Ringrazio Mauro Seminara, amico e giornalista, per avermi posto tre
domande, alle quali sarebbe difficile, se non impossibile, rispondere
considerando soltanto gli ultimi tragici sviluppi delle politiche di morte in
frontiera condivise dall’Italia e dall’Unione Europea
1. Cosa non si è voluto dire
Ancora una volta un naufragio annunciato, a 110 miglia
a nord-ovest di Bengasi, nel mare in burrasca, senza un tempestivo intervento
degli Stati costieri, corresponsabili delle zone di ricerca e salvataggio (SAR)
nel Mediterraneo centrale. Siamo davanti al ripetersi di naufragi per abbandono, naufragi
che sulle rotte migratorie del Mediterraneo ci sono sempre stati, certo, non
solo quando aumentavano le partenze di chi non aveva altre vie di fuga per la
vita, ma che nelle ultime settimane si sono ripetuti con una frequenza e con
modalità senza precedenti, Si minaccia di perseguire gli “scafisti” per
l’intero “globo terracqueo”, ma non si vuole dire che si tratta di barconi
sovraccarichi, in perenne situazione di distress (pericolo
grave per le persone), secondo quelli che sono gli indici imposti dalle
Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei. Si ribaltano ed affondano
barconi gestiti da organizzazioni criminali, libere di operare sul territorio
per la connivenza di governi, che poi fingono di trattare con l’Unione Europea
e con l’Italia, per ricevere sostegno in vista di inziative comuni, finalizzate
esclusivamente al contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). Si
nascondono perfino obblighi di soccorso affermati dal Piano SAR nazionale del 2020 in
conformità con il manuale IAMSAR che richiama tutte
le Convenzioni internazionali e il Regolamento europeo n.656 del 2014. Le
zone SAR non sono da confondere con le acque territoriali, sono zone di
responsabilità per le attività di ricerca e salvataggio, da condividere quando
i mezzi non bastano con i paesi titolari delle zone SAR limitrofe. Non possono
diventare zone di interdizione dei soccorsi che possono salvare vite. Quando
un paese responsabile non interviene, devono intervenire gli altri Stati
costieri, con la massima rapidità, se ricorre un caso di distress. Tutti
sanno che le autorità maltesi non garantiscono soccorsi all’interno
della loro zona SAR, e tutti dovrebbero sapere quali sono i
limiti operativi della sedicente Guardia costiera libica, soprattutto se non è
coordinata da assetti Frontex o italiani. La Corte di Cassazione ha
riconosciuto che la Libia non può essere qualificata come “paese terzo sicuro”,
nel caso Vos Thalassa, ed il Tribunale di Napoli ha condannato un comandante di
un rimorchaitore italiano (Asso 28) che aveva sbarcato in Libia naufraghi
soccorsi in acque internazionali. Per questo l’inattività in attesa
dell’intervento delle motovedette libiche non è ignoranza o fatalità, ma
costituisce una scelta che comporta precise responsabilità. Una scelta che appare
strettamente collegata con l’intensa attività diplomatica condotta dall’Italia
con i ministri del governo provvisorio libico guidato a Tripoli da Dbeibah, un
governo che non ha ancora “riunificato” la Libia e le diverse unità militari e
di guardia costiera che sono ancora espressione delle milizie locali.
Si sono distinti gli interventi di ricerca e soccorso
(SAR) dagli eventi di immigrazione irregolare, prima per criminalizzare
le ONG ed allontanare le navi del soccorso civile, poi per limitare la
resposabilità delle autorità italiane ed europee, rispetto alle responsabilità
delle guardie costiere e dei governi dei paesi di transito. Ma l’invenzione,
nel 2018, di una zona di ricerca e salvataggio (SAR)” riservata” alle autorità
libiche, che sono ancora prive di un unico coordinamento nazionale (MRCC), e
che non controllano per intero le coste del loro paese, conseguenza del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del
2017, appare oggi in tutti i suoi tragici effetti. Anche in
conseguenza dei Decreti sicurezza di Salvini e di direttive politiche più
recenti, che paralizzano o rallentano le capacità di intervento della Guardia
costiera italiana in acque internazionali. Si vuole evitare di creare
precedenti che possano indurre a ritenere, a sud del Mediterraneo, che esista
una maggiore probabilità di essere soccorsi in acque internazionali. Altro che
spot televisivi nei paesi di origine o di transito per informare sui rischi
della traversata. La politica di dissuasione delle partenze passa attraverso lo
svuotanento del mare da mezzi di soccorso, sia civili che militari. Le stragi lontane dall’attenzione dei media, in alto
mare, sono più facili da nascondere, i cadaveri dei naufraghi
non finiranno sulle spiagge italiane, come sta avvenendo, giorno dopo giorno, a Cutro.
L’allontanamento delle ONG dalle acque del Mediteraneo
centrale, frutto delle direttive politiche del ministero dell’interno a partire dal
2017, fino al recente Decreto legge n.1 del 2023, ha
contribuito a ridurre le capacità di ricerca e salvataggio in acque
internazionali, e non si è riusciti neppure a garantire quel coordinamento nei
soccorsi tra Stati costieri che sarebbe imposto dalle Convenzioni
internazionali. Come si è visto in questa ultima tragica occasione, nella quale
non sono bastate più di 24 ore per inviare mezzi di soccorso nella zona SAR
“libica”, dopo che le autorità di Tripoli avevano comunicato che non sarebbero
intervenute. Ma della inefficienza della Guardia costiera libica, per non parlare dei livelli di corruzione che sono noti
da anni, non si deve parlare, e deve passare soltanto il
messaggio che tutte le responsabilità vanno addossate sugli scafisti, se non
sulle stesse vittime che sono state costrette a mettersi in mare su mezzi tanto
insicuri, per la mancanza di vie legali di ingresso. Vie legali di ingresso che
il governo italiano continua a ridurre, con lo svuotamento della protezione
umanitaria, perno dell’ennesimo decreto legge, n, 20 del 2023. Che
Salvini vuole ancora modificare in senso restrittivo, persino contro le
indicazioni del Quirinale.
2. Perché non lo si è voluto dire
La Meloni ha chiarito bene la politica comunicativa del governo nella conferenza
stampa disastro tenuta a Cutro. Lo ha detto con la solita
arroganza e con un tono minaccioso verso chi metteva in
dubbio la versione ufficiale propinata dal governo. Non vogliono far sapere in
Europa che ci possono essere responsabilità ai livelli più alti della catena di
comando burocratico-politica, bene insediata nei ministeri, che sovrappone le
scelte di sicurezza e di difesa delle frontiere, o di contrasto
dell’immigrazione irregolare, al diritto al soccorso immediato. Un diritto alla
vita sancito dalle Convenzioni internazionali che impongono agli Stati
costieri, comunque informati di un evento di soccorso, nel quale si trovi un
barcone in situazione di distress, di intervenire anche al di fuori
delle proprie acque territoriali, anche al di fuori della zona SAR di propria
competenza, come non è accaduto per quasi un giorno, in occasione di questo
ultino naufragio che si è verificato a oltre 100 miglia ( 180 chilometri) dalle
coste di Bengasi dalle quali era partito il barcone. Quando ormai erano vicini
alla zona SAR maltese, dove però le autorità di La Valletta non intervengono
mai. Per non essere poi costrette a garantire un porto di sbarco sicuro. E
anche questo lo sanno tutto da anni, era scritto persino nei Report annuali della Guardia costiera fino al 2018, anno
in cui ne è stata sospesa la pubblicazione. Eppure si dovrebbe fare proprio un
paragone tra la situazione odierna e quella che si riscontrava nel Mediterraneo
centrale cinque anni fa.
Le disposizioni vincolanti imposte non solo a Frontex, ma anche agli Stati
ed alle autorità statali, dal Regolamento europeo n. 656 del 2014, redatto
dopo la strage di Lampedusa del 2013, imponevano in quest’ultima occasione di
intervenire immediatamente, con mezzi adeguati e non con navi commerciali, ma
anche con le navi militari della Marina della operazione “Mediterraneo sicuro” e
della misione
europea IRINI-Eunavfor Med, presenti in quelle acque.
Quanti sono gli interventi di soccorso operati da queste navi che operano sulle
rotte più battute dai barconi dei migranti in fuga dala Libia ? Praticamente
nesssuno. Non si vuole riconoscere che queste prassi di non intervento possono
lasciare morire persone abbandonate in alto mare. Che questi strumenti di
soccorso, come le disposizioni che le prevedono, vengono disattivati per una
precisa scelta politica, perchè si ritiene che una presenza stabile di navi
dello Stato, o di navi europee, come aveniva sino al 2016, che operino in
funzione di ricerca e salvataggio anche nelle zone SAR di competenza non
esclusiva di altri paesi (come si verificò soltanto con l’operazione Mare
Nostrum nel 2014), potrebbe costituire un fattore di attrazione per le partenze (pull factor) che
si vogliono dissuadere a qualsiasi costo, anche a costo della vita di migliaia
di persone.
Se si dovesse ammettere anche in un solo caso una responsabilità politica,
prima che personale, per le stragi per abbandono in acque internazionali,
magari avvenute mentre si attende l’intervento delle motovedette libiche per
riportare i migranti nei lager dai quali sono fuggiti, verebbe meno qualunque
legittimazione degli accordi con i paesi terzi che non rispettano i diritti
umani e non garantiscono attività di soccorso neppure all’interno delle acque
che rientrerebbero nella loro competenza. E verrebbero meno anche le basi della difesa di chi ha
giustificato con un “fine politico” i divieti di sbarco adottati nei confronti
dei migranti soccorsi dalle ONG, con la criminalizzazione
degli operatori delle navi umanitarie che avrebbero effettuato soccorsi “in
autonomia”, magari in una zona SAR fittiziamente attribuita a paesi, come la
Libia, che non ne garantiscono il controllo, o non hanno sottoscritto le
Convenzioni internazionali che ha sottoscritto l’Italia.
3. Chi trae vantaggio dal non detto
Le reazioni di indifferenza rispetto alle vittime dei naufragi, o di aperta
condivisione delle scelte del governo sulla politica di contrasto delle
attività di soccorso operate dalle ONG, si estende adesso alla giustificazione dei ritardi negli interventi di ricerca e
salvataggio sulla base che questi si verificherebbero al di
fuori della zona SAR (Search and Rescue) riconosciuta all’Italia dall’IMO ( Organizzazione internazionale del mare). Ma,
come ricorda il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, già portavoce della
Guardia costiera italiana, secondo la Risoluzione
MSC 167-78, adottata nel maggio 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO, “i
Centri nazionali di Coordinamento e Soccorso assumono il coordinamento delle
operazioni di salvataggio non soltanto quando le stesse avvengano nella propria
Search and Rescue Region (SRR), ma anche fuori di tale area allorquando abbiano
per primi ricevuto notizia di persone in pericolo in mare”, e ciò “fino a
quando il Rescue Coordination Centre (RCC) competente per l’area non abbia
assunto tale responsabilità”. Quali vantaggi pensa di garantirsi chi impone
prassi in violazione delle norme internazionali ed europee che regolano le
attività di ricerca e salvataggio in mare ?
Si vogliono eliminare tutti i possibili testimoni sui respingimenti
collettivi delegati ai libici, allontanando dalle acque internazionali le navi
del soccorso civile ed intimidendo gli operatori dell’informazione che
richiamano alla verità dei fatti. Le ultime elezioni politiche, e non solo
queste, e non solo in Italia, sono state pesantemente influenzate dalle campagne mediatico-giudiziarie scagliate contro le ONG, ed
il consenso elettorale verso i partiti che continuano a prosperare sulle
retoriche della sicurezza e della difesa dei confini, continua ad aumentare. La
lettura dei messaggi che girano sui social dà la misura di un paese allo
sbando, privo del rispetto dei principi basilari di umanità. Un paese disumano
al quale corrispondono politiche disumane. Malgrado i numerosi procedimenti penali intentati contro
i rappresentanti delle ONG non siano arrivati ad una sola sentenza di condanna,
si continua a colpevolizzare le Organizzazioni non governative, anche se le navi
umanitarie sono tenute lontane. Nonostante sia sempre più evidente il costo in
termini di vite umane che queste politiche di morte comportano.
Stiamo vivendo un tempo di perdita di senso della vita e del valore della
dignità che non può mai disgiungersi dal principio di solidarietà umana. Il
diritto al soccorso in mare, oltre a corrispondere a doveri di intervento
immediato che incombono primariamente sugli Stati, rispetto ai quali il
soccorso civile può avere solo funzione complementare, rientra tra i doveri di
solidarietà su cui si basa lo Stato democratico, secondo il disegno
costituzionale.
Per questo occorre moltiplicare non solo le voci di dissenso, ma tutte
quelle inizative di contrasto e di aggregazione sociale, come le manifestazioni
di Riace e Cutro,e in tante altre città, che possono riaffermare il principio
di realtà ed il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, a partire dal
diritto alla vita. Non solo per le persone che rischiano di fare naufragio, o
di essere respinte verso paesi nei quali rischiano trattamenti inumani o
degradanti, ma nell’interesse dell’intera popolazione italiana. Il diritto alla
vita non è un valore frazionabile, non riconoscerlo a chi rischia la vita in
mare corrsiponde a non riconoscerlo nell’intero corpo sociale, a chi si trova
su una strada, in un ospedale o in un luogo di lavoro a rischio. Chi lo nega in
mare, magari per la convenienza di rapporti politici o economici, e volta la
testa da un’altra parte, è un pericolo per tutti. La vita, anche di una sola persona,
vale di più di una manciata di voti.
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