sabato 26 agosto 2023

Liberté, égalité, fraternité, ma non per tutti

articoli e video di Mauro Armanino, Giuliano Martiniello, Jesús López Almejo, Davide Malacaria, Maria Zhakarova, Alberto Negri, Diego Ruzzarin, Nicolai Lilin, Francesco Masala, Eusebio Filopatro, Patricio Guzman, Gillo Pontecorvo.

A cosa somiglia il golpe militare nel Niger – Mauro Armanino

E’ il quinto della serie nel Paese dopo l’indipendenza ottenuta dalla Francia, come molti altri Paesi africani, nel 1960. Lo stadio nazionale di Niamey porta il nome del presidente Seyni Kountché , il militare autore del primo colpo di stato una dozzina d’anni dopo l’indipendenza citata. Nel breve arco della Repubblica si è visto il possibile e l’inimmaginabile in uno stato di diritto. Il Presidente militare Baré Mainassara, ad esempio,  è stato barbaramente trucidato nel 1999 all’aeroporto della capitale dalla sua guardia ravvicinata. Gli autori del delitto e i mandanti non si sono mai stati, a tutt’oggi, perseguiti penalmente. Il quinto golpe, in fase di sviluppo, appare singolare anche per la creativa modalità di esecuzione.

Il Presidente deposto, Mohamed Bazoum, si trova infatti prigioniero nel piano inferiore del suo palazzo e chi ha compiuto il golpe sono i militari della Guardia Presidenziale, in sé destinati a proteggerlo da quanto accaduto. Gli altri corpi militari si sono gradualmente allineati con gli autori del putsch che ha rovesciato il regime della settima Repubblica e sospeso la Costituzione con i partiti politici. Le minacce di intervento armato e le sanzioni economiche e politiche non hanno dato, almeno finora, nessun risultato di rilievo se non quello di compattare buona parte della popolazione attorno ai militari. Quanto al golpe stesso, atipico nell’esecuzione, contribuisce a creare, nel cuore della città un misto di sentimenti ed emozioni.

Nel frattempo, il  Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria, CNPS, ha provveduto alla nomina di un nuovo primo ministro, del ministri e dei governatori (militari) nelle differenti regioni in cui è suddivisa l’amministrazione del Paese. Ogni domenica e a volte anche durante la settimana, si assiste a manifestazioni popolari di appoggio alla giunta militare specie quanto più forte suonano i ‘tamburi di guerra’ della Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale, Cedeao. Per il resto, per la gente comune, tutto continua come sempre e la quotidiana lotta per l’esistenza si conferma e rafforza con le interruzioni più lunghe di luce, l’aumento dei prezzi e le frontiere che bloccano i camion pieni di mercanzie deperibili.

Nell’aria della capitale c’è un senso di incompiutezza e di attesa di ulteriori sviluppi che bene potrebbe esprimere il dramma di Samuel Beckett ‘Aspettando Godot’. Il protagonista che ha invitato i personaggi sulla scena e che non arriverà mai. I suoi vari porta parola ripetono che Godot manda a dire che arriverà non ora ma ‘certamente domani’. Proprio questo sentimento di accadimento di un qualcosa o qualcuno sembra caratterizzare il momento di questo strano putsch. Tra tentativi di mediazione più meno felici e minacce ricorrenti di intervento armato, scorre come il fiume Niger il sopravvivere quotidiano della gente qualunque. Chi più di lei, la sabbia, che tutto ascolta, sopporta e accoglie può comprendere che il colpo di stato si realizza nell’attesa di ‘Godot’ che, certamente, arriverà domani.


   

L’Ecowas prepara la macchina bellica per l’intervento in Niger – Davide Malacaria

…Eppure, nonostante i disastri che si profilano all’orizzonte, pochi leader politici delle nazioni europee hanno dichiarato pubblicamente la loro netta opposizione a questa avventura militare. Come se fosse qualcosa di fastidiosamente secondario. Sono gli stessi leader che si dicono addolorati per la sorte del popolo ucraino…

A proposito di questa indifferenza dei politici e dei media della UE, va notato che gli artisti della propaganda hanno impiegato un usuale escamotage semantico per diminuire la portata di quanto sembra profilarsi all’orizzonte.

Mentre per la guerra ucraina si parla ossessivamente di “invasione russa”, per la possibile guerra in Niger si usa l’espressione “intervento armato” (così è stata definita anche l’invasione dell’Iraq e le altre recenti guerre d’Occidente).

Peraltro, anche l’intervento russo in Ucraina deve la sua genesi a un golpe, quello di piazza Maidan, che ha portato al governo politici sempre più proni ai desiderata d’Occidente e sempre più ostili a Mosca.

La “brutale e non provocata invasione russa” è stato il refrain che ha accompagnato ossessivamente il conflitto ucraino. La brutale e non provocata invasione del Niger da parte delle truppe dell’ECOWAS, supportate dalla NATO, vedrà tutt’altra narrazione.

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Maria Zhakarova: Londra interviene in Africa con i suoi “burattini ucraini”

Il Regno Unito sta utilizzando personale militare ucraino per aumentare artificialmente “il potenziale di conflitto in Africa”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

I media russi hanno riferito questa settimana che il servizio segreto britannico MI6 ha preparato una squadra di sabotaggio composta da personale militare ucraino da inviare in Africa con l’obiettivo di ostacolare la cooperazione tra la Russia e i Paesi africani, secondo una fonte diplomatico-militare.

“Dato che l’MI6, rappresentato dal suo capo Richard Moore, si è recentemente vantato apertamente del suo coinvolgimento nella pianificazione e nell’esecuzione di attacchi terroristici da parte del regime di Kiev contro il nostro Paese, notiamo le intenzioni delle autorità britanniche di utilizzare i fantocci ucraini per ‘risolvere i problemi’ anche in altre regioni del mondo”, ha dichiarato sabato la Zakharova a RIA Novosti.

In particolare, ha accusato Londra di continuare ad “aggrapparsi disperatamente alla sua eredità coloniale” e di non risparmiare sforzi per “mantenere i Paesi del continente in una posizione di dipendenza”.

“I britannici non sono disposti a parlare con loro su un piano di parità e ritengono possibile, come in passato, intervenire nei loro affari interni”, ha sottolineato.

Allo stesso tempo, il regime del presidente ucraino Vladimir Zelensky “ha bisogno solo di soldi”, ha ricordato, suggerendo che “in queste macchinazioni, i soldati ucraini, a quanto pare, servono come una sorta di pagamento da parte di Kiev per gli aiuti militari occidentali”.

“Secondo uno schema ben collaudato, il nesso NATO-Ucraina intensifica artificialmente il potenziale di conflitto in Africa. Allo stesso tempo, africani e ucraini pagheranno per la realizzazione delle ambizioni dei neocolonialisti britannici”, ha dichiarato.

La Zakharova vede i piani di collaborazione come un’ulteriore prova che “il regime di Zelensky è un degno successore di [Stepan] Bandera, [Roman] Shukhovich e dei loro scagnozzi”, riferendosi ai leader dell’estrema destra ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale. “Anche allora i complici nazisti uccidevano e morivano, non nell’interesse dell’Ucraina e del suo popolo, ma nell’interesse dei loro padroni europei”, ha detto.

Una fonte diplomatico-militare ha riferito a RIA Novosti che i servizi segreti ucraini hanno selezionato una squadra di 100 militari ucraini con esperienza nel conflitto del Donbass, su ordine dell’MI6, per organizzare ed eseguire il sabotaggio di oggetti infrastrutturali in Africa e per eliminare i leader regionali orientati alla cooperazione con la Russia. L’obiettivo dell’operazione è impedire la crescente influenza di Mosca nel continente. Il gruppo eversivo dovrebbe lasciare il porto di Izmail per Omdurman (Sudan) nella seconda metà di questo mese.

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Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione – Eusebio Filopatro

Il 26 luglio 2023 gli uomini della guardia presidenziale nigerina hanno catturato il presidente Mohamed Bazoum, dando inizio ad un colpo di stato.

L’evento ha brevemente spostato i riflettori verso il Sahel, una delle regioni più trascurate e povere del mondo, che pure con buone ragioni è stata definita la frontiera meridionale d’Europa (da ultimo in una lettera di Roberta Pinotti a Repubblica).

Nella presente serie di articoli mi propongo (1) di contestualizzare il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni, e in particolare sullo sfondo della travagliata dissoluzione del neo/postcolonialismo francese, (2) di valutare le prospettive e le difficoltà di un eventuale intervento ECOWAS, e (3) di inserire queste considerazioni nello scenario internazionale più ampio, in particolare rispetto alle aspirazioni realistiche che l’Europa se non l’intero Occidente può mantenere rispetto al suo (dis)impegno in Sahel e in Africa.

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Prima parte

Niger: Le ragioni di un golpe

In un articolo del 1989, Guy Martin ricostruiva le relazioni franco-africane da un punto di vista spinoso: l’estrazione dell’uranio. Martin introduceva la questione del Niger chiarendo senza troppi giri di parole che esso “può anche essere descritto come un’enclave neocoloniale dominata dagli interessi politici, economici, culturali e strategici francesi” (p. 634). In conclusione, alla sua disanima, Martin suggeriva anche un’interpretazione inquietante quanto plausibile del golpe del ’74:

“Nel marzo 1974, i rappresentanti di Francia, Niger e Gabon si incontrarono a Niamey per discutere della domanda e dell’offerta di uranio, ma a causa del rifiuto della delegazione francese di prendere in considerazione qualsiasi aumento del prezzo per i produttori, si decise di sospendere i negoziati e di riprenderli il mese successivo. È difficile credere che sia stata una completa coincidenza che il Presidente Diori sia stato rovesciato da un colpo di Stato militare appena 72 ore prima della ripresa dei negoziati tripartiti, e appena 48 ore prima che Diori partisse per New York, dove era previsto un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul tema delle materie prime.” (p. 637).

Insomma, storicamente, anche dopo la cessazione formale del colonialismo (1897-1960), è difficile descrivere i rapporti tra Francia e Niger se non come a una forma di imperialismo estrattivo, peraltro rivolto da uno degli stati più prosperi del mondo, una potenza nucleare e membro del Consiglio di Sicurezza, contro il paese che è terzultimo per indice di sviluppo umano.

Anche se scarseggiano analisi scientifiche altrettanto franche, comprensive e dettagliate quanto quella di Guy Martin, non ci si deve illudere che negli ultimi decenni la situazione sia sostanzialmente cambiata. E questo non a detta di media antioccidentali, siano essi russi o cinesi, o degli studiosi “radicali” che operano nello stesso occidente: sono invece le stesse testate occidentali, assieme alla diaspora nigerina, a testimoniare i problemi drammatici che hanno contribuito al rovesciamento di Bazoum.

Tra 2010 e 2014, il Guardian ha pubblicato una serie di articoli (ad esempio 1,2,3,4) che rivelavano non solo la mancata implementazione delle misure di sicurezza per le miniere di uranio promesse da parte della francese Areva (poi confluita in Orano), ma anche i difficili e poco trasparenti negoziati con il governo nigerino. I proventi del colosso francese dell’uranio superavano di 4 volte l’intero bilancio del Niger, e i negoziati riguardavano l’incremento delle royalties da un misero 5% al 12%. Nonostante non fosse neppure in discussione che circa nove decimi del ricavato dall’uranio rimanessero alla francese Areva, alla quale il Niger ha anche assicurato colossali esenzioni fiscali, Areva sosteneva che concedere un ulteriore 7% allo stato nigerino avrebbe reso insostenibile il suo modello d’affari. La conclusione dell’accordo non ha sostanzialmente intaccato questa relazione sbilanciata e, si sospetta, forzata. Addirittura, l’ONG “pubblica ciò che paghi” (Publish What You Pay) che monitora il pagamento ai governi da parte delle multinazionali che si occupano di risorse naturali, sostiene che Areva-Orano avrebbe diminuito le royalties grazie a un deprezzamento dell’uranio nigerino.

Ancora nel 2017, un eccellente reportage di due giornalisti, il belga Lucas Destrijcker e il maliano Mahadi Diouara, rivelava al mondo l’impatto devastante dell’estrazione dell’uranio nella città nigerina di Arlit. Citando organizzazioni e testimonianze locali, Destrijcker e Diouara spiegavano ad esempio che, mentre la popolazione locale era priva di acqua corrente, la miniera consumava miliardi di litri della falda acquifera locale, e delle interviste condotte su 688 impiegati nel sito mostravano che circa un quarto aveva sofferto gravi problemi di salute, al punto che 125 avevano dovuto abbandonare il lavoro per disturbi presumibilmente legati alla tossicità dell’uranio. Nel 2012, un tribunale francese ha condannato Areva per la morte di tumore di Serge Venel, ma ovviamente l’accesso a un tribunale è ben al di là delle possibilità dei minatori nigerini.

Anche il convincimento della stampa occidentale sulla “democraticità” di Bazoum sembra essere cosa recente. Il 25/6/20 Libération parlava di “politica repressiva nel silenzio colpevole della Francia” e di “degrado delle libertà pubbliche” in un articolo sugli arresti di attivisti anti-corruzione. Nel 2021, Amnesty International segnalava arresti di massa, violenze, e censura di internet in seguito alle contestate elezioni. Ancora più chiari sono una serie di comunicati ed editoriali apparsi negli ultimi anni sul sito ufficiale della diaspora nigerina, www.nigerdiaspora.net. Il 24/06/23, quindi un mese prima del colpo di stato, uno di questi si rivolgeva accoratamente al presidente Bazoum, spesso accusato di essere un fantoccio nelle mani della Francia, riguardo alla conferma della presenza militare francese in Niger: “Vi avrei consigliato di prendere le distanze dalla Francia, incapace di liberarsi del suo spirito neocoloniale e di fornire al nostro Paese ciò di cui ha davvero bisogno, senza dover subappaltare la sua sicurezza a nessun altro”.

Altrattanto negativo è quindi ben diverso dalla narrazione giornalistica, è il giudizio sul governo di Bazoum espresso da Padre Mauro Armanino, un missionario italiano che risulta tuttora presente in Niger. Scrive Armanino sul suo blog:

“Mohamed Bazoum è il successore – nonché il prescelto – di Mahamadou Issoufou, entrambi fondatori del PNDS. Il decennio di potere del suo mentore, contrariamente all’opinione occidentale e africana, ha gradualmente contribuito ad affossare la fragile democrazia nel Paese. Demoliti i partiti, eliminato l’oppositore principale Hama Amadou, divisa per compravendita la società civile e, infine, l’operazione seduzione ‘pecuniaria’ per la classe intellettuale del Paese, la democrazia si è trasformata nel regno tentacolare e fondamentalmente corrotto del PNDS. Bazoum, malgrado la complicità degli osservatori internazionali che hanno ratificato i risultati dello scrutinio delle ultime presidenziali del 2021, è stato eletto in modo fraudolento.”

Infine, il drammatico deterioramento della sicurezza in Niger è pure segnalato a margine delle ambiziose – e fallimentari – iniziative di cooperazione che in anni recenti l’Unione Europea ha rilanciato con il “G5 Sahel”. Questo gruppo di stati, formalizzato nel 2014 e con sede a Nouakchott, comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad: cioè, paesi la cui maggioranza è nel frattempo passata al di fuori dell’orbita d’influenza europea per una serie di colpi di stato. Limes lo presentava come un “consesso regionale fortemente sponsorizzato (anche economicamente) dall’Unione [Europea]”.  Ebbene in questo quadro già nel 2018 l’ISPI definiva il Niger “il perno instabile della politica UE nel Sahel” e nel rilevare il protagonismo dell’allora Ministro dell’Interno Mohamed Bazoum, ne citava il (poco) democratico compiacimento nel sopprimere le manifestazioni della società civile: ““li abbiamo arrestati come polli”, si rallegrava Bazoum. Le motivazioni dei manifestanti? “Aumento dell’IVA e delle imposte su beni di prima necessità, dal riso all’acqua corrente, avrebbero colpito le fasce deboli della popolazione”. E nel 2018, più generalmente, prima di rilanciare le ambiziose affermazioni di Tajani su un “Piano Marshall” per il continente africano, lo IAI riportava che “il Sahel è negli ultimi anni diventato una regione fuori controllo in cui, grazie alla vastità dei luoghi e al caos politico, trovano rifugio jihadisti pronti a riorganizzarsi”.

In questo contesto, sebbene sia già stato scritto ampiamente in proposito, è impossibile non sottolineare gli effetti destabilizzanti della distruzione della Libia scientemente voluta dai poteri occidentali, come del resto denunciava già nel 2014 lo stesso Bazoum, stavolta da Ministro degli Esteri.

Insomma, a conclusione di una pur rapida carrellata sull’argomento, e rivedendo la stessa stampa occidentale ed europea, inclusi alcuni articoli di analisi, accanto all’imprescindibile voce della diaspora nigerina e delle (poche) voci indipendenti dal posto, si riscontrano gli stessi problemi di instabilità, impoverimento, corruzione, e sfruttamento coloniale denunciati dai golpisti come motivazione per il loro atto di forza. Al contrario, l’insistenza sulla cristallina democraticità del deposto presidente Bazoum suona perlomeno esagerata, anche perché il medesimo ha occupato posizioni di responsabilità al vertice della politica nigerina per più di un decennio, durante il quale i gravi problemi che affliggono il popolo nigerino non sono stati risolti.

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Il colpo di stato della vergogna – Mauro Armanino

In realtà è lei, la vergogna, che ha provocato e poi accompagnato il colpo di stato di Niamey del 26 luglio scorso. Scomparsa da quasi dappertutto la vergogna, intesa come un … ‘profondo e amaro turbamento interiore che ci assale quando ci rendiamo conto di aver agito o parlato in maniera riprovevole o disonorevole’… era introvabile. Una scomparsa graduale, metodica e capillare, quella della vergogna, che non ha risparmiato alcun ambito, professione e circostanza. Proprio lei, dunque, è l’autrice principale del golpe militare che ha destituito il presidente. L’ha fatto anzitutto per lei, per non scomparire del tutto dalla storia e dalla cronaca quotidiana ma anche per chi, come noi, avendo agito (oppure omesso di agire) o parlato in maniera disonorevole desidera in qualche modo riscattarsi. Tra il colpo di stato e la vergogna c’è una relazione di mutua dipendenza e complicità.

Era infatti insopportabile continuare a trattare la politica in questo modo. Senza vergogna si trattava la cosa pubblica come un affare privato e la ‘transumanza’ di eletti ed elettori da un partito politico all’altro si accordava con la maggioranza del momento.

La costituzione della repubblica, l’applicazione della giustizia, l’assemblea legislativa e l’esecutivo erano trattati in funzione dell’affiliazione partitica. I contratti e bandi di concorso per i vari cantieri in progetto erano affidati con estrema disinvoltura a seconda delle ricompense elettorali o di future alleanze di governo. Senza vergogna si viveva la politica come avvenimento elettorale finalizzato all’accaparramento e la gestione amministrativa del potere. Lo spazio politico, inteso come esperienza di dialogo e liberazione della parola su un progetto comune di società, è stato gradualmente confiscato e reso obsoleto dal nuovo e implicito ‘ministero della verità’ di regime.

La vergogna è stata altresì espunta dalla scelta delle sanzioni economico e commerciali che, com’è noto ormai a tutti, sono deleterie per i più poveri e infliggono sofferenze a chi le perpetra e a chi le subisce. Senza vergogna vengono decise, condotte, precisate, applicate e giustificate da chi ha preso in ostaggio i popoli della sotto -regione soprattutto per assicurare e garantire a tempo indeterminato il proprio potere. Identificare gli stati, una creazione recente e ambigua, coi popoli è una truffa o, se vogliamo, un’indebita confusione che fa il gioco di chi usa il popolo come merce di scambio per manipolare la sovranità. Peggio ancora qualora si trattasse di innescare un intervento armato per riportare nel Paese un’ipotetica democrazia costituzionale. Sotto qualunque formato esso si presenti la stessa vergogna sarebbe tra le vittime collaterali dell’intervento. La guerra è sempre un’avventura senza ritorno, come scrisse qualcuno.

La vergogna è l’ ‘espressione di un disonore umiliante’ e sembra, come tale, latitante nell’ambito, sappiamo quanto importante, della creazione di condizioni di vita degradanti in una vasta porzione di popolo. Dal cibo all’educazione scolastica, dalla salute alla casa, dal lavoro alle prospettive d’avvenire per i propri figli, tutto sembra inghiottito dalla miseria quotidiana. Si sopravvive con nulla o poco più e si spera che l’indomani porti qualcosa di differente e che il Dio dei poveri si accorga di quanti gridano e tendono le mani. In effetti è proprio l’educazione alla mendicità che, strada facendo, caratterizza le relazioni e le classi sociali. Centinaia di piccoli scolari senza scuola sono inviati ogni giorno sulle strade delle città per mendicare e per chi ha lavorato poi, si tratta di mendicare il salario. Si mendica un posto in paradiso e nei taxi, in università e persino in carcere dove, per strano possa sembrare, si paga per trovare un posto per dormire in cella.

Forse, con l’aria di scusarsi per il ritardo, la vergogna tornerà ancora a bussare alla porta della giustizia.

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Alberto Negri – Meloni e il caos in Libia: allo sbando, altro che «piano Mattei»

L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio

Altro che piano Mattei per l’Africa. L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio. La prima fu quando nel 2011 venne abbattuto – con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare – il regime di Gheddafi che solo mesi prima accoglievamo a Roma come un trionfatore.

La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano – sempre interessato al controllo dei migranti – , fu abbandonato al suo destino già incerto, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu “salvato” dall’intervento militare della Turchia di Erdogan.

La terza volta sta succedendo in questi giorni in maniera forse meno eclatante ma sicuramente alquanto ignorata: a cavallo di ferragosto due potenti fazioni di Tripoli si sono affrontate con circa una sessantina di morti. Una lotta intestina, con la partecipazione importante dei salafiti, che fa apparire assai fragile il governo di Daibaba con cui Meloni e company stringono accordi labili che contrabbandano agli italiani come pietre miliari dell’agire del governo. La realtà è ben diversa. Pur essendo l’Italia presente sul territorio libico con la sua intelligence, ben poco può fare – soprattutto da sola – con gli attori protagonisti della vicenda. In primo luogo la Turchia che in Tripolitania vuole dare ulteriore consistenza ai suoi disegni di potenza neo-ottomana e mediterranea e si propone persino di dare vita a un esercito libico unificato. I suoi piani si scontrano – ma in qualche caso anche si incontrano – con quelli della Russia, che oltre alla presenza della Wagner in Cirenaica, è disposta a negoziare con Ankara e con il Cairo.

Putin si prepara a incontrare Erdogan per la questione Ucraina e del grano mentre lo stesso reiss turco sta lavorando da mesi a un meeting con il generale-presidente egiziano Al Sisi. I due sono stati divisi dagli sviluppi delle primavere arabe del 2011 quando nel 2013 Al Sisi con il suo colpo di stato fece fuori sanguinosamente i Fratelli Musulmani sostenuti dalla Turchia. In questo quadro libico politico- diplomatico che vede anche la riunione dei Paesi Brics – sempre più lanciati a sganciarsi da quella che considerano come egemonia occidentale e del dollaro – l’Italia e l’Europa non toccano palla. E come loro gli Usa e l’Onu. Visto che proprio ieri il capo del Consiglio presidenziale, Mohammed Menfi, il presidente della Camera dei rappresentanti, Aqila Saleh, e il generale dell’Est Khalifa Haftar hanno annunciato che non parteciperanno a nessun comitato legato alla situazione politica, ad eccezione di quelli aderenti al quadro nazionale interno; un chiaro rifiuto di partecipare a un dialogo che potrebbe essere proposto dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil). Sono circa due anni che l’Onu e gli europei tentato invano di fare andare i libici alle urne.

Insomma uno schiaffo al Palazzo di Vetro e alla comunità internazionale “occidentale” che vengono giudicati sia a Ovest in Tripolitania che a Est in Cirenaica come degli intrusi. Cosa significa tutto questo? Non che la Russia, la Turchia o l’Egitto abbiano in Africa tutto questo successo. Anche loro devono avere a che fare con i sommovimenti di un continente dove sono in atto guerre, come in Sudan, rivolte jihadiste (Mali, Burkina), golpe e crisi economiche spaventose, dalla Tunisia al Sahel. Significa però che qui degli interventi occidentali non ne vogliono più sapere.

Si è visto recentemente in Niger dove alcune migliaia di soldati occidentali sono accucciati all’aereoporto di Niamey, consapevoli che c’è il rischio che alzando un dito potrebbe finire come a Kabul nel 2021.

Del resto come dare torto agli africani e ai leader della regione tra Medio Oriente e Nordafrica che hanno subito per vent’anni i disastri provocati dagli occidentali, dall’ Afghanistan all’Iraq alla Libia. Con i risultati che sappiamo tutti e una consapevolezza comune nel Sud del mondo: che gli Usa con il loro corteo di docili alleati lavorano più per la destabilizzazione che per la stabilità. Una stabilità che non ci può né ci deve piacere perché fatta di autocrati, democrazie calpestate e repressione: ma allo stesso tempo dovremmo anche smettere di volere imporre agli altri dei modelli al prezzo pesantissimo di morti, carestie e tanti, tanti profughi.

I risultati sono stati in questi anni peggiori dei mali che volevamo combattere. Un interlocutore di Tripoli è esplicito: «Voi europei siete arenati in una visione assai distante da questi territori». Vorrei replicare, come ho fatto, che questo non accade da oggi ma che è un a tendenza in atto da molti anni, il frutto avvelenato di una propaganda e di una narrativa distorta che voleva fare dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Libia dei modelli poi respinti dalla realtà dei fatti e dal sentire dei popoli. Ma qui, come si usa dire, non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire.

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A noi piacciono i nostri colpi di stato – Francesco Masala


L’Algeria vieta il suo spazio aereo a Parigi per un attacco in Niger, gli algerini sono degli ingrati, dopo tutto il bene che la Francia ha fatto all’Algeria (il 17 ottobre 1961, per esempio)


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