Beni comuni, sostenibilità, responsabilità: i rappresentanti dei popoli
indigeni non vogliono essere solo le Cassandre della Terra.
Durante l’ultima conferenza delle parti dell’ONU sui cambiamenti climatici
in Egitto, un giornalista, esperto di quell’ambiente e di ambiente, non
giovanissimo ma gioviale, scuotendo la testa mi dice: “Ma questi non sono veri
indigeni, li ho visti arrivare col trolley, uno stava facendo una diretta su
Instagram”.
Davanti a noi c’erano gli attivisti dei popoli nativi brasiliani, nutrita
delegazione al seguito di Lula. Il neo-presidente li aveva portati a Sharm
el-Sheikh come testimonial del nuovo corso ecologista del Brasile. Per il
collega, tutta finzione. Puoi essere indigeno, o puoi avere il trolley e
l’iPhone, ma non entrambe le cose. Questo brandello di conversazione contiene
tante storie diverse: la rilevanza dell’attivismo indigeno nell’ecologia
contemporanea, la loro partecipazione sempre più politica agli eventi
internazionali come le COP, l’uso dei social media come strumento per
riprendersi la parola e diventare soggetti e non più solo oggetti di narrazione
e soprattutto la nostra inflessibile pretesa di integrità altrui. Un’addetta
alla comunicazione di una catena di alberghi di lusso mi disse una volta, con
analogo senso di delusione: “Sono stata in Tanzania, ma non c’erano i veri
Maasai, quelli che ho visto io avevano i Ray-Ban”. I Maasai,
popolazione dell’Africa orientale del gruppo nilo-camitico, sono stati tra i
fondatori dell’attivismo indigeno transnazionale contemporaneo, grazie
all’azione di Moringe Parkipuny, che negli anni Ottanta creò le prime
connessioni politiche tra i popoli indigeni dell’Africa e quelli del Nord
America.
In Occidente quando guardiamo ai popoli indigeni oscilliamo tra l’immagine
del selvaggio malvagio e pericoloso e quella del buon selvaggio ecologicamente
nobile. Entrambe queste idee vengono dalla stessa postura.
Come dice Fiona Watson, direttrice ricerca e advocacy di Survival International (l’ONG
specializzata nei diritti umani dei popoli indigeni), “oscilliamo tra
l’immagine del selvaggio malvagio e pericoloso e quella del buon selvaggio
ecologicamente nobile”. Entrambe queste idee vengono dalla stessa postura, prendere
quasi mezzo miliardo di esseri umani e metterli fuori dalla storia e dal tempo,
proprio nel momento in cui loro stanno usando ogni mezzo possibile per esserci
a pieno titolo: narrazioni, social media, diplomazia internazionale, alleanze
globali. In una fase di riflusso e stanchezza per i movimenti per il clima dopo
l’euforia scoppiata nel 2019, l’attivismo indigeno è l’unico che appare in
salute, in ascesa, con un potenziale politico ancora tutto da esplorare, con
più futuro davanti che alle spalle.
“Ogni popolo è contemporaneo”, dice Watson, “dobbiamo solo decidere di
quale contemporaneità stiamo parlando”. E questo è un primo punto fondamentale:
alcuni di noi, indipendentemente dal livello di istruzione e cosmopolitismo,
ancora vedono come un controsenso un indigeno con il trolley – e sembrano fermi
alla battuta di Corrado Guzzanti sulle potenzialità della comunicazione via
internet: “Aborigeno, ma io e te, che cazzo se dovemo di’?”. Era la
fine degli anni Novanta. Nel frattempo però l’ecologia più avanzata sta
ponendo ai popoli indigeni della Terra le sue domande più complesse: cosa c’è
dopo il nostro modello di sviluppo? Cosa facciamo dopo la fine della crescita?
Che senso può avere la nostra esistenza fuori da una società dei consumi? Cos’è
la responsabilità collettiva e come ci educhiamo a essa? E poi: cos’è la
natura?
La prima cosa che ci sfugge, quando affrontiamo il tema, è la scala: le
popolazioni indigene superano 400 milioni di persone, sommate sarebbero la
terza potenza demografica al mondo dopo l’India e la Cina. Come spiega
Alessandro Mancuso, antropologo dell’Università di Palermo, “in seguito ai processi
colonizzazione e creazione degli stati nazione, molti di questi popoli sono
stati spinti in zone che non sembravano utili allo sfruttamento economico”.
Confinati dove non c’era interesse a vivere o capacità di vivere, insomma, le
zone marginali della Terra. Però poi ci siamo accorti che quelle zone
corrispondono all’80 per cento della biodiversità, fronte sul quale le domande
rivolte alle popolazioni indigene si stanno trasformando in una preghiera. Non
è mistica, è scienza. Un rapporto FAO del 2021 stabiliva come, secondo ogni
metrica ecologica e climatica analizzata da oltre 300 ricerche nell’arco di un
decennio, le popolazioni indigene dell’America Latina sono i migliori gestori
delle foreste. Il rapporto chiedeva agli stati amazzonici (Brasile, Perù,
Bolivia) di affidare loro la governance “proprio nel momento in cui l’Amazzonia
è a un punto di rottura, con impatti preoccupanti sulle temperature, le
precipitazioni, la produzione di cibo e il clima globale”. Aborigeno, io e te
che ci dobbiamo dire? Per esempio: aiutaci.
L’ecologia più avanzata sta ponendo ai popoli indigeni della Terra le sue
domande più complesse: cosa c’è dopo il nostro modello di sviluppo? Cosa
facciamo dopo la fine della crescita? Che senso può avere la nostra esistenza
fuori da una società dei consumi?
Le popolazioni indigene hanno sempre posto anche un problema di tassonomia,
perché non esiste una definizione univoca per questo concetto che deriva al
latino e che è stato per la prima volta usato nei termini moderni da un
diplomatico per descrivere un gruppo di nativi della Siberia. Non tutti quelli
che sono arrivati prima su un territorio ne sono considerati indigeni. Gli
scandinavi sono arrivati nelle attuali Norvegia, Svezia e Finlandia tra il 4000
e il 2500 A.C., ma sono i Sami a essere considerati indigeni di quelle terre,
pur tracciando il loro arrivo 1500 anni dopo. Gli stessi Maasai sono arrivati
in Tanzania solo secoli fa: non tutti i popoli indigeni sono nativi, non tutti
i nativi sono indigeni. Nella nostra postura mentale coloniale, la linea
viene tracciata quando vediamo “simulacri del passato”, come scrive
l’antropologo Mark Rifkin, cioè usi e costumi che identifichiamo come
primitivi, ma ovviamente è primitiva solo questa linea di demarcazione. Per le
Nazioni Unite, è indigeno chiunque si definisca come tale, ma nemmeno questo
criterio è sempre stato efficace, almeno non da solo.
È difficile districarsi nell’infinita varietà di popoli che hanno
sviluppato culture, credenze e idee politiche in luoghi così diversi tra loro.
Juan Pablo Gutierrez è un attivista yukpa dalla Colombia, delegato
internazionale di ONIC Colombia (l’organizzazione nazionale indigena
colombiana). Nel suo ruolo, ne ha conosciuti in Tibet, Malesia, Mongolia,
Africa, America Latina. Collegato via Google Meet da un caffè di Parigi, dice
“Sono giunto alla conclusione che siamo tutti diversi, ma due cose ci
accomunano sempre: la prima è una visione collettiva della vita e della
società. La seconda è un rispetto profondo della natura”. E già qui si intravede
perché l’ecologia contemporanea metta i rappresentanti questi popoli in testa
ai cortei, virtualmente o fisicamente (come successo alla COP26 di Glasgow,
dove erano protetti da un cordone di attivisti urbani europei e nordamericani,
quasi un’infografica vivente). Visione collettiva della società e rispetto
della natura vuol dire essere depositari delle grandi questioni ecologiche
irrisolte del presente: beni comuni, sostenibilità, responsabilità.
Attraverso questa ondata di attivisti per il clima e per i diritti umani
che girano per il mondo come politici venuti da un altro mondo, i popoli che
rappresentano (cioè il proprio di origine e tutti gli altri) provano a porsi
come interlocutore politico alla pari: non la cosa più facile dopo secoli di
sterminio, oppressione, furto di terra e privazione di potere. La prima linea
di conflitto, però, è culturale, perché la “romanticizzazione”, come la chiama
Gutierrez, è solo un’altra forma di sottomissione. “La società egemonica ci
chiede di mettere in scena noi stessi, se non ci dipingiamo il viso e se non
abbiamo copricapi di piume ci accusano di non essere davvero indigeni. Da un
lato, i paesi occidentali ci chiedono di essere un faro, di aiutarli a
risolvere problemi che loro stessi hanno creato, dall’altro di continuare a
essere marginali, senza potere, senza diritti”.
Come nel processo delle COP, dove sono di fatto osservatori di decisioni
prese da altri, perché l’ONU procede per consenso, basta un veto e tutto salta,
ma quel veto lo possono mettere solo gli stati nazione. Privati del potere
sulle loro terre, le tradizioni e i costumi diventano una sorta di patria
portatile. Ma dobbiamo ricordarci che la cultura si evolve più velocemente
della geografia. Come dice Massimo Canevacci, antropologo e autore di Stupore indigeno – Le culture native in Brasile tra
rituali iniziatici e sfide digitali (Mar dei
Sargassi, 2023), “in ogni popolo c’è un rapporto dinamico tra tradizione e
mutamento. Questo processo nei popoli indigeni che conosco – nel Mato Grosso –
ma direi in ogni popolo indigeno, è forte, complesso ed è stato attivato
potentemente dal digitale. Non è vero che il mutamento distrugge la tradizione,
i rituali si modificano, le identità stanno diventando fluide, molteplici”. È
quello che nel 2011 scriveva in Native
Acts Joanne Barker, esperta di origine lenape (popolo del Delaware) di
femminismo e autodeterminazione nei popoli indigeni: “Certi standard di
autenticità rendono impossibile ai nativi la narrazione delle loro complessità
storiche e sociali, lo scambio culturale, il cambiamento, la trasformazione, la
possibilità di affermare che le identità sono conflittuali, complicate, storte,
moderne, tecnologiche e meticce”.
Nella nostra postura mentale coloniale, la linea viene tracciata quando
vediamo usi e costumi che identifichiamo come primitivi, ma ovviamente è
primitiva solo questa linea di demarcazione.
La politica è il punto di contatto principale. Nel consesso degli stati
nazione ereditati dal novecento, quasi mezzo miliardo di persone si ritrova
senza voce e senza diritto di voto, ma il movimento per il clima negli ultimi
anni ha strutturato un contro-potere in quella che il costituzionalista Luigi
Ferrajoli definisce “società civile internazionale”, quella che va da Greta
Thunberg a Papa Francesco, in cui i popoli indigeni stanno a pieno titolo e
hanno trovato legittimità e possibilità di azione, dopo secoli di lotte e
sangue. In Brasile il nuovo corso di Lula è indigeno, negli Stati Uniti hanno
guidato il movimento contro le infrastrutture fossili, ne sono stati collante
emotivo e strumento di organizzazione delle comunità in lotta. Nel suo primo giorno
da presidente degli Stati Uniti, Biden riporta il paese nell’accordo di Parigi
(dopo la fuga di Trump) e firma il blocco dell’oleodotto Keystone XL, un
riconoscimento diretto alle lotte indigene (poi contraddetto dai permessi di
estrazione su suolo federale in Alaska, ma nessun percorso è lineare).
Non c’è solo la politica, c’è anzi un altro settore che in questi anni ha
definito le linee di conflitto tra nord globale e popoli indigeni: il turismo,
e in particolare il turismo della conservazione e della biodiversità. È uno dei
mandati politici più forti di Survival International: mostrare come i
grandi parchi nazionali di Africa e Asia siano dei furti di terra su vastissima
scala, come la protezione della fauna all’occidentale abbia coinciso con
militarizzazione, violenza e violazione dei diritti umani. Il
prodotto venduto da quella forma di turismo è l’incontaminato, per essere
incontaminato i suoi abitanti devono essere cacciati e non ci devono essere
attività umane. In questo modo sono state spazzate via agricoltura e pratiche
pastorali che da millenni convivevano con la fauna.
Il messaggio di quel prodotto turistico è che esseri umani e natura non
possono convivere, un’idea che ha prodotto nuove storie di violenza e che è una
forma di rassegnazione anti-ecologica. Per questo motivo le organizzazioni
indigene sono scettiche, e spesso ostili, ai piani votati dall’ONU all’ultima
COP sulla biodiversità (COP15, Montreal 2022) di arrivare al 30 per cento di
aree protette entro il 2030. Oggi siamo al 14 per cento circa, raddoppiare la
quota in sette anni vuol dire candidare altri popoli indigeni all’espulsione,
proprio mentre la scienza ci dice che loro sono i migliori guardiani di quelle
terre, di quelle foreste, di quelle savane, di quella biodiversità.
“L’organizzazione ufficiale degli indigeni in Colombia ha come mandato
politico insegnare alle società non indigene che abbiamo bisogno della natura
per vivere, superare il più grande errore delle civiltà occidentale: averla
demistificata, desacralizzata, averla considerata come un oggetto da
conquistare”, dice Gutierrez. Vasto programma. Ogni popolo indigeno vede se
stesso e il mondo a partire da una propria cosmologia, e forse è questo un
altro punto di contatto: l’Occidente ha perso la propria.
È diventato un luogo comune che il nostro modello di sviluppo è al
capolinea, perché si stanno esaurendo le risorse su cui è fondato. Il problema
è che non sappiamo cosa mettere al suo posto.”I movimenti per il clima
dicono system change per il climate change, ma forse non siete
veramente coscienti di cosa significhi cambiare un intero sistema, tutto il
modello di vita, chi siete, come vivete, e riconoscere che chi siete e come
vivete dipende interamente dalle risorse che sfruttate sulle nostre terre”. I
rappresentanti dei popoli indigeni non vogliono essere solo le colorate
Cassandre della Terra in abiti tradizionali. Vogliono essere molto più di
questo: è come se volessero offrire gli elementi di una nuova cosmologia.
Visione collettiva della società e rispetto della natura vuol dire essere
depositari delle grandi questioni ecologiche irrisolte del presente: beni
comuni, sostenibilità, responsabilità.
In Occidente le scienze dure hanno svolto il loro compito, hanno definito
in modo inequivocabile i termini della crisi che stiamo affrontando, da luglio
si stanno rincorrendo nuovi record, i giorni più caldi mai affrontati dalla
civiltà umana, nello stesso periodo l’Organizzazione meteorologica mondiale ha
dichiarato che siamo entrati nella fase El Niño, riscaldamento antropico e
riscaldamento ciclico si potenzieranno a vicenda nei prossimi anni e con ogni
probabilità sfonderemo quota +1.5°C rispetto all’era pre-industriale nel corso
degli anni Trenta. Sappiamo tutto quello che c’è da sapere, quello che ci manca
è tutto il resto, le idee sociali, le narrazioni, un’immaginazione non
ansiogena della crisi, una proposta ridefinizione dei rapporti sociali ed
esistenziali che vada oltre il messaggio di terrore con cui i movimenti per il
clima hanno spesso tradotto la crisi climatica.
Come dice l’attivista yupka, gli oltre 400 milioni di umani di cui è una
delle voci avrebbero due basi da cui ripartire: una società di ispirazione
collettiva e una natura soggetto e non più oggetto, i due assi del che il
pensiero ambientalista prova a combinare da decenni. Per essere efficace
l’ecologia ha bisogno di una proposta, un mondo nuovo da mettere al posto del
mondo vecchio. È come se tutti stessero in questo momento sperando che un nuovo
Karl Marx sia al lavoro da qualche parte del mondo su un Capitale ambientalista
da usare come ispirazione. E non è detto che il Karl Marx del ventunesimo
secolo non sia un attivista indigeno.
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