per capire il senso della nuova valutazione nella scuola primaria, edizione indipendente, 2021, pp. 28-30).

Dunque, parti fondamentali del nostro patrimonio culturale possono tranquillamente essere depennate dal programma di studio perché troppo distanti dagli interessi contingenti degli studenti?

Semmai, le questioni più legate al territorio si possono aggiungere alla conoscenza di base che la scuola deve veicolare, non sostituirsi. Mi sembra che dietro questo paravento situazionale si nasconda allora un’agenda politica ben precisa: differenziare l’accesso alla cultura, individualizzarlo e renderlo esclusivo di una piccola parte di individui, responsabili delle grandi concettualizzazioni, mentre gli abitanti di zone più periferiche possono al massimo accontentarsi di diventare meri consumatori di una conoscenza prodotta e gestita altrove. Tutto questo si chiama capitalismo cognitivo e porta alla polarizzazione delle geografie dello sviluppo tra regioni e nazioni, condannando i paesi economicamente meno avanzati, meno in grado di fornire forza lavoro (cognitivamente) qualificata, alla disconnessione forzata. I saperi locali sono certamente un patrimonio importante di una nazione, ma solo se le persone hanno maturato anche consapevolezza e conoscenza del più vasto quadro generale storico, geografico, scientifico e culturale, altrimenti si rischia di crescere studenti con un’alfabetizzazione culturale ampia e completa e studenti con minori strumenti
conoscitivi della realtà. Vale a dire, studiare i Romani a Roma e il paesaggio montano in Val Formazza. Come ha scritto Steen Neppen Larsen, dell’Università di Aarhus, in Danimarca, “la natura immanente della conoscenza deve essere condivisa, non ridotta a un oggetto esclusivo e privato, tutti devono avere accesso alla conoscenza e più essa circola più potrà crescere” (Steen Nepper Larsen, “Compulsory Creativity: A Critique of Cognitive Capitalism” in Culture Unbound, 6, 2014, p. 168).

La cultura non è né mercificabile né negoziabile e la scuola dell’obbligo non è una scuola di specializzazione. La riforma che sta investendo la scuola primaria e che, temo, sarà estesa anche agli altri gradi di istruzione, sta realizzando dal basso e dall’inizio della vita, a partire cioè dai bambini, quell’ideologia neoliberista che ha tra i suoi capisaldi la competizione, l’individualismo, il merito, il mercato del lavoro, a scapito di una visione della formazione democratica, equa e solidale della persona che, mio avviso, dovrebbe essere l’unica missione possibile della scuola pubblica italiana. Il tutto motivato dai falsi miti della scuola delle competenze-chiave europee, del merito personale, dell’egocentrismo dell’apprendimento, della trasparenza dei processi di insegnamento, della valutazione (solo apparentemente formativa), protetti dallo scudo di una pedagogia solo esteriormente progressista e democratica. Oltretutto con una strategia di diffusione autoritaria, provocando un grave vulnus alla professionalità docente, soprattutto in un ambito come quello dei processi di insegnamento (di cui la rilevazione degli apprendimenti e la valutazione, soprattutto quella in itinere, sono parte) che non ammetterebbe nessun tipo di ingerenza.

Si tratta di un atteggiamento autoritario ben visibile, ad esempio, nello stile comunicativo, a tratti paternalistico, dei relatori dei webinar ministeriali a noi dedicati, uno stile dai toni troppo spesso indulgenti e quasi di malcelato rimprovero riguardo alle nostre precedenti metodologie didattiche, con il misconoscimento quasi totale dell’enorme patrimonio di cultura organizzativa e pedagogica che ogni scuola ha accumulato negli anni e dando arbitrariamente per scontate mancanze e lacune metodologiche delle nostre prassi didattiche ed educative.

In una recente intervista, il noto scrittore Alessandro Baricco ha espresso la sua opinione riguardo alla scuola pubblica, visto che ormai chiunque nella Neoscuola delle libertà può esprimere il proprio parere autorevole. Baricco ha sostenuto la necessità di un cambiamento radicale del sistema, in direzione di una maggiore flessibilità nei programmi e nella formazione delle classi. Ha poi aggiunto: “servono segmenti didattici più corti, non l’esame dopo tre anni o la pagella ogni quattro mesi: dovremmo fare come nei videogiochi, percorsi in cui vedi la fine, salendo di livello in livello” (
https://www.orizzontescuola.it/baricco-disintegrare-le-classi-valutazione-come-nei-videogiochi-percorsi-brevi-salendo-di-livello-lattuale-sistema-scolastico-e-destinato-a-collassare-e-bacchetta-i-sindacati/).

Mi spiace signor Baricco, ma la scuola non è un videogame, non è un gioco né una gara a chi arriva prima o più in alto, a scuola non si fa sfoggio di abilità e non si danno medaglie per il primo, il secondo o il terzo posto. A scuola non ci devono essere livelli, perché non è l’altezza che interessa, a scuola non deve regnare uno sguardo verticale ma orizzontale, trasversale, obliquo e laterale, perché la scuola è di tutti, fatta dai molti, patrimonio comune. A scuola non si sale di livello in livello, a scuola si procede per catene umane di solidarietà e cooperazione, a volte si può anche scendere e va bene così, perché si cresce comunque, esplorando tutte le dimensioni spaziali e magari anche quelle immateriali. La scuola è uno spazio analogico, riflessivo, conviviale, non si addice alla frenesia da videogame. Anche per me, come ha scritto Franco Lorenzoni: “la scuola […] non deve imitare ciò che accade nella società, ma operare perbcontrasto, in modo critico e concreto. Se tutti corrono, ci vuole un luogo dove poter andare lenti. Se andiamo lenti aumentano le possibilità di incontrare davvero profondamente qualcosa. Perché per arrivare a osservare i movimenti di una nuvola, ascoltare un racconto, trovare con un gesto il tratto e il colore per una pittura o scrivere parole sincere ed autentiche, ci vuole tempo, tanto tempo” (Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Palermo, Sellerio, 2014, p. 171).

La scuola è tempo. La scuola non tollera livelli né livellamenti. La scuola per livelli porta a creare diversi livelli di scuola, che inevitabilmente, presto o tardi, diventeranno livelli di vita.

da qui


La nuova riforma scolastica sarà la fine della scuola italiana - Marco Bonsanto

I valori attribuiti all'istruzione dalla Costituzione saranno stravolti dalla nuova riforma scolastica proposta da Draghi e portata avanti da Meloni, che metterà la scuola a servizio del lavoro e non più della formazione dell'individuo.

Tra meno di un mese prenderà avvio il nuovo anno scolastico. Ma la situazione che insegnanti, studenti e famiglie si ritroveranno a vivere sarà molto diversa da quella degli anni precedenti. Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta infatti per entrare in vigore l’ennesima, distruttiva riforma della Scuola italiana, con un impatto superiore persino alla “Buona Scuola” di Renzi. Pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal Governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del PNRR, il piano straordinario di investimento dell’UE finalizzato a ridare fiato agli Stati membri provati dalla Pandemia.

In realtà, il PNRR è un colossale piano di indebitamento delle nazioni europee obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie. Un volano per gettare le basi della nuova società postdemocratica.
È il caso dell’attuale riforma scolastica, anch’essa a quanto pare resasi indispensabile dopo i disagi della Pandemia, senza che nessuno però ce ne abbia mai spiegato il perché. Si compone di quattro nuovi pilastri introdotti nell’edificio dell’Istruzione italiana con il probabile scopo di poter abbattere a tempo debito tutti gli altri, resi inutili. È un’operazione portata avanti senza clamore con interventi normativi allegati a semplici decreti-legge, senza il vaglio parlamentare o un vero dibattito pubblico. Vale a dire con mezzi (e finalità) palesemente incostituzionali.

Il primo “pilastro” riguarda la trasformazione fisica degli ambienti di apprendimento (100.000 aule) grazie a una forzata iniezione di tecnologia di ultima generazione: device informatici personalizzati, schermi multifunzione, intelligenza artificiale, realtà aumentata, stampanti 3D, ecc. È il cespite più consistente dell’iniziativa: circa i ¾ degli investimenti previsti. Entro Natale 2022 tutte le scuole sono state “caldamente invitate” dal Ministero a fare incetta di strumentazioni high tech per il massimo degli stanziamenti virtuali disponibili (cioè a contribuire sconsideratamente al Debito pubblico), indipendentemente dalle dotazioni pregresse, dalla reale capacità di fruizione delle nuove, dalla loro utilità per il tipo di scuola, ecc. Il resto dei finanziamenti servirà per “smontare” le aule tradizionali e riqualificarne l’apertura al mondo attraverso banchi a rotelle, aule-laboratorio, ambienti virtuali, ecc. L’approccio generale sarà work based learning e gli spazi scolastici dovranno essere disegnati “come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro”.

Sarà infatti il lavoro – e non più la formazione dell’individuo – la nuova finalità dell’istruzione. Da passaggio fondamentale per la scoperta di sé attraverso la trasmissione sociale del sapere la Scuola sarà svilita a componente della riforma del lavoro, sollevando le aziende dall’onere di selezionare e formare il proprio personale. La riforma introduce infatti nella Scuola superiore di primo e secondo grado due nuove figure di insegnanti (la seconda grande novità): il docente Orientatore e il docente Tutor. Con compiti, l’uno, di aiutare lo studente nella scelta precoce della futura professione e, l’altro, di consigliarlo nei percorsi di apprendimento liberi ad essa più adeguati. Nella nuova Scuola, infatti, non tutti studieranno ancora le stesse materie o nello stesso modo, ma ciascuno studente seguirà un iter di apprendimento personalizzato volto a fargli conseguire le conoscenze e le abilità specifiche per la sua futura professione.

Imbonitori di una Scuola pubblica che promette libertà di scelta didattica alle famiglie ed expertise psicologica agli studenti disorientati, i due nuovi docenti dovranno operare negli anni una vera e propria profilazione lavorativa dello studente e, di fatto, un plagio delle sue aspirazioni. Col tempo esproprieranno il Consiglio di Classe della prerogativa di condurre in modo concertato il progetto formativo relativo allo studente e di valutarne progressi o ritardi secondo l’attuale prassi pedagogica che mira alla globalità della persona. Sarà di fatto conferito loro il potere di limitare la libertà d’insegnamento altrui per implementare una pluralità di percorsi differenziati nelle stesse classi, un patchwork ritagliato sulle esigenze delle aziende e di famiglie blandite nell’illusione di potersi finalmente sostituire a quei docenti ritenuti incapaci di comprendere le potenzialità dei loro figli, i loro nascosti “meriti”.

La difesa del merito – di studenti e insegnanti – è in effetti il terzo pilastro della riforma, come del resto propagandisticamente annunciato dal Governo Meloni fin dal nuovo nome del Ministero dell’Istruzione, divenuto pure “del Merito”. Si tratta della pretesa non nuova di misurare la capacità didattica dei docenti, fingendo di non sapere che ad insegnare si arriva vincendo concorsi per titoli ed esami. In realtà, è fin troppo chiaro quale siano le vere finalità di questo sbandierato progetto di valorizzazione del merito. In primo luogo, acquisire un’arma di ricatto contro quella libertà professionale dei docenti (art. 33 Cost.), che nel quadro attuale costituisce un ostacolo insormontabile alla rimodulazione indotta del loro insegnamento. Alla condizione di assoggettamento etico e professionale degli insegnanti cui mira la riforma si arriverà probabilmente correlando al merito lo stipendio, il punteggio interno alla scuola e quello esterno per i trasferimenti. In secondo luogo, spingere gli insegnanti a divenire organici alla riforma stessa: con quelli “contrastivi” relegati in fondo alla graduatoria, essere docenti “meritevoli” significherà né più né meno che assecondare in modo acritico la visione sociopedagogica che essa sottende.

Quest’ultima – e veniamo così al quarto “pilastro” della riforma – prevede lo stravolgimento delle finalità educative della Scuola italiana, reindirizzate e rimodulate in favore della transizione digitale pilotata in Occidente dalle BigTech statunitensi. Le finalità umanistiche e “liberali” dei tradizionali curricoli scolastici lasceranno il posto a quelle utilitaristiche della formazione tecnologica, funzionale alla creazione di un vasto proletariato di nuova concezione. Anche gli insegnanti dovranno adeguarsi ai tempi, adattando la loro didattica agli strumenti e alle finalità delle nuove onnipresenti tecnologie informatiche, secondo i voleri insindacabili dell’UE (vedi Quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, il “DigCompEdu”). Inseriti in un sistema europeo di riconoscimento delle competenze digitali, saranno valutati (e domani stipendiati) secondo una precisa scala di bravura, con tanto di titolo distintivo: A1) Novizio; A2) Esploratore; B1) Sperimentatore; B2) Esperto; C1) Leader; C2) Pioniere. In altre parole, non saranno più riconosciuti come professionisti tutti ugualmente “sapienti” nelle loro rispettive materie, ma incardinati in una gerarchia di valore (e di diritti) di natura prettamente tecnica, che confonde i fini del loro lavoro con gli strumenti utilizzati per conseguirli.
Ci chiediamo: valeva la pena percorrere tutto il cerchio dell’ideale democratico per tornare al “MinCulPop”, ai Balilla e ai Lupetti da cui proveniamo?  –  E allora vogliamo pure i Colonnelli!

Marco Bonsanto, insegnante di Storia e Filosofia

da qui

Perché il Digital Service Act è un rischio per la libertà di parola su internet - Giorgia Audiello

 

È fissata per oggi, 25 agosto, la prima scadenza per le piattaforme digitali sottoposte al Digital Service Act (DSA), la nuova legge sui servizi digitali dell’Unione Europea entrata in vigore nel novembre 2022. Mentre da parte europea e sul mainstream si sottolineano i lati positivi della norma (che prevede maggior tutela dei dati personali e limiti alla profilazione e alla riservatezza delle chat), ben poco si parla dei rischi connessi alla limitazione del diritto alla libera espressione previsto dai punti che prevedono il controllo della “disinformazione” e in particolare di quanto previsto al punto 91 della legge, che prevede meccanismi per ridurre i confini della libertà di parola attuabili “in presenza di circostanze eccezionali che comportino una minaccia grave per la sicurezza pubblica o per la salute”.

 

Cos’è il DSA

La legge per ora interessa 15 grandi corporation tra motori di ricerca e piattaforme e nel prossimo futuro sarà allargata.

Le piattaforme in questione sono state identificate dalla Commissione come dominanti dello spazio online e tra le altre, compaiono Bing, Google, Facebook, Instagram, Twitter, Amazon Store e Wikipedia. Il DSA è entrato in vigore il 16 novembre 2022 per tutti gli intermediari online che forniscono servizi sul territorio comunitario, con un livello di obblighi crescente e proporzionato al numero di utenti raggiunti. Le grandi piattaforme online saranno soggette a requisiti sulla valutazione indipendente e annuale dei rischi sistemici di disinformazione, contenuti ingannevoli, violazione dei diritti fondamentali dei cittadini e violenza di genere e minorile. Le violazioni del regolamento comporteranno multe fino al sei per cento del fatturato globale e saranno sorvegliate dalle autorità nazionali (le piattaforme più piccole) e dalla Commissione Ue che ha potere esclusivo su quelle più grandi.

Il regolamento pone particolare attenzione al fenomeno della “disinformazione” restando però sul vago, non definendo nel dettaglio ciò che può essere considerato come tale. Di conseguenza, anche eventuali opinioni o studi difformi dalla linea “istituzionale” potrebbero venire etichettati come disinformazione. In particolare, al punto 84 del DSA si legge che «Nel valutare i rischi sistemici individuati nel presente regolamento, tali fornitori dovrebbero concentrarsi anche sulle informazioni che non sono illegali ma contribuiscono ai rischi sistemici individuati nel presente regolamento. Tali fornitori dovrebbero pertanto prestare particolare attenzione al modo in cui i loro servizi sono utilizzati per diffondere o amplificare contenuti fuorvianti o ingannevoli, compresa la disinformazione. Qualora l’amplificazione algoritmica delle informazioni contribuisca ai rischi sistemici, tali fornitori dovrebbero tenerne debitamente conto nelle loro valutazioni del rischio».

Il testo risulta ancora più esplicito per quanto riguarda eventuali situazioni di crisi, quali una minaccia per la sicurezza o la salute pubblica, calamità naturali o atti di terrorismo: in questi casi, al punto 91 si legge che «La Commissione dovrebbe poter chiedere ai prestatori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e ai prestatori di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi, su raccomandazione del comitato europeo per i servizi digitali («comitato»), di avviare con urgenza una risposta alle crisi. Le misure che tali prestatori possono individuare e considerare di applicare possono includere, ad esempio, l’adeguamento dei processi di moderazione dei contenuti e l’aumento delle risorse destinate alla moderazione dei contenuti […]». Tutte le eventuali future emergenze potrebbero, dunque, fornire il pretesto per limitare la libertà d’informazione censurando opinioni, dati e studi non allineati.

 

La reale portata della legge sulla libertà d’informazione

Per questi motivi, una parte dell’opinione pubblica identifica la legge come un modo per imporre una sorta di censura mascherata finalizzata ad evitare che si possano esprimere tesi e opinioni divergenti da quelle “dominanti”. La facoltà di vigilare sulla correttezza delle informazioni e dei contenuti, stabilendo, dunque, ciò che è vero e ciò che è falso è stata attribuita in primo luogo ad un organo politico: la Commissione Europea e, nello specifico, al Comitato europeo per i servizi digitali che vigilerà strettamente sulle società e sui contenuti. Un’architettura di controllo che ha portato diversi rappresentanti politici e dell’informazione a parlare di una minaccia per la democrazia.

Non si tratta di perplessità e critiche che giungono solo dal mondo dell’attivismo o della contro-informazione. Alcune preoccupazioni sono state espresse anche dal Garante per la privacy italiano che ha spiegato che «il Regolamento sembrerebbe intenzionato a riconoscere – come, peraltro, ormai avviene diffusamente – ai gestori delle piattaforme il diritto-dovere di decidere in autonomia e sulla base semplicemente delle proprie condizioni generali quale contenuto lasciare online e quale rimuovere e quale utente lasciar libero di pubblicare e quale condannare all’ostracismo digitale», concludendo senza giri di parole che «il rischio è che anziché ridimensionare le big tech, si accresca il loro impatto sulle nostre società e democrazie». Il tutto senza tralasciare che, grazie ai cosiddetti Twitter Files, è emerso che dietro alle grandi piattaforme vi sia la pressione dei governi che dettano ai colossi del digitale la linea politica e ideologica da seguire. Il giornalista David Zweig, che ha potuto visionare i documenti del social di San Francisco dopo essersi recato personalmente presso la sede di Twitter, infatti, ha fatto sapere che «Le e-mail interne che ho visto su Twitter hanno mostrato che entrambe le amministrazioni Trump e Biden hanno sollecitato direttamente i dirigenti di Twitter a moderare i contenuti della piattaforma secondo i loro desideri».

Infine, si sottolinea come il potere di decidere sulla correttezza e sulla legittimità dei contenuti sia eccessivamente sbilanciato verso la Commissione europea che avrà anche accesso agli algoritmi, assumendo così un ruolo “plenipotenziario”. Secondo il Garante, infatti, sia che si tratti della questione della pubblicità targettizzata, sia che si tratti della moderazione dei contenuti pubblicati dagli utenti, «è indispensabile che ogni competenza faccia capo o a un Giudice o a un’Autorità indipendente mentre potrebbe essere un grave errore attribuirla a un soggetto politico come la Commissione». In altre parole, vi è il rischio concreto che le opinioni, gli studi scientifici, le analisi politiche e sociali dei cittadini europei siano sottoposte al controllo stringente di un organo politico, con il rischio non trascurabile della messa al bando dal discorso pubblico di ogni opinione classificata come “disinformazione” con criteri oscuri e potenzialmente restrittivi. Una mossa che dietro una presunta tutela degli interessi degli utenti nasconde un rischio democratico evidente.

da qui

martedì 29 agosto 2023

“Nel capitalismo non c’è salvezza. Cambiamo o non sopravvivremo”


Mauro Del Corno intervista Joshua Clover

Joshua Clover è docente di inglese e letteratura comparata all’Università della California Davis. Nel 2016 ha scritto “Riot. Strike. Riot” che dallo scorso febbraio è disponibile anche nella traduzione italiana con il titolo “Riot. Sciopero. Riot” (edizioni Meltemi). Il libro è un tentativo di elaborare una teoria di queste mobilitazioni. Un’analisi utile anche per decifrare quanto accaduto in questi mesi, dalle imponenti proteste francesi alle più contenute manifestazioni contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, e quello che potrebbe accadere in un futuro prossimo“Una teoria del riot (rivolta, ndr) è una teoria della crisi”, scrive Clover nell’introduzione aggiungendo che questi accadimenti possono essere compresi solo se riusciamo a decifrare il movimento storico che dà loro forma e significato. Per questo l’attenzione si sposta inevitabilmente sulla crisi del capitalismo.

Professor Clover, nel libro lei sottolinea come le rivolte contemporanee siano sempre più dirette contro lo Stato piuttosto che contro il sistema economico. Non è un controsenso visto che gli stati subiscono dinamiche economiche che si determinano a livello sovranazionale? In fondo l’unica vera speranza per lavoratori e disoccupati non sarebbe quella di un maggiore coordinamento e unità di azione tra diversi paesi?

Sono due domande complicate. Consentitemi di rispondere prima alla seconda, ammesso che questa valga come risposta: il libro non si pone lo scopo di dire alle persone quali siano le strategie che offrono loro maggiori possibilità di realizzare i loro obiettivi. Spesso però viene letto in questo modo e così si pensa di fare critiche sensate, affermando che gli scioperi sono qualcosa di positivo ed efficace mentre le rivolte non funzionano. Io non sono un avanguardista, sono solo uno studente. Descrivo le cose per come stanno. Cerco di spiegare l’attualità e di farlo in modo da aiutarci a pensare a come lotte potenzialmente liberatorie potrebbero svolgersi in futuro, comprendendo le loro basi nel passato e le loro caratteristiche nel presente. Le rivolte esistono. Sono sempre più frequenti e pressanti. Questo è fuori discussione. Il libro cerca di capire perché questo accade, non di indicare l’idea giusta; alla fine, le idee vengono dalle lotte e non il contrario.

Ma anche la contraddizione di cui parla è reale. Non sono sicuro che le rivolte che studio siano in sé contradditorie, semplicemente riflettono una contraddizione che è nella realtà. In un certo senso parliamo sempre della contraddizione che lega insieme il politico e l’economico sotto il titolo di economia politica. Questa dinamica assume una forma curiosa nel presente. Da un lato, proprio come afferma, gli Stati sono sempre più trascinati nel vortice del mercato mondiale e del capitalismo globale, con le sue spinte a produrre valore in ogni trimestre e in ogni secondo. D’altra parte, il capitalismo globale richiede sempre più il supporto del potere politico degli stati per stabilizzarsi e rendere possibile il profitto. Ciò include fenomeni che si intersecano tra loro, come regimi giuridici che legittimano il potere di classe; il controllo sul territorio, in particolare per l’estrazione di risorse; e un’rafforzamento della polizia per gestire le comunità per le quali non ci sono più “lavori fissi” che possano imporre la disciplina del salario. Sono tutte forme di violenza che, sebbene dettate da forze “economiche”, sono percepite come violenza di Stato. È inevitabile che le lotte insurrezionali si orientino contro questa violenza. Ma la magia della contraddizione risiede nella sua unità, nel fatto che quando lo stato e l’economia sono così interamente interdipendenti, quando l’uno richiede all’altro di funzionare, una rivolta contro l’uno è necessariamente una rivolta contro l’altra.

Lei scrive che il capitalismo è giunto ormai ad una fase di crisi conclamata di cui le rivolte sono una delle evidenze. Perché?

Ci sono risposte tecniche che richiederebbero pagine e pagine e che sfocerebbero in dibattiti accademici su come un’economia può o deve essere misurata. Ma c’è anche una risposta semplice: guardati intorno, stai scherzando? Scegliamo un compromesso tra queste due impostazioni: il capitalismo ha bisogno di crescere, altrimenti muore. Non può sopravvivere in uno stato stazionario. E ci sono un gran numero di indicazioni che mostrano come, a livello mondiale (non in ogni singola impresa o nazione), la crescita si sia sostanzialmente arrestata alla fine degli anni ’70. Un utile riassunto per non addetti ai lavori è contenuto nell’eccellente recente articolo di Jamie Merchant, “The Economic Consequences of Neo-Keynesianism”. Per rispondere dal punto di vista dell’Italia: da tempo la zona euro è un gioco a somma zero, con alcune nazioni che hanno la meglio su altre con una crescita complessiva carente, questo non è solo il segnale ma la forma della crisi. Esprimo questo concetto spiegando che il capitalismo è la produzione della non produzione.

Genera quantità sempre maggiori di cose che non può impiegare con profitto, il che ha conseguenze pesanti per noi come esseri umani. Significa fabbriche che non possono essere gestite, capitali che non possono essere investiti, lavoratori che non possono essere impiegati e che quindi rimangono senza nulla da fare. Questa è la formula per le rivolte. Il fatto che il capitale non stia crescendo non significa però che non provi a farlo; infatti, deve muoversi sempre più velocemente solo per rimanere in equilibrio, dando vita ad una specie di frenetica stagnazione. Brucerà sempre più petrolio, estrarrà sempre più litio, produrrà sempre più rifiuti, per ritardare il collasso finale. Questo è il meccanismo fondamentale con cui la fine della crescita economica è inseparabile dall’altra grande crisi rappresentata dal disastro climatico.

Il paese europeo dove si sono verificate più proteste negli ultimi anni è la Francia. Qui assistiamo sia a rivolte che a scioperi. Prima la forte protesta contro la riforma delle pensioni, poi quelle di carattere razziale. Alcuni osservatori hanno evidenziato come le proteste siano andate ben al di là di richieste specifiche ma siano, più o meno consapevolmente, segnali più profondi di rifiuto del modello di sviluppo neoliberista, siete d’accordo?

Non penso che le lotte francesi siano un rifiuto del neoliberismo, perché non credo che il neoliberismo esista. Quantomeno non come un sistema coerente. Nella migliore delle ipotesi è un nome vago per una serie di tattiche, molto diverse da luogo a luogo e di volta in volta, adottate per cercare di sollevare la redditività sin dalla fine del boom del dopoguerra. Per usare una metafora, non possiamo definire una squadra da baseball migliaia di burocrati che tirano mazzate a caso nel buio. Se per brevi periodi e in qualche posto sono stati in grado di indirizzare delle ricchezze verso se stessi e i loro amici, non sono stati comunque capaci di stabilizzare le condizioni della povertà globale e neppure di quella occidentale. In definitiva quello che voglio dire è che, sebbene le proteste siano spesso innescate da un episodio specifico, a generarle non è il neoliberismo ma quell’instabilità di fondo del sistema che il neoliberismo, se fosse davvero esistito, si sarebbe posto l’obiettivo di controllare.

Professor Clover, non so quanto conosca la situazione italiana. In breve, il paese è governato da un esecutivo di estrema destra, la crescita economica è debole e la perdita di potere d’acquisto dei salari è la più marcata tra i paesi OCSE. Servizi primari come la sanità sono a rischio. Sono elementi che in altri Paesi hanno dato vita a grandi mobilitazioni. Eppure l’Italia resta molto “tranquilla”, gli scioperi sono settoriali e poco efficaci mentre di rivolte non c’è traccia. Hai idea del perché?

Non sono certo un esperto di questioni italiane ma mi affascina ragionare sul diverso tipo di mobilitazione e militanza di cui parla. Non credo che il conflitto sociale segua sempre immediatamente le trasformazioni sociali, che sono sempre complesse e prolungate. A volte le reazioni sembrano immediate, come le rivolte greche del 2008 che si scatenano nel mezzo della crisi economica globale. Altre volte hanno tempi più lunghi. È vero che l’Italia ha avuto un decennio tranquillo. Ma dobbiamo anche chiederci, perché il paese ha vissuto in passato i suoi anni di piombo? Non era chiaro se in Italia ci fossero condizioni particolarmente favorevoli al manifestarsi di quel fenomeno e a mantenere alta l’intensità di quelle azioni per un decennio. Eppure, seppur in modi complessi, questo è quello che è accaduto. A ben vedere, anche quel periodo fa parte della “Lunga Crisi” che ha seguito il boom economico, così come lo è il periodo relativamente tranquillo che lei menziona.

Potremmo chiederci, è vero che non c’è traccia di militanza? Le rivolte hanno molta visibilità e richiamano attenzione poiché sono “spettacolari”. Ma la categoria fondamentale che analizzo nel libro è quella delle “lotte di circolazione”: lotte combattute per la circolazione da chi si trova escluso da circuiti di produzione tradizionale. La rivolta ne è solo l’esempio più drammatico. La categoria è più ampia è ciò che conta per comprendere il presente. Le proteste legate ai territori (piuttosto che quelle legate a questioni di lavoro) generalmente rientrano in questa categoria; il movimento No TAV è un esempio preminente di lotta alla circolazione. L’Italia in questo senso ha svolto un ruolo significativo nell’articolazione del “repertorio dell’azione collettiva” contemporaneo.

Come mettono in guardia molti osservatori, e come accennava lei prima, le conseguenze della crisi climatica sono destinate ad accrescere notevolmente le tensioni sociali. Ci stiamo avviando verso un futuro in cui rivolte e scioperi saranno sempre più frequenti?

Le rivolte per il clima sono già iniziate. Ma penso che la vera domanda sia se ci stiamo muovendo verso un futuro in cui l’intensificazione del conflitto sociale può trasformarsi in lotta rivoluzionaria. Una vera rivoluzione, voglio dire, quella che non mette al potere un nuovo partito o un capo, ma annulla le costrizioni e i vincoli che attualmente strutturano tutte le nostre relazioni. Qualcosa che rifà le nostre vite, non i nostri leader. Questa è l’unica cosa che merita il nome di rivoluzione. Non credo sia impossibile ma è difficile che questo accada. Purtroppo quello che è certo è che se non accadrà siamo spacciati. Non esiste un percorso per la sopravvivenza all’interno del sistema capitalistico.

da qui

Stupri e violenze di ogni genere nel cantone di Afrin preparano il terreno alla sostituzione etnica - Gianni Sartori

 

Da quando nel 2018 l’esercito turco ha invaso, con i suoi ascari jihadisti, il cantone di Afrin non si contano le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle truppe di occupazione. Nella prospettiva di un esodo imposto agli abitanti originari da sostituire con una popolazione filo-turca.

Che lo stupro fosse, oltre che un crimine di guerra e contro l’umanità, anche un’arma di guerra me lo aveva spiegato in dettaglio (come si suol dire “fuor di metafora”, di ogni possibile metafora) Bruna Bianchi una decina di anni fa (v. l’intervista del 2013)*.

Ovviamente ci sono guerre e guerre. Quelle di cui si parla e quelle su cui si preferisce stendere un velo (un sudario ?) poco pietoso.

Così avviene per l’occupazione di Afrin nel Nord della Siria,avviata nel 2018 da parte dell’esercito turco con i suoi ascari jihadisti.

Secondo quanto ha denunciato (durante una conferenza-stampa nel campo di Serdem, a Shehba, dove si affollano decine di migliaia di sfollati) una portavoce dell’’Organizzazione per i diritti umani di Afrin-Siria, in questi cinque anni almeno 99 donne sono state ammazzate, 74 violentate e oltre un migliaio rapite. E almeno una decina si sarebbero suicidate dopo aver subito maltrattamenti e umiliazioni.

Non esisterebbero invece al momento dati attendibili sulla pratica alquanto diffusa dei “matrimoni” forzati.

Ovviamente si tratta di numeri in difetto, quelli accertati.

Per un portavoce di Kongra Star potrebbe trattarsi solamente del 10% dei crimini effettivamente avvenuti.

Un quadro generale alquanto fosco alimentato, oltre da stupri e rapimenti, anche da torture e aggressioni sessuali di ogni genere, sia contro le donne in generale che contro i minori.

Di gran parte delle migliaia di donne sequestrate, rapite (di fatto “desaparecidas”, scomparse)non si conosce quale sia stato il destino.

In un comunicato letto da Heyhan Elî si sollecitano “tutte le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani, le organizzazioni umanitarie femministe a compiere il loro dovere morale e legale di fronte ai crimini commessi contro la popolazione nei territori occupati del Nord della Siria. Gli autori di questi crimini, in particolare quelli contro le donne e i bambini, devono essere tradotti davanti a un tribunale.

Occorre inoltre esercitare ogni possibile pressione sullo Stato turco affinché ritiri le sue truppe dai territori occupati. Gli sfollati devono poter rientrare in sicurezza nelle loro terree le vittime devono poter usufruire di sostegno sia morale che materiale”.

La settimana scorsa un altro esponente dell’organizzazione, Mihemed Ebdo, aveva denunciato come dall’inizio del 2023 le violazioni dei diritti umani si fossero ulteriormente accentuate.

 “Lo Stato turco – aveva dichiarato – viola i diritti umani nella regione commettendo crimini di ogni genere: massacri, rapimento, stupri, saccheggi e distruzione dell’ambiente naturale”.

Complessivamente dall’inizio dell’anno i rapimenti documentati (in totale) sarebbero stati almeno 208, tra cui 24 donne e un minore (un tredicenne vittima di violenze sessuale).

Sempre nel 2023, tredici persone (tra cui tre donne) sono state assassinate dalle forze occupanti. Inoltre oltre 16mila alberi sono stati abbattuti, un altro migliaio sradicati e circa settanta ettari di terreno dati alle fiamme.

Su tali vicende era intervenuto in questi giorni anche Alif Muhammad, portavoce del Coordinamento del Kongra Star.

Denunciando in particolare un recente episodio, l’azione criminale compiuta daZakaria Bustani, un esponente del – cosiddetto – Consiglio locale del distretto di Jinderes (sempre nel cantone di Afrin sotto occupazione). Insieme al figlio, Nasr Bustani, si sarebbe reso responsabile dello stupro di una ragazzina di 14 anni rapita da casa sua minacciando di morte i presenti.

Sempre in agosto, le truppe di occupazione e i mercenari islamisti avrebbero violentato anche tre insegnanti di una scuola di Jarablus. Invece un capo della milizia Al-Sharqiya si sarebbe “limitato” a minacciare un cittadino di Janders di violentarne la figlia se non avesse versato un forte riscatto.

Stando ai dati forniti dal portavoce di Kongra Star tra luglio e agosto i mercenari filo-turchi avrebbero violentato almeno 20 donne e cinque bambini

Per non parlare del saccheggio (per poi vendere i reperti sul mercato nero) e della pura e semplice distruzione di siti storici come il tempio di Ishtar d’Ayn Dara, del mausoleo di Nebi Huri, della grotta di Duderi e della tomba di Mar Maron.

Scopo apertamente dichiarato, lo stravolgimento demografico della regione attraverso la realizzazione di colonie in cui insediare popolazioni filo-turche.

In questa opera di“genocidio culturale” Ankara può contare sul sostegno economico di Qatar, Kuwait, organizzazioni legate ai Fratelli musulmani (al-Ayadi al Bayda, Kuwait al-Rahma, Binyan al-Qatari…). E anche -spiace dirlo – di qualche organizzazione palestinese.

*nota 1: L’arma dello stupro

Intervista a Bruna Bianchi di Gianni Sartori – 02/09/2013

Alla fine di marzo 2013 l’Alto Commissariato forniva dati inquietanti sugli stupri nei campi dei rifugiati somali (si parla del 60% delle donne) mentre alcune Ong denunciavano l’esercito congolese per le violenze nel nord-est della RDC (sfatando l’idea che le violenze fossero opera solo delle milizie). Situazione sempre più drammatica anche per le donne siriane, vittime sia dei soldati governativi che dei combattenti ribelli. Stando alle dichiarazioni dei medici, sono in continuo aumento quelle che arrivano negli ospedali libanesi. Ma soltanto se incinte, altrimenti lo stupro subito rimane una “vergogna” privata. Ne abbiamo parlato con Bruna Bianchi, docente di Storia Contemporanea (Università Cà Foscari di Venezia).

1) D. A quasi 40 anni dalla pubblicazione di Against our will di Susan Brownmiller che denunciava lo stupro come “arma repressiva” nei confronti delle donne, le cose non sembrano essere cambiate. Un suo parere…

1.      Lo stupro è onnipresente, non solo nelle situazioni citate, tanto in pace quanto in guerra. Le donne migranti che dal Messico cercano di attraversare illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti, prima di partire prendono anticoncezionali sapendo che quasi certamente verranno violentate. Rientra nella loro condizione in quanto donne sole o comunque in una situazione di debolezza, come quelle nei campi profughi. In tutte le guerre civili contemporanee, il cui scopo è quello di distruggere un’organizzazione sociale, sradicare o annientare una comunità, gli stupri hanno raggiunto un’ampiezza e una ferocia estrema.

Le donne, soprattutto in tempo di guerra, mantengono i legami della famiglia e della comunità e quindi occupano un posto particolare in questa logica della distruzione. Ucciderle e degradarle si è rivelata una strategia militare efficace per diffondere il terrore, costringerle alla fuga, rendere impossibile il ritorno.

2) D. Cosa ha rappresentato, anche simbolicamente, lo stupro in situazioni di conflitto come i Balcani, il Ruanda o la Repubblica democratica del Congo?

1.      Violentare, occupare il corpo della donna significa conquistare simbolicamente un territorio (quindi lo stupro conquista, degrada, ripulisce lo spazio). Nei Balcani, negli anni ’90, tutti i gruppi etnici se ne sono resi colpevoli. L’opinione pubblica è rimasta particolarmente colpita dall’orrore dei “campi di stupro” organizzati dai serbi con lo scopo di far nascere “piccoli cetnici” da donne bosniache musulmane in base al pregiudizio che solo gli uomini possono trasmettere l’etnia. Si contava sul fatto che le donne, considerate “contaminate”, sarebbero state rifiutate dalla loro comunità e i figli abbandonati ad un destino di marginalità. In Ruanda invece molti bambini nati da stupro sono stati arruolati nell’esercito. Per queste ragioni oggi si parla di stupro come crimine contro l’umanità, crimine di genere e contro l’infanzia.

In Congo il fattore determinante è il controllo delle risorse minerarie e quindi, ancora una volta, sfruttamento del territorio. Gli stupri esprimono volontà di terrorizzare, umiliare, imporre il senso dell’inesorabilità di un destino di sottomissione totale e renderlo manifesto attraverso l’umiliazione della donna, la sua disumanizzazione. Lo stupro inoltre  rafforza lo spirito di complicità maschile, esalta il potere e l’autorità come valori inscritti nella virilità. Nella cultura dominante il corpo femminile è una risorsa da sfruttare. Pensiamo al lavoro agricolo, svolto nel mondo in gran parte dalle donne, al traffico di ragazze a scopo matrimoniale, al turismo sessuale o alla prostituzione.

3) D. Sulla prostituzione, anche in ambito femminista, non c’è sempre pieno accordo, o sbaglio?

1.      La prostituzione è una forma estrema di sfruttamento e oppressione, un turpe mercato alimentato da povertà e discriminazione che riduce ogni anno in schiavitù sessuale 5milioni di donne, di cui un milione di bambine. Esse sono inviate per lo più nei paesi occidentali dove l’accesso a prestazioni sessuali a pagamento ha avuto una crescita esponenziale. E’ considerata una servitù irrinunciabile, socialmente accettata e coperta dai media che riducono la questione alle “donne sfruttate” da un lato e a “pochi sfruttatori” (quelli che gestiscono i traffici) dall’altro. Una parte significativa della giurisprudenza femminista considera la prostituzione come tortura in quanto l’uso del corpo delle donne a fini di piacere rientra nei “trattamenti disumani e degradanti”. Esistono poi altre correnti di pensiero femminista che invece parlano di sex work, forse pensando di sottrarre le donne alla svalorizzazione.

4) D. A suo avviso è possibile tracciare una linea di demarcazione tra i metodi adottati dagli eserciti o dalle milizie comunque legate al potere (gruppi etnici dominanti o strumento di interessi economici) e quelli dei “movimenti di liberazione”? Ho in mente i gruppi guerriglieri latino-americani del secolo scorso o le milizie libertarie nella guerra civile di Spagna che semplicemente fucilavano gli stupratori (soprattutto quando provenivano dai loro ranghi)?

1.      Ritengo che quando si prendono le armi sia difficile sfuggire allo spirito del militarismo. In Guatemala, ad esempio, sia l’esercito che i gruppi paramilitari e i guerriglieri che si resero colpevoli di stupro condividevano la stessa immagine della donna, simbolo della terra e oggetto di appropriazione e anche di protezione. Le donne riproducono la nazione fisicamente e simbolicamente, incarnano la moralità di una comunità, mentre gli uomini la proteggono, la difendono e la vendicano. Il corpo femminile è il luogo simbolico del territorio della nazione, sia per lo stato che per i movimenti identitari, oggetto della protezione o dell’esecrazione maschile. La concezione maschile della vergogna e dell’onore è un nodo cruciale per comprendere le dinamiche degli stupri di massa. Si pensi alla Partizione dell’India quando tra 75mila e centomila donne furono violentate e rapite e molte altre furono uccise o spinte a togliersi la vita dai propri famigliari per non essere stuprate dagli uomini dell’altro gruppo religioso.

5) D. Esiste poi un’altra faccia della medaglia. La sua opinione sulle donne addestrate e arruolate nell’esercito afgano e presentate all’opinione pubblica come esempio di “emancipazione”?

1.      Vedo un rischio di un uso disonesto e retorico delle donne-soldato in Afghanistan non solo da parte di chi le arruola, ma anche di chi dice “in fondo ora ci sono le donne-soldato, anche le donne possono essere militariste, violente…”.

In tutte le società l’ordine simbolico dominante è quello maschile. Pensiamo all’enfasi su concetti come autonomia, indipendenza, competizione. Tutto ciò che è legato agli affetti, al quotidiano, alla responsabilità per la vita, alla cura è svalutato. Non esiste più l’ordine simbolico della madre e il lavoro domestico e di cura delle donne è invisibile, non pagato, svalorizzato. In un certo senso le donne costituiscono una casta, destinate per nascita a un lavoro senza valore. Non vedo quindi come ci si possa stupire se alcune accolgono i valori dominanti.

6) D. Volendo individuare i fattori economici all’origine dell’oppressione subita dalle donne, contro chi punterebbe il dito?

1.      Tra le opere che hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza della posizione delle donne nella società antica non si può non menzionare The living goddesses dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas. Il volume dimostra che nell’Europa antica nell’arco di alcuni millenni (dal 7000 al 3000 a.c.) si erano sviluppate diverse società matrifocali nelle quali la donna, associata in quanto madre alla natura, portatrice di vita e di morte, aveva un ruolo fondamentale a livello simbolico e religioso, così come nella pratica sociale. La studiosa descrive queste culture, poi quasi completamente distrutte con le invasioni delle popolazioni indoeuropee, come pacifiche, prive di gerarchie e di forti differenze di classe. Altri studi hanno disegnato un quadro che in parte rientra nelle linee tracciate da Engels. L’egualitarismo originario e la condizione delle donne iniziarono a declinare quando esse persero la loro autonomia economica, quando il lavoro delle donne, inizialmente pubblico nel contesto delle comunità o dei villaggi, fu trasformato in un servizio privato nei confini della famiglia.

D 7) Tale trasformazione è da considerare più un frutto della natura umana o della cultura?

1.      Come femminista rifiuto la dicotomia tra natura e cultura. Il femminismo, e in particolare l’eco-femminismo, hanno criticato il pensiero oppositivo. E’ impossibile separare la natura dalla cultura; si pensi alle prime relazioni delle donne con l’ambiente naturale. Spinte dalla volontà di nutrire e proteggere i figli, le donne svilupparono la prima vera relazione produttiva con la natura; in questo processo acquisirono una conoscenza profonda delle forze generative delle piante, degli animali, della terra e la tramandarono, ovvero crearono la società e la storia.

8)   D. Questo per la cultura. Diversa invece la posizione dell’eco-femminismo nei confronti della tecnologia, estranea se non ostile alla natura. Un atteggiamento in cui colgo alcune affinità con il pacifismo e l’ecologismo radicale; in parte anche con l’antispecismo…

1.      A partire dal dilemma ambientale contemporaneo e dalle sue connessioni con la scienza e la tecnologia, l’ecofemminismo ha ricostruito il processo di formazione di una visione del mondo e di una scienza che, riconcettualizzando la natura come una macchina anziché come organismo vivente, sanzionarono il dominio dell’uomo sulla natura e sulla donna. La percezione della natura come materia inerte si rese necessaria per eliminare ogni remora morale allo sfruttamento accelerato e indiscriminato delle risorse naturali e umane. Riducendo gli esseri viventi a macchine da studiare, su cui sperimentare, separando ragione ed emozione e stabilendo la supriorità della razionalità astratta, il pensiero scientifico dissocia l’uomo dalla donna, gli animali, la natura; femminilizza la natura e naturalizza le donne. La natura e le donne esistono per i bisogni degli uomini. Storicamente il mondo degli uomini è stato costruito in opposizione al mondo della natura e a quello delle donne. Essere uomini significa dissociarsi dal femminile e da quello che rappresenta: vulnerabilità, cura, inclusione. La mascolinità può essere raggiunta attraverso l’opposizione al mondo concreto della vita quotidiana, fuggendo dal contatto con il mondo femminile della casa verso il mondo maschile della politica o della vita pubblica.  Questa esperienza di due mondi giace al cuore dei dualismi oppositivi.

9) D. E per il futuro? Vede qualche possibile alternativa allo stato di cose presente?

1.      Il futuro di una comunità veramente umana richiede che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino la violenza. Per quanto riguarda i movimenti, al momento attuale tra femministe, pacifisti, ambientalisti, antispecisti (ma penso anche a chi si batte per i diritti dell’infanzia, contro lo sfruttamento minorile, in difesa delle minoranze, degli indigeni…) manca la connessione. Da questo punto di vista il caso del Congo – da cui eravamo partiti – appare emblematico: di fronte alla violenza sugli inermi, donne e bambini, alla distruzione delle foreste, all’estinzione degli animali, alla tragedia dei profughi non è più consentito avere sguardi parziali, occorre connetterli, sia a livello teorico che pratico.

da qui