Ma quando un autocrate, esposto alla pressione di una
protesta, o anche solo alla sorveglianza dell’opinione pubblica che
ne denuncia i soprusi, decide di porre fine all’andazzo della sua prepotenza e
la smette di perseverare nel proprio arbitrio, noi che cosa facciamo? Diciamo
che ha ceduto al ricatto? I regimi segregazionisti avrebbero fatto bene a
irrigidirsi, e noi avremmo compreso e giustificato quell’irrigidimento, giusto
perché contro l’apartheid si sono sviluppate anche episodiche – e a
volte anche molto gravi – manifestazioni di violenza?
Ma voglio andare oltre, rendendomi conto di quanto
possa apparire urticante il paragone: se, soverchiato dallo sdegno del mondo
civile, il regime iraniano smettesse di torturare i dimostranti rastrellati
dalla polizia morale, noi che cosa diremmo? Che ha perso di credibilità e
autorevolezza calando le brache davanti a quella riprovazione? Quando, qualche
giorno fa, Khamenei ha annunciato un pur improbabile e
limitato intervento di clemenza, abbiamo forse pensato che in tal modo quella
dittatura teocratica rischia di perdere la faccia? A chi obiettasse che è
blasfemo assimilare il caso del 41 bis, e dell’iniziativa
di Alfredo Cospito, e della “fermezza” che
qui si rivendica, alle mostruosità e al contegno impassibile dei sistemi
oppressivi, risponderei che si tratta invece – ed esattamente – della stessa
questione.
Anche qui si pretende infatti che la risposta dello
Stato sia commisurata al comportamento di chi protesta anziché all’esigenza di
ricondurre a giustizia un dispositivo di gratuita brutalità, il quale non ha
nulla a che fare con le pretese esigenze sicuritarie che ne costituirebbero la
giustificazione. Anche qui ci si esercita nello scrutinio della buona creanza
di chi protesta, ma qui con punte di oltranza inquisitoria che lasciano
allibiti, con il Guardasigilli liberale che si esibisce
nell’investigazione grammaticale dei proclami del detenuto per concludere che
l’iniziativa di sciopero della fame eccede il perimetro della nonviolenza: per
il ministro, infatti, Cospito ha fatto denuncia del proprio
subdolo tentativo insurrezionale dichiarando che il suo corpo è la sua “arma”.
E anche qui si pretende di difendere un regime
speciale di trattamento dei detenuti opponendone la manutenzione al più
classico pericolo, l’ “attacco allo Stato”, secondo la definizione
di un altro ministro di questo governo: altrove lo Stato di Dio e
della Rivoluzione, qui lo Stato dell’antimafia e
lo Stato dell’antiterrorismo, i feticci in adorazione dei
quali sono forse stati arrestati in questo Paese più innocenti che colpevoli.
Lo Stato che riformasse questo incivile rimedio dell’ordinamento
penitenziario non si piegherebbe davanti alla protesta di Cospito, ma
davanti alla propria ingiustizia, e non si risolleverebbe più debole, ma più
forte. Non si inchinerebbe agli intendimenti dei mafiosi che
avrebbero istigato l’anarchico a proseguire lo sciopero, ma all’esigenza di
farla finita con la giustizia dei piombi, con il finalismo giudiziario che per
recidere il tentacolo del crimine non esita a mettere alla rinfusa sul ceppo e
ad affidare indiscriminatamente al boia qualsiasi altro diritto.
Una soluzione diversa sarebbe stata un’occasione di
riscatto dello Stato, la dimostrazione della capacità dello Stato di emendarsi,
di riconoscere un proprio difetto e di porvi rimedio, e invece lo Stato ha
dimostrato in questo modo di soggiacere in condizione di inerzia, che non è
vigore, non è rispettabilità, a un’iniziativa cui sarebbe stato possibile
rispondere con la forza del diritto anziché con questa sciocca intransigenza
persecutoria. Se quello di Cospito era un ricatto, allora
lo Stato avrebbe potuto liberarsene concedendo a sé stesso,
non alla situazione di quel condannato, la possibilità di un incivilimento che
non avrebbe avuto nulla di concessorio alle farneticazioni dell’anarchico né
agli atti di violenza cui si sono abbandonati alcuni
pericolosi dimostranti.
E il ministro della Giustizia avrebbe potuto dare
prova di qualche aderenza tra la sua predicazione garantista e
la linea esecutiva che ha concretamente ritenuto di intraprendere. Avrebbe
potuto decidere di essere un ministro diverso, al costo di non essere più
ministro, e invece ha deciso di non essere un ministro diverso pur di
continuare a essere ministro.
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