lunedì 21 agosto 2023

Il problema non è la crescita, ma la sostenibilità e la distribuzione - Guillermo Sullings

 

Recentemente abbiamo letto articoli con posizioni diverse su alcuni dati relativi alla crescita del PIL nei Paesi asiatici. Per alcuni questi dati sono incoraggianti, perché potrebbero significare migliori livelli di occupazione e di reddito in settori trascurati. Per altri non è una buona notizia perché in un pianeta sull’orlo del collasso, il paradigma della crescita come sinonimo di benessere si scontra con l’urgenza di frenare il disastro ecologico. In realtà, entrambi i punti di vista sono comprensibili e in parte giusti, ma la situazione è troppo complessa per affermare categoricamente che la crescita del PIL è buona o cattiva di per sé. Abbiamo affrontato la questione poco più di cinque anni fa in uno dei capitoli del libro “L’umanità al bivio. I passi verso la Nazione Umana Universale”, di cui riporto alcuni paragrafi:

“In questo mondo globalizzato sotto il segno della predazione capitalista, non solo dobbiamo sopportare l’intervento militare delle potenze al di fuori dei loro confini e che le multinazionali e i gruppi finanziari delle potenze dominino il corso dell’economia internazionale, ma anche che l’impatto ambientale della loro voracità predatoria colpisca ogni angolo del pianeta. Ma non solo: dobbiamo anche sopportare alcune voci che accusano i Paesi emergenti di aver accelerato l’effetto serra con la loro crescita nell’ultimo decennio.

E c’è già chi si chiede cosa succederà se i BRICS continueranno a crescere fino a quando tutti i loro abitanti non raggiungeranno lo stesso livello di consumo medio di un cittadino degli Stati Uniti o dell’Europa, perché in questo caso ci vorrebbero altri cinque pianeti per rifornirli.

Cosa volete? Che il mondo si fermi ora, in modo che i cittadini del cosiddetto primo mondo possano mantenere il loro status per sempre e il resto della popolazione mondiale rimanga in povertà per non incidere ancora di più sull’ambiente? Ebbene, una simile pretesa non avrà successo, in primo luogo perché le popolazioni aspirano a un mondo più giusto ed equo e non accetteranno un simile ordine internazionale; in secondo luogo, perché gran parte della produzione dei Paesi emergenti non è destinata al proprio consumo, ma a rifornire il primo mondo. Le fabbriche in Cina e in altre parti dell’Asia e dell’America riforniscono il mondo intero di prodotti a basso costo, e per farlo succhiano risorse naturali da tutto il pianeta.

La continua espansione della frontiera agricola in Brasile e Argentina non risponde alle loro esigenze alimentari, ma principalmente alla produzione di soia e biodiesel per l’esportazione. Anche l’estrattivismo minerario in Africa e nella regione andina dell’America Latina non si spiega con il consumo locale.

 In breve, viviamo in un mondo globalizzato, in cui una piccola percentuale della popolazione, costituita fondamentalmente dagli abitanti del cosiddetto primo mondo e dal 10% con i redditi più alti nel resto delle nazioni, soffre di un’insaziabile sete di consumismo, e per soddisfare questa sete ha creato fabbriche distribuite in alcune parti del mondo, e per rifornirle esaurisce le risorse naturali dell’intero pianeta. E c’è una grande percentuale della popolazione che è coinvolta in questo processo nel mercato del lavoro, in modo da avere un reddito con il quale anch’essa consuma e avendo come modello il consumismo dell’élite di cui sopra, si sforza di guadagnare di più. Si forma così un’enorme piramide di reddito e consumo, che risucchia sempre più risorse, senza che si veda il limite del consumismo in alto e senza che si raggiunga il minimo per la sussistenza in basso. In questa piramide risiede gran parte della spiegazione dell’attuale disastro ambientale”.

Da quando ci siamo occupati di questo tema fino ad oggi, il riscaldamento globale ha continuato a creare scompiglio e rallentarlo è diventato sempre più urgente, ed è logico che si levino voci contro tutto ciò che significa aumentare l’estrattivismo e l’inquinamento. Ma dobbiamo stabilire delle priorità in questo senso; piuttosto che allarmarci per la crescita del Vietnam, o dell’India, o anche della Cina, dove ci sono ancora milioni di persone al di sotto della soglia di povertà, dovremmo preoccuparci del fatto che gli Stati Uniti, con solo il 4% della popolazione mondiale, producono un quarto dell’anidride carbonica; che il loro consumo di elettricità equivale a quello di 160 Paesi messi insieme e che Las Vegas da sola consuma più energia di diversi Paesi africani.

Dobbiamo cambiare il paradigma della crescita, indirizzando lo sviluppo verso settori meno aggressivi per il nostro pianeta, ma dobbiamo anche fare in modo che le risorse siano distribuite in modo diverso nel mondo. E per raggiungere entrambi gli obiettivi dovremo lavorare su un cambiamento culturale, poiché la cultura del consumismo è la causa principale della depredazione del pianeta e non la logica ricerca del progresso nei Paesi più poveri. Naturalmente, una riconversione produttiva basata su questo cambio di paradigma deve avvenire per gradi.

In un altro paragrafo del libro abbiamo detto quanto segue:

“Le attuali fonti di occupazione, che generano il reddito dei lavoratori, sono organizzate in base all’attuale struttura dei consumi e qualsiasi cambiamento repentino dei livelli di consumo, che non sia accompagnato da una riprogettazione produttiva, avrà un forte impatto sui livelli di occupazione. Sarà quindi necessario fare un passo alla volta. Torneremo su questo punto quando esamineremo i passi da compiere a livello nazionale, ma occorre tenerne conto quando si pensa a possibili campagne globali da condurre su questi temi. Negli ultimi tempi si è parlato di decrescita e non è una cattiva idea, soprattutto quando si parla di sobrietà dei consumi per l’élite del pianeta. Ma considerando che gran parte dell’umanità vive in condizioni di sottoconsumo, forse sarebbe meglio parlare di una ridistribuzione delle risorse attuali e contemporaneamente lavorare sullo sviluppo umano, per migliorare la qualità della vita delle persone riducendo l’estrattivismo, aumentando e migliorando i servizi. Ad esempio, non è lo stesso che il PIL di un Paese cresca perché è aumentata l’estrazione di minerali o perché è raddoppiato il numero di automobili, come non lo è che cresca perché sono aumentati i servizi sanitari e scolastici, dato che questi ultimi non hanno alcun impatto ambientale.“

Quello che cercavamo di spiegare in quest’ultimo paragrafo è che se il benessere della popolazione non può essere misurato in termini di crescita del PIL, non si può nemmeno affermare che tutta la crescita sia negativa per il pianeta; ma soprattutto non si può affrontare il tema della sostenibilità senza capire che la piramide della disuguaglianza deve essere smantellata e che questo si ottiene con progetti che si facciano carico della complessità del problema e non con slogan. Certo, è molto difficile che ogni individuo isolato, angosciato dalla depredazione del pianeta, prenda in considerazione soluzioni su larga scala; forse è più facile alleggerirsi la coscienza consumando un po’ meno e sentendo che questo è il suo granello di sabbia per la causa della sostenibilità. Tuttavia, se quei granelli di sabbia sono pochi, verranno spazzati via, e se diventano tanti, forse alcuni dei lavoratori delle fabbriche che le multinazionali hanno impiantato in tutto il mondo rimarranno senza lavoro, e quindi senza la possibilità di mantenersi, senza intaccare minimamente chi accumula ricchezza, né migliorare sostanzialmente la situazione dell’ambiente.

Non dobbiamo assolutamente minimizzare o sottovalutare le azioni individuali, siano esse la riduzione dei consumi personali, o il riciclo, o l’uso razionale dei fattori di produzione; queste azioni tuttavia non possono diventare un placebo per la nostra coscienza colpevole di appartenere a una specie che sta distruggendo il pianeta, ma devono diventare il punto di partenza per articolare movimenti sociali che facciano sempre più pressione sui governi affinché apportino i cambiamenti strutturali che sono necessari nel mondo. Certo, questa è la strada più difficile e può anche sembrare utopistica, ma la rassegnazione dell’individualismo è una strada che non ci porta da nessuna parte; mentre ognuno fa quello che può per il pianeta, non dobbiamo perdere di vista gli obiettivi comuni, che non vanno scartati perché difficili, se vogliamo davvero fermare il suicidio planetario.

Smantellare l’industria degli armamenti e convertirla in un’industria che sviluppi infrastrutture nei Paesi emergenti.

Tassare pesantemente le energie non rinnovabili e utilizzare i proventi per finanziare una rapida promozione di quelle rinnovabili.

Limitare la pubblicità che incoraggia il consumismo, in particolare per i prodotti che contribuiscono al degrado ambientale e al saccheggio delle risorse naturali.

Condurre campagne pubbliche su tutti i media per mettere in guardia i cittadini dal consumo di tali prodotti.

Razionalizzare e razionare l’uso delle risorse non rinnovabili o scarse, in modo che non sia il mercato ad assegnarle, ma i bisogni della gente.

Naturalmente, per realizzare queste riforme strutturali e altre ancora, è necessario confrontarsi con i poteri economici, sostituire i governi complici e realizzare una governance globale in cui i cittadini possano cambiare il corso delle loro vite e di quella del pianeta. Tutto questo può essere utopistico, ma l’urgenza del momento storico rende inutili le vie di mezzo: o iniziamo a risalire la costosa china dell’utopia, o scenderemo rapidamente nell’abisso dell’autodistruzione.

Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid. Revisione di Anna Polo

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