In ogni scritto a tema geopolitico (in primis su Inimicizie) vi è la quasi certezza di incontrare uno di questi termini: Isola-Mondo, Heartland, Rimland, Eurasia, tellurocrazia, talassocrazia… ma cosa vogliono dire esattamente? Qual’è la teoria dietro questi concetti? Come si rapporta questa teoria al riscontro con la storia e con il presente?
Naturalmente
la risposta all’ultima domanda può essere infinitamente lunga e oggetto di
altrettanto lungo dibattito, ma è altresì importante mettere giù un impianto
teorico, una visione generale della grande geopolitca – quella
quindi che si estende all’intero pianeta e riguarda il lungo periodo – che vada
a fare da sfondo alle varie analisi sul caso specifico, o sulla piccola
geopolitica. Una visione di fondo che è pressoché comune ai principali
pensatori geopolitici passati e presenti, ai teorici della scuola realista
delle relazioni internazionali (di ogni nazionalità ed orientamento politico) e
che – crediamo – spieghi (e in alcuni casi informi) le azioni degli
stati nell’arena internazionale.
LA RAGION
DI STATO E LA GEOPOLITICA
La scuola
realista delle relazioni internazionali basa il suo intero impianto analitico
sul concetto di “ragion di stato”, il concetto che vede l’arena internazionale
come uno stato di natura, in cui i singoli soggetti – gli stati – sono animati
principalmente e dal desiderio di perpetuare la propria esistenza, e dalla
tensione ad accrescere la propria potenza rispetto agli altri. E’ un concetto
che in varie forme esiste da ben prima che la Pace di Westphalia
cristallizzasse quello di stato, che si riscontra in scritti come “Il Principe”
di Machiavelli (1532), l’Arthashastra (3 secolo a.C.), “L’Arte della Guerra” di
Sun Tzu (5 secolo a.C.) e via dicendo.
Dall’utilizzo
della ragion di stato (consapevole o inconsapevole) da parte di tutti i
soggetti dell’arena internazionale nasce la competizione tra essi, che dopo la
scoperta dell’America e l’inizio dei colonialismi diventa gradualmente una
competizione non solo tra vicini, ma anche – soprattutto – globale.
Secondo il pensiero geopolitico, sviluppato in termini chiari a partire dal
diciannovesimo secolo – era infatti della piena globalizzazione della
competizione internazionale – la geografia, fisica e umana, sarebbe
il principale motore di questa competizione. Le caratteristiche geografiche di
uno stato, rapportate a quelle dei suoi avversari, dei suoi alleati, dei suoi
vicini, delle sue dipendenze e delle zone dove ha influenza sancirebbero la
posizione di uno stato nella competizione internazionale, la sua ricchezza, la
sua sopravvivenza, la sua potenza.
Questo
incrocio tra ragion di stato e geografia da
vita a guerre, alleanze, competizioni, accordi. E’ quello che oggi intendiamo
quando pensiamo “geopolitica”. E’ – quantomeno secondo chi vi scrive ed altri,
siccome altre, diversissime, teorie delle relazioni internazionali sono state
sviluppate nel tempo – il principale motore dietro le azioni degli stati
nell’arena internazionale, quindi l’impianto teorico migliore per capirle,
studiarle. Con un corollario: L’importanza della geografia non significa
“determinismo geografico”. La geografia non obbliga né conduce automaticamente
ad un corso d’azione. Semplicemente, fornisce possibilità, mezzi, condiziona le
opzioni tra cui la ragion di stato – che può assumere forme diverse a seconda
del regime politico, delle credenze culturali, delle idee politiche, della
tecnologia – è chiamata a scegliere: Tra le opzioni possibili vi è ad esempio
anche il suicidio, la scelta sbagliata che porta alla scomparsa. Come scrive il mio Professore, Corrado
Stefanachi: “Un’isola può essere trasformata in un eremo o in un porto“.
L’essere circondati dal mare non significa dover vivere un’esistenza imperniata
su di esso, come fa notare anche Carl Schmitt nel suo paragone tra Sicilia e Sardegna,
due isole così simili per caratteristiche geografiche ma storicamente così
diverse per il loro modo di vivere il mare.
Detto questo
si arriva al passo successivo: Quali sono i fattori geografici determinanti
nella competizione tra potenze?
Dalla scoperta
della americhe – quindi dalla globalizzazione dell’arena internazionale – le
principali superpotenze che si sono succedute sono state tutte potenze
proiettate nell’oceano: Portogallo, Spagna, Olanda, Francia, Regno Unito, Stati
Uniti. Questo è intuitivamente comprensibile, se si considera il pianeta come
un insieme di grandi e piccole isole unite dagli oceani.
Qui entra in
gioco Halford Mackinder, il più conosciuto e influente esponente di quella che
possiamo grossomodo chiamare “prima generazione” di geo-politologi, che
comprende lo svedese Rudolf Kjellen (inventore del termine “geopolitica”) il
tedesco Karl Hausofer e – si potrebbe dire, anche se è conosciuto più come
teorico della guerra navale – l’americano Alfred T. Mahan. Il lavoro seminale di
Mackinder , “Democratic
Ideals and Reality“, è scritto a Conferenza di Versailles non
ancora conclusa, per espandere un saggio preliminare del 1908 e riflettere
sulle cause, e sui i possibili (o auspicabili) risvolti della Grande Guerra.
Secondo
l’Autore, la chiave del successo di una superpotenza sarebbe una “base of
seapower” – una base terrestre da cui proiettare potenza sugli oceani –
sicura e allo stesso tempo dotata di sufficienti risorse naturali e
demografiche oltreché, ovviamente, di accesso agli oceani.
Da qui il
motivo per cui il Regno Unito – protetto dal canale della manica – riesce
infine a prevalere sulle potenze continentali nella competizione oceanica,
dunque globale: Queste potenze – come la Francia napoleonica o la Germania
guglielmina – sono rese perennemente insicure dai propri vicini a causa della
competizione con essi; competizione in cui il Regno Unito lavora affinché non
emerga alcun vincitore decisivo, o non sfoci in una cooperazione che ambisca
alla proiezione esterna.
Questo è
il leitmotiv – ampiamente condivisibile – della geopolitica di
Mackinder: Nella competizione geopolitica, prevale l'”isola” più forte.
Attenzione: “Isola” in senso non solo geografico, ma anche politico. Isola
in senso geopolitico: Lo è il Nord America, dominato dagli Stati Uniti
con un Canada pienamente integrato, circondato ad est e ovest da due oceani
sconfinati e con a sud – fino all’istmo di Panama – una zona subordinata e
instabile, messa – ogni volta che serve – in condizione di non nuocere. Non lo
è il Sud America, che dopo il tentativo fallito di unificazione di Simon
Bolivar si frammenta in entità di misura comparabile in competizione tra loro,
con un Brasile troppo instabile internamente (e circospetto verso
l’esterno, vista anche la differenza linguistica con i vicini) per “federare”
intorno a se il continente sud-americano.
Dunque, qual
è geograficamente la “base di potenza” migliore, la cui “insularità
geopolitica” darebbe vita ad una superpotenza imbattibile? L’Isola Mondo, la
massa terrestre che unisce Europa, Asia e Africa, attorno a cui “orbitano”
tutte le altre isole (geograficamente intese) come Nord America, Sud America,
Giappone, Australia, Regno Unito, isole minori e via dicendo.
L’Isola
Mondo contiene la stragrande maggioranza della popolazione mondiale e delle
risorse naturali, oltre ad essere la più vasta per superficie. Il fatto che le
ultime due “maggiori potenze” siano state “isole minori”, poggia proprio sul
fatto che – geopoliticamente – non sia un’isola, ma un continente,
che appunto contenga centri di potere in competizione tra loro.
La
competizione geopolitica ruota quindi intorno al controllo dell’Isola Mondo:
Tentativi di espandere la propria quota di controllo da parte di (ambiziose)
potenze interne ad essa, tentativi di governarla tramite il divide et
impera – tradotto nel più politicamente corretto “balance of power”
– da parte delle potenze insulari esterne ad essa...
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