mercoledì 30 agosto 2023

L'estate sta finendo, anche per la scuola

La Neoscuola delle libertà - Daniela Di Pasquale 

Qualche anno fa, il comico Corrado Guzzanti realizzò alcuni fortunati sketch televisivi in cui simulava gli spot elettorali della berlusconiana Casa delle Libertà, dove tutto si poteva fare liberamente, anche le più assurde indecenze, chiosando alla fine con il motto “È la Casa delle Libertà, facciamo un po’ come c…. ci pare”.

Ecco, quello che sta accadendo alla scuola italiana in questo periodo storico è più o meno la stessa cosa, presa d’assalto com’è da esperti pedagogisti di varia forma e natura che hanno aperto le porte a un libertarismo insulso, corredato da un buonismo indulgente senza senso. È iniziata l’era della Neoscuola delle libertà, dove si può fare un po’ come ci pare: è l’autonomia scolastica, bellezza! Tanto nessuno va a verificare se gli studi su cui si basano le elucubrazioni dei sedicenti esperti siano convalidate o meno da tutta la letteratura scientifica; è molto più comodo delegare la nostra cultura professionale e comunitaria ai teorici dell’apprendimento.

Oggi pochissimi osano contestare la degradazione della professionalità docente a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Agli insegnanti ci si rivolge come a dei profani e questa delega agli specialisti in ogni settore è diventata una sorta di religione di Stato, come scrisse Ivan Illich (che riprendo da Boarelli): ecco allora che il professionista-sacerdote impone soluzioni a chi non ha saputo nemmeno riconoscere il problema. Gli esperti, affermava sempre Illich, sono “disabilitanti” e, aggiunge Boarelli, “gli insegnanti vengono progressivamente espropriati di una parte del loro mestiere (la capacità di valutare in modo indipendente e di decidere autonomamente cosa insegnare). Ciò compromette la libertà di insegnamento e mette in contrapposizione le finalità del lavoro con la fedeltà a un sistema imposto dall’esterno, creando in tal modo ‘conflitti di lealtà’ ” (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 74).

Siamo quotidianamente invasi da post, video, reels, articoli e libri di pedagogisti influencer che parlano della Scuola, senza distinguere tra i vari gradi di istruzione e mettendo tutti (bambini, preadolescenti e adolescenti) in un unico calderone indistinto. Il più delle volte si tratta di figure di accademici o ricercatori che hanno smesso di frequentare le aule scolastiche dai tempi del liceo e che, al più, si fanno vanto di partecipare a progetti ad hoc o di avere brillantemente sottoposto un campione di docenti a questionari e sperimentazioni di dubbia validità. La Neoscuola delle libertà ha così stabilito i suoi mantra e questi, purtroppo, fanno presa sulle famiglie, ignare di cosa realmente siano la pedagogia scolastica e il lavoro educativo di milioni di docenti che ogni giorno, da decenni, contribuiscono alla crescita culturale e globale dei loro figli.

Sfortunatamente fanno presa anche su molti docenti che amano seguire le mode, gli “esperti” esterni e le autorità ministeriali. Si potrebbe quasi parlare di un Manifesto della Neoscuola delle Libertà, i cui capisaldi potrebbero essere descritti come segue:

1. I docenti sono carenti dal punto di vista metodologico, non conoscono le tecniche di insegnamento più efficaci e internazionalmente sperimentate, si limitano alla lezione frontale, desueta e nociva. Occorre formare gli insegnanti alle nuove e mirabolanti tecniche di insegnamento punto zero. 

2. I docenti valutano i loro studenti senza cognizione di causa, senza conoscere i traumi che provocano loro, senza saperne valorizzare i talenti e le potenzialità, dando semplicemente parametrazioni quantitative del tutto soggettive e prive di validità formativa. Occorre spiegare ai docenti come si deve valutare il profitto di un alunno, possibilmente scandagliandone l’intima psiche ed emotività e procrastinando il più possibile la presa di coscienza delle proprie responsabilità e il lavoro personale sul superamento degli ostacoli (mal che vada, si potrà sempre ricorrere al TAR).

3. I docenti rifuggono dalla rivoluzione digitale che sta investendo il mondo; sono ormai dei soggetti anacronistici, refrattari al cambiamento, ostinatamente incistati nei loro scranni, mentre brandiscono fieri la vetusta cultura del libro. Occorre educarli alla contemporaneità e alla post-education.

4. I docenti non hanno capito che lo studente (chi? il bambino? l’adolescente?) è al centro dell’apprendimento; l’insegnante è solo un facilitatore: guida, allestisce, indica.

5. Competenze, competenze, competenze.



Assistiamo quotidianamente a lezioni di esperti che, pur non avendo mai insegnato un’ora sola a dei bambini o a dei ragazzi, formano i formatori che noi siamo propinandoci bias e fraintendimenti sugli effetti di metodologie didattiche sperimentate in contesti specifici, scambiando la ricerca sperimentale qualitativa con quella quantitativa. Tecnici dell’educazione che non sanno che gli studi su cui si basano le loro tanto osannate riforme sono già stati sconfessati da gran parte della letteratura scientifica internazionale (quando va bene), altrimenti sono addirittura privi di validità scientifica, perché frutto di buone prassi circoscritte e circostanziali. Accademici chiamati a rivoluzionare la scuola che fanno errori sesquipedali confondendo concetti basilari della docimologia come assessment for learningassessment of learning e assessment as learning. Specialisti in Scienze della formazione che non conoscono la psicologia dell’età dello sviluppo e applicano strumenti validi, al più, per adolescenti e adulti ai bambini della scuola primaria. Ancora, professori che gridano a gran voce che a scuola occorre rendere visibile l’apprendimento e valutare il processo metacognitivo senza conoscere le ricerche che hanno decretato l’invalidità di questo concetto ai fini valutativi. Per non parlare di coloro i quali ignorano (o fingono di ignorare) le implicazioni ideologiche e politiche della loro longa manus sulla scuola.

Di tutto questo e di molto altro parlo nel mio libro sulla deriva neoliberista nella scuola primaria (Daniela Di Pasquale, Livelli di scuola. La deriva neoliberista nella scuola primaria, Roma, Aracne, 2022), che dei partecipanti al dibattito in corso hanno voluto declassare a retorica tiritera sul trito e ritrito spauracchio del neoliberismo.

Probabilmente si tratta della solita tiritera trita e ritrita di chi vuole insabbiare una manovra concertata secondo una precisa agenda politica (il capitalismo cognitivo), travestita astutamente da welfare educativo democratico e progressista.

Ripropongo qui di seguito alcune considerazioni che esprimo nell’introduzione.

Il problema è che ai docenti non viene mai data l’opportunità di studiare in modo approfondito tutte le implicazioni ideologiche e pedagogiche dei cambiamenti che arrivano dall’alto. Purtroppo le innovazioni nella scuola italiana non sono mai preparate in anticipo e per tempo, ma vengono introdotte ex abrupto ad anno in corso, spesso a ridosso di importanti pause dall’attività didattica. Solitamente i docenti non possono applicare un’attenzione analitica a quanto viene loro imposto durante la loro attività lavorativa e, di conseguenza, il più delle volte sono costretti ad affidarsi e a fidarsi degli organi competenti, salvo poi accorgersi col tempo che, forse, quanto richiesto potrebbe presentare ombre pericolose e comportare torsioni intellettuali non di poco conto per la classe docente. Quella della riforma calata dall’alto e da attuare nell’immediato, senza dare il tempo al corpo insegnante tutto di studiarla, dibatterla e, al limite, anche di criticarla per rivederla, è una tattica che viene spesso giustificata con la motivazione che, se i cambiamenti non si introducono subito e di colpo, il mondo della scuola tende a procrastinarli eccessivamente e si fa fatica a realizzarli in tempi accettabili. In altre parole, secondo chi amministra la scuola è meglio fare in fretta, anche se con evidenti difficoltà e dubbi, piuttosto che prendersi il tempo di ragionarci approfonditamente e rischiare magari di non potere realizzare il loro bel compitino.

Sono punti di vista del tutto opinabili, a mio parere, ma sembra che sia così che a livello ministeriale e accademico si interpreti la professionalità della classe docente. Inoltre, con il bel pretesto dell’autonomia scolastica si sta praticamente distruggendo il carattere nazionale, unitario, di formazione e promozione culturale della nostra scuola. Mi riferisco all’idea che tutto debba essere calato sulla realtà specifica, contestuale/contestualizzata, localistica, dell’ambiente socio-geografico e amministrativo dello studente, con la scusa di potenziarne le caratteristiche e le qualità specifiche, per meglio garantirne il successo scolastico. Lo dice chiaramente Giulio Tosoni: “se c’è l’autonomia scolastica, non può esserci un programma unico in tutta Italia […] Avrebbe senso, oggi, far studiare in tutte le scuole d’Italia nello stesso giorno gli stessi argomenti? Che una piccola scuola (magari una pluriclasse) della Val Formazza debba fare lo stesso identico programma di una scuola nel centro di Roma? Secondo me no. E non perché i bambini di Roma siano ‘meglio’ o ‘più importanti’ di quelli della Val Formazza (o viceversa), ma perché vivono in situazioni diverse; ed è proprio dalla situazione reale dei bambini che bisogna partire per portarli al traguardo delle competenze” (Giulio Tosone, Dare valore alla scuola. Una guida per capire il senso della nuova valutazione nella scuola primaria, edizione indipendente, 2021, pp. 28-30).

Dunque, parti fondamentali del nostro patrimonio culturale possono tranquillamente essere depennate dal programma di studio perché troppo distanti dagli interessi contingenti degli studenti?

Semmai, le questioni più legate al territorio si possono aggiungere alla conoscenza di base che la scuola deve veicolare, non sostituirsi. Mi sembra che dietro questo paravento situazionale si nasconda allora un’agenda politica ben precisa: differenziare l’accesso alla cultura, individualizzarlo e renderlo esclusivo di una piccola parte di individui, responsabili delle grandi concettualizzazioni, mentre gli abitanti di zone più periferiche possono al massimo accontentarsi di diventare meri consumatori di una conoscenza prodotta e gestita altrove. Tutto questo si chiama capitalismo cognitivo e porta alla polarizzazione delle geografie dello sviluppo tra regioni e nazioni, condannando i paesi economicamente meno avanzati, meno in grado di fornire forza lavoro (cognitivamente) qualificata, alla disconnessione forzata. I saperi locali sono certamente un patrimonio importante di una nazione, ma solo se le persone hanno maturato anche consapevolezza e conoscenza del più vasto quadro generale storico, geografico, scientifico e culturale, altrimenti si rischia di crescere studenti con un’alfabetizzazione culturale ampia e completa e studenti con minori strumenti
conoscitivi della realtà. Vale a dire, studiare i Romani a Roma e il paesaggio montano in Val Formazza. Come ha scritto Steen Neppen Larsen, dell’Università di Aarhus, in Danimarca, “la natura immanente della conoscenza deve essere condivisa, non ridotta a un oggetto esclusivo e privato, tutti devono avere accesso alla conoscenza e più essa circola più potrà crescere” (Steen Nepper Larsen, “Compulsory Creativity: A Critique of Cognitive Capitalism” in Culture Unbound, 6, 2014, p. 168).

La cultura non è né mercificabile né negoziabile e la scuola dell’obbligo non è una scuola di specializzazione. La riforma che sta investendo la scuola primaria e che, temo, sarà estesa anche agli altri gradi di istruzione, sta realizzando dal basso e dall’inizio della vita, a partire cioè dai bambini, quell’ideologia neoliberista che ha tra i suoi capisaldi la competizione, l’individualismo, il merito, il mercato del lavoro, a scapito di una visione della formazione democratica, equa e solidale della persona che, mio avviso, dovrebbe essere l’unica missione possibile della scuola pubblica italiana. Il tutto motivato dai falsi miti della scuola delle competenze-chiave europee, del merito personale, dell’egocentrismo dell’apprendimento, della trasparenza dei processi di insegnamento, della valutazione (solo apparentemente formativa), protetti dallo scudo di una pedagogia solo esteriormente progressista e democratica. Oltretutto con una strategia di diffusione autoritaria, provocando un grave vulnus alla professionalità docente, soprattutto in un ambito come quello dei processi di insegnamento (di cui la rilevazione degli apprendimenti e la valutazione, soprattutto quella in itinere, sono parte) che non ammetterebbe nessun tipo di ingerenza.

Si tratta di un atteggiamento autoritario ben visibile, ad esempio, nello stile comunicativo, a tratti paternalistico, dei relatori dei webinar ministeriali a noi dedicati, uno stile dai toni troppo spesso indulgenti e quasi di malcelato rimprovero riguardo alle nostre precedenti metodologie didattiche, con il misconoscimento quasi totale dell’enorme patrimonio di cultura organizzativa e pedagogica che ogni scuola ha accumulato negli anni e dando arbitrariamente per scontate mancanze e lacune metodologiche delle nostre prassi didattiche ed educative.

In una recente intervista, il noto scrittore Alessandro Baricco ha espresso la sua opinione riguardo alla scuola pubblica, visto che ormai chiunque nella Neoscuola delle libertà può esprimere il proprio parere autorevole. Baricco ha sostenuto la necessità di un cambiamento radicale del sistema, in direzione di una maggiore flessibilità nei programmi e nella formazione delle classi. Ha poi aggiunto: “servono segmenti didattici più corti, non l’esame dopo tre anni o la pagella ogni quattro mesi: dovremmo fare come nei videogiochi, percorsi in cui vedi la fine, salendo di livello in livello” (
https://www.orizzontescuola.it/baricco-disintegrare-le-classi-valutazione-come-nei-videogiochi-percorsi-brevi-salendo-di-livello-lattuale-sistema-scolastico-e-destinato-a-collassare-e-bacchetta-i-sindacati/).

Mi spiace signor Baricco, ma la scuola non è un videogame, non è un gioco né una gara a chi arriva prima o più in alto, a scuola non si fa sfoggio di abilità e non si danno medaglie per il primo, il secondo o il terzo posto. A scuola non ci devono essere livelli, perché non è l’altezza che interessa, a scuola non deve regnare uno sguardo verticale ma orizzontale, trasversale, obliquo e laterale, perché la scuola è di tutti, fatta dai molti, patrimonio comune. A scuola non si sale di livello in livello, a scuola si procede per catene umane di solidarietà e cooperazione, a volte si può anche scendere e va bene così, perché si cresce comunque, esplorando tutte le dimensioni spaziali e magari anche quelle immateriali. La scuola è uno spazio analogico, riflessivo, conviviale, non si addice alla frenesia da videogame. Anche per me, come ha scritto Franco Lorenzoni: “la scuola […] non deve imitare ciò che accade nella società, ma operare perbcontrasto, in modo critico e concreto. Se tutti corrono, ci vuole un luogo dove poter andare lenti. Se andiamo lenti aumentano le possibilità di incontrare davvero profondamente qualcosa. Perché per arrivare a osservare i movimenti di una nuvola, ascoltare un racconto, trovare con un gesto il tratto e il colore per una pittura o scrivere parole sincere ed autentiche, ci vuole tempo, tanto tempo” (Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Palermo, Sellerio, 2014, p. 171).

La scuola è tempo. La scuola non tollera livelli né livellamenti. La scuola per livelli porta a creare diversi livelli di scuola, che inevitabilmente, presto o tardi, diventeranno livelli di vita.

da qui


La nuova riforma scolastica sarà la fine della scuola italiana - Marco Bonsanto

I valori attribuiti all'istruzione dalla Costituzione saranno stravolti dalla nuova riforma scolastica proposta da Draghi e portata avanti da Meloni, che metterà la scuola a servizio del lavoro e non più della formazione dell'individuo.

Tra meno di un mese prenderà avvio il nuovo anno scolastico. Ma la situazione che insegnanti, studenti e famiglie si ritroveranno a vivere sarà molto diversa da quella degli anni precedenti. Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta infatti per entrare in vigore l’ennesima, distruttiva riforma della Scuola italiana, con un impatto superiore persino alla “Buona Scuola” di Renzi. Pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal Governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del PNRR, il piano straordinario di investimento dell’UE finalizzato a ridare fiato agli Stati membri provati dalla Pandemia.

In realtà, il PNRR è un colossale piano di indebitamento delle nazioni europee obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie. Un volano per gettare le basi della nuova società postdemocratica.
È il caso dell’attuale riforma scolastica, anch’essa a quanto pare resasi indispensabile dopo i disagi della Pandemia, senza che nessuno però ce ne abbia mai spiegato il perché. Si compone di quattro nuovi pilastri introdotti nell’edificio dell’Istruzione italiana con il probabile scopo di poter abbattere a tempo debito tutti gli altri, resi inutili. È un’operazione portata avanti senza clamore con interventi normativi allegati a semplici decreti-legge, senza il vaglio parlamentare o un vero dibattito pubblico. Vale a dire con mezzi (e finalità) palesemente incostituzionali.

Il primo “pilastro” riguarda la trasformazione fisica degli ambienti di apprendimento (100.000 aule) grazie a una forzata iniezione di tecnologia di ultima generazione: device informatici personalizzati, schermi multifunzione, intelligenza artificiale, realtà aumentata, stampanti 3D, ecc. È il cespite più consistente dell’iniziativa: circa i ¾ degli investimenti previsti. Entro Natale 2022 tutte le scuole sono state “caldamente invitate” dal Ministero a fare incetta di strumentazioni high tech per il massimo degli stanziamenti virtuali disponibili (cioè a contribuire sconsideratamente al Debito pubblico), indipendentemente dalle dotazioni pregresse, dalla reale capacità di fruizione delle nuove, dalla loro utilità per il tipo di scuola, ecc. Il resto dei finanziamenti servirà per “smontare” le aule tradizionali e riqualificarne l’apertura al mondo attraverso banchi a rotelle, aule-laboratorio, ambienti virtuali, ecc. L’approccio generale sarà work based learning e gli spazi scolastici dovranno essere disegnati “come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro”.

Sarà infatti il lavoro – e non più la formazione dell’individuo – la nuova finalità dell’istruzione. Da passaggio fondamentale per la scoperta di sé attraverso la trasmissione sociale del sapere la Scuola sarà svilita a componente della riforma del lavoro, sollevando le aziende dall’onere di selezionare e formare il proprio personale. La riforma introduce infatti nella Scuola superiore di primo e secondo grado due nuove figure di insegnanti (la seconda grande novità): il docente Orientatore e il docente Tutor. Con compiti, l’uno, di aiutare lo studente nella scelta precoce della futura professione e, l’altro, di consigliarlo nei percorsi di apprendimento liberi ad essa più adeguati. Nella nuova Scuola, infatti, non tutti studieranno ancora le stesse materie o nello stesso modo, ma ciascuno studente seguirà un iter di apprendimento personalizzato volto a fargli conseguire le conoscenze e le abilità specifiche per la sua futura professione.

Imbonitori di una Scuola pubblica che promette libertà di scelta didattica alle famiglie ed expertise psicologica agli studenti disorientati, i due nuovi docenti dovranno operare negli anni una vera e propria profilazione lavorativa dello studente e, di fatto, un plagio delle sue aspirazioni. Col tempo esproprieranno il Consiglio di Classe della prerogativa di condurre in modo concertato il progetto formativo relativo allo studente e di valutarne progressi o ritardi secondo l’attuale prassi pedagogica che mira alla globalità della persona. Sarà di fatto conferito loro il potere di limitare la libertà d’insegnamento altrui per implementare una pluralità di percorsi differenziati nelle stesse classi, un patchwork ritagliato sulle esigenze delle aziende e di famiglie blandite nell’illusione di potersi finalmente sostituire a quei docenti ritenuti incapaci di comprendere le potenzialità dei loro figli, i loro nascosti “meriti”.

La difesa del merito – di studenti e insegnanti – è in effetti il terzo pilastro della riforma, come del resto propagandisticamente annunciato dal Governo Meloni fin dal nuovo nome del Ministero dell’Istruzione, divenuto pure “del Merito”. Si tratta della pretesa non nuova di misurare la capacità didattica dei docenti, fingendo di non sapere che ad insegnare si arriva vincendo concorsi per titoli ed esami. In realtà, è fin troppo chiaro quale siano le vere finalità di questo sbandierato progetto di valorizzazione del merito. In primo luogo, acquisire un’arma di ricatto contro quella libertà professionale dei docenti (art. 33 Cost.), che nel quadro attuale costituisce un ostacolo insormontabile alla rimodulazione indotta del loro insegnamento. Alla condizione di assoggettamento etico e professionale degli insegnanti cui mira la riforma si arriverà probabilmente correlando al merito lo stipendio, il punteggio interno alla scuola e quello esterno per i trasferimenti. In secondo luogo, spingere gli insegnanti a divenire organici alla riforma stessa: con quelli “contrastivi” relegati in fondo alla graduatoria, essere docenti “meritevoli” significherà né più né meno che assecondare in modo acritico la visione sociopedagogica che essa sottende.

Quest’ultima – e veniamo così al quarto “pilastro” della riforma – prevede lo stravolgimento delle finalità educative della Scuola italiana, reindirizzate e rimodulate in favore della transizione digitale pilotata in Occidente dalle BigTech statunitensi. Le finalità umanistiche e “liberali” dei tradizionali curricoli scolastici lasceranno il posto a quelle utilitaristiche della formazione tecnologica, funzionale alla creazione di un vasto proletariato di nuova concezione. Anche gli insegnanti dovranno adeguarsi ai tempi, adattando la loro didattica agli strumenti e alle finalità delle nuove onnipresenti tecnologie informatiche, secondo i voleri insindacabili dell’UE (vedi Quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, il “DigCompEdu”). Inseriti in un sistema europeo di riconoscimento delle competenze digitali, saranno valutati (e domani stipendiati) secondo una precisa scala di bravura, con tanto di titolo distintivo: A1) Novizio; A2) Esploratore; B1) Sperimentatore; B2) Esperto; C1) Leader; C2) Pioniere. In altre parole, non saranno più riconosciuti come professionisti tutti ugualmente “sapienti” nelle loro rispettive materie, ma incardinati in una gerarchia di valore (e di diritti) di natura prettamente tecnica, che confonde i fini del loro lavoro con gli strumenti utilizzati per conseguirli.
Ci chiediamo: valeva la pena percorrere tutto il cerchio dell’ideale democratico per tornare al “MinCulPop”, ai Balilla e ai Lupetti da cui proveniamo?  –  E allora vogliamo pure i Colonnelli!

Marco Bonsanto, insegnante di Storia e Filosofia

da qui

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