C’è una trappola nella quale molti a sinistra in questi anni sono caduti: consiste nel dividere schematicamente, e con una certa rigidità, la sfera dei diritti sociali da quella dei diritti civili, indicando una specie di gerarchia tra le lotte
«Domanda random: tu ti ricordi quando si iniziò a fare questo discorso
di diritti civili e diritti sociali?»
«Io lo ricordo da sempre, quindi direi dai primi anni Ottanta. Ho chiesto a
E.B… dice: ‘Direi di sì, ma negli anni Settanta dei diritti civili non si
parlava, l’orizzonte era diverso. Forse ne parlavano i Radicali’. G. invece mi
dice: ‘Io di diritti civili ho sentito parlare a metà anni Ottanta… I radicali non
li associavo al concetto di diritto ma a quello libertario… O almeno era quello
che arrivava a me…’».
«Lo sai che questo scambio di messaggi è l’inizio dell’articolo, vero?».
Storie politiche stratificate in un’archeologia sepolta. Certo ci
restano addosso le ferite delle accuse di «spaccare il movimento»: le
parzialità rivendicate dei soggetti al margine costantemente a processo. Ma
inquadrato nella contrapposizione tra diritti civili e sociali, il problema è
sottilmente differente. Coinvolge, per esempio, una genealogia giuridica. I
diritti sociali si affermano non casualmente nelle costituzioni del secondo
dopoguerra, anche se si fanno risalire alla costituzione giacobina del 1793, a
quella messicana del 1917, a quella di Weimar del 1919. Non sorprende: c’è la
sfida dello stato sociale, già sul piatto da fine Ottocento, rilanciata dalla
Rivoluzione russa, dalla sua espansione, dai movimenti socialisti e comunisti
di tutto il mondo, cui già provava a rispondere il modello fordista. È nel 1976
però che vengono adottati due patti Onu, distinti ma complementari: quello sui
diritti civili e politici e quello sui diritti economico-sociali e culturali.
Si aggiungono alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 – di
nuovo, nell’immediato dopoguerra. In Italia, i diritti sociali trovano la loro
forza nel principio di uguaglianza sostanziale espresso all’art. 3 paragrafo 2
della Costituzione, oltre che nell’equilibrio politico compromissorio della
celebre e ambigua formula dell’art. 1: «L’Italia è una repubblica democratica
fondata sul lavoro». Repubblica democratica – e dunque civile – fondata sul
lavoro (e dunque sociale). Ma leggibile anche in senso opposto: democratica, e
dunque pacificata, e fondata sul lavoro – e quindi sullo sfruttamento.
Il fatto politico di svolta in Italia, che conduce all’accusa di
separazione tra diritti civili e sociali, è senza dubbio la scissione a destra
di Sinistra Ecologia e Libertà da Rifondazione comunista. Ancora: non è una
storia nuova, quella della marginalizzazione dei soggetti oppressi per
razzializzazione, genere e orientamento sessuale nei movimenti comunisti
eurostatunitensi (e nel caso dei soggetti Lgbtqia+ anche della persecuzione in
alcuni regimi comunisti). Attraversava il movimento come i partiti di sinistra,
grandi come il Pci o piccoli come Rifondazione comunista. Ma in Italia c’è un
salto di qualità «tecnico» nell’uso denigratorio e insistito di questa
separazione strumentale che prese a oggetto Nichi Vendola, e che ha lasciato
alla comunità Lgbtqia+ un’eredità difficile da sbrogliare. Costringeva noi
frocie antagoniste a una doppia contraddizione paralizzante: restare interdette
tra il denunciare l’omotransfobia del discorso che prendeva a bersaglio
personalità come Vendola e Vladimir Luxuria, o restare interdette sul sostegno
al centrosinistra che quasi è sottinteso in questa difesa. Mi raccontava mio
padre di una frase che attribuisce a Ugo La Malfa (ma che io credo si riferisca
invece al Partito repubblicano che, nel 1987, aveva scelto una linea di non
allineamento, né con De Mita, né con Craxi), «né con gli uni né con gli altri».
Che nel nostro palermitanissimo accento – e in quello di La Malfa – suonava come
«né coglioni né coglialtri»…
E dall’altro lato questa contraddizione lavorava dentro noi antagoniste
queer, così come nell’associazionismo nazionale: noi critiche, decostruttive,
pensose, militantiste rispetto al piano giuridico dei diritti civili. «Loro»,
invece, aggrappatə ai «diritti borghesi». Poco importava, a noi come alla
sinistra cisgenere ed eterosessuale, che in effetti per anni aveva dominato una
politica della cautela nell’associazionismo nazionale, persino su quella che
viene considerata la lotta-feticcio per eccellenza (e che non è invece solo uno
strumento di cattura, ma uno snodo delle politiche della popolazione): il
matrimonio egualitario. Ancora, poco importava che il centrosinistra, e il
Partito democratico in particolare, non sia mai stato in alcun modo «il partito
dei diritti» che viene accusato di essere, da sinistra e più di recente
dall’estrema destra. Lo si vede bene dall’angolatura della legge Cirinnà, che
ratifica la discriminante linea di interpretazione costituzionale che vuole la
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio eterosessuale, su cui
Yadad De Guerre ha scritto sul sito di Jacobin Italia. Ma sarebbe
forse bastevole pensare alla penosa vicenda dell’affossamento del ddl Zan,
della quale forse è ancora troppo doloroso ricostruire l’interezza. Da qui si
vede bene che bel regalo questa contrapposizione tra diritti «civili» e
«sociali» ha fatto alle destre. Vero, Zapatero era un bel sogno, e molti
partiti liberal-progressisti in tutto il mondo hanno tentato (tentato: appunto)
di sopperire alle loro politiche borghesi con qualche contentino di diritto. Ma
l’estrema destra ci ha chiuso a tenaglia, con la falsa causazione tra il
dedicarsi ai «diritti civili» e l’abbandono della classe lavoratrice da parte
delle sinistre.
Il problema è più antico, e non necessariamente legato al controverso
rapporto tra soggetti di genere e movimenti socialisti, comunisti, di sinistra.
Nel Che fare?, Lenin di fatto poneva una questione simile,
che mutatis mutandi dà la traccia – troppo spesso come
automatismo – all’impostazione di teoria e prassi più efficace. L’economicismo
– la tendenza a feticizzare la vertenza sindacale come unico nodo dell’attività
politica comunista (che all’altezza del 1902 si raggruppava anche intorno a
specifiche riviste russe) – era un’impostazione limitata (e, sostiene Lenin,
complice) nel suo essere scarnamente vertenziale. Così come insufficienti erano
le varie forme di politicismo, dall’appiattimento sulle correnti progressiste
dell’aristocrazia e della borghesia russa (e dei loro mal di pancia rispetto al
regime zarista liberticida) all’entusiasta primitivismo tattico dei gruppi
studenteschi che si approcciavano al marxismo e a chi lavorava nelle fabbriche.
Non irrecuperabili, però, queste direzioni: anzi, necessariamente da integrare
nell’azione organizzata di un partito che coniughi teoria e prassi. Mostrare
come le libertà civili sono impossibili da conquistare senza la pressione
politica organizzata della classe lavoratrice (per chi fa orecchie da mercante:
in tutte le sue differenze interne, razzializzazione, genere e abilità fisica
comprese).
Quando questa ennesima versione – diritti civili o diritti sociali? –
della nostra sacrificabilità ci è piovuta addosso, è toccato come sempre a noi
sciogliere la contraddizione. E non sono pochi i momenti in cui i movimenti
queer e femministi italiani hanno cercato negli anni di farlo. La mossa teorica
più promettente è stata rimettere in campo l’indagine sul lavoro domestico,
riproduttivo e di cura – salariato e non – condotta dai femminismi marxisti. Le
annuali chiamate allo sciopero di Non Una di Meno, pur dall’esterno delle
strutture sindacali, riflettono la forza e la necessità di quest’analisi.
L’ultimo tentativo – in ordine strettamente cronologico – è quello di Stati
Genderali. Personalmente, mi ha dato l’occasione di discutere con diversə
compagnə che hanno animato il progetto del Tavolo Lavoro, mettendo in gioco una
formula che recepivo da alcuni gruppi trotskisti e mi sembra racchiudere il
nostro «che fare». Sembra una banalità: le persone Lgbtqia+ fanno parte della
classe lavoratrice. Quello del Tavolo Lavoro è un tentativo di mostrare gli
effetti della discriminazione «civile» sul luogo di lavoro e di indicare come
possa essere oggetto di vertenza sindacale. Poche le leggi antidiscriminazione
esistenti, e per nulla tutelanti dei soggetti trans. E la scottante distinzione
tra unioni civili «omosessuali» e matrimonio «eterosessuale», che nel nostro
ordinamento giuridico ci marchia a fuoco, si verifica nelle estenuanti
procedure di dimostrazione che i diritti sanciti dalle unioni civili legati al
lavoro sono mutuati (ecco appunto: mutuati) sul matrimonio. Altro che feticcio,
per quanto non sia e non possa essere il solo obiettivo e aspirazione dei
movimenti femministi e Lgbtqia+ (né dei movimenti di sinistra, socialisti e
comunisti in generale). E la recente riforma cubana del diritto di famiglia
mostra quanto stretto sia il legame tra produzione e riproduzione, e tra civile
e sociale, se ha a che fare con un’idea complessiva della società.
C’è un ormai vecchio articolo di Rossana Rossanda sul Manifesto,
del 2008, intitolato «Sassolini nelle scarpe», che ho riscoperto grazie a un
amico che amorevolmente cerca di portarne le parole preziose nel Regno unito.
Scriveva Rossanda: «Questo è il leitmotiv. Ambientalisti, femministe,
immigranti, religioni, etnie, tutti me lo rimproverano: non li avevamo neanche
visti, sempre per via di quella contraddizione principale. Qualche amico
marxista si copre: è quel conflitto principale che oggi li mette in luce. Bah.
Che quel conflitto detto ‘principale’ non avesse un’idea di società è una balla
assoluta. È il solo ad averne avuta una diversa da quella del capitale e del
mercato. Ha proposto una società di uguali non perché ci voleva identici, ma
uguali in diritti e uguali nel patteggiarli. È stato il solo a disvelare la falsa
libertà di rapporto fra soggetti asimmetrici, quindi la falsa eguaglianza del
contratto sociale, la disinvoltura con la quale si garantisce la sola
proprietà, inclusa quella dei mezzi di produzione. È stato il solo a gridare: è
inaccettabile che uomini, donne e natura diventino cose, siano trattati come
merci. Il suo è stato un assalto al cielo difficilissimo. Non ce l’ha fatta. Ma
economicista sarai tu, modernizzatore dei miei stivali!».
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