venerdì 3 marzo 2023

Cospito è la vendetta populista dello Stato, Nordio metterebbe anche Gandhi al 41bis - Iuri Maria Prado

 

Ma quando un autocrate, esposto alla pressione di una protesta, o anche solo alla sorveglianza dell’opinione pubblica che ne denuncia i soprusi, decide di porre fine all’andazzo della sua prepotenza e la smette di perseverare nel proprio arbitrio, noi che cosa facciamo? Diciamo che ha ceduto al ricatto? I regimi segregazionisti avrebbero fatto bene a irrigidirsi, e noi avremmo compreso e giustificato quell’irrigidimento, giusto perché contro l’apartheid si sono sviluppate anche episodiche – e a volte anche molto gravi – manifestazioni di violenza?

Ma voglio andare oltre, rendendomi conto di quanto possa apparire urticante il paragone: se, soverchiato dallo sdegno del mondo civile, il regime iraniano smettesse di torturare i dimostranti rastrellati dalla polizia morale, noi che cosa diremmo? Che ha perso di credibilità e autorevolezza calando le brache davanti a quella riprovazione? Quando, qualche giorno fa, Khamenei ha annunciato un pur improbabile e limitato intervento di clemenza, abbiamo forse pensato che in tal modo quella dittatura teocratica rischia di perdere la faccia? A chi obiettasse che è blasfemo assimilare il caso del 41 bis, e dell’iniziativa di Alfredo Cospito, e della “fermezza” che qui si rivendica, alle mostruosità e al contegno impassibile dei sistemi oppressivi, risponderei che si tratta invece – ed esattamente – della stessa questione.

Anche qui si pretende infatti che la risposta dello Stato sia commisurata al comportamento di chi protesta anziché all’esigenza di ricondurre a giustizia un dispositivo di gratuita brutalità, il quale non ha nulla a che fare con le pretese esigenze sicuritarie che ne costituirebbero la giustificazione. Anche qui ci si esercita nello scrutinio della buona creanza di chi protesta, ma qui con punte di oltranza inquisitoria che lasciano allibiti, con il Guardasigilli liberale che si esibisce nell’investigazione grammaticale dei proclami del detenuto per concludere che l’iniziativa di sciopero della fame eccede il perimetro della nonviolenza: per il ministro, infatti, Cospito ha fatto denuncia del proprio subdolo tentativo insurrezionale dichiarando che il suo corpo è la sua “arma”.

E anche qui si pretende di difendere un regime speciale di trattamento dei detenuti opponendone la manutenzione al più classico pericolo, l’ “attacco allo Stato”, secondo la definizione di un altro ministro di questo governo: altrove lo Stato di Dio e della Rivoluzione, qui lo Stato dell’antimafia e lo Stato dell’antiterrorismo, i feticci in adorazione dei quali sono forse stati arrestati in questo Paese più innocenti che colpevoli. Lo Stato che riformasse questo incivile rimedio dell’ordinamento penitenziario non si piegherebbe davanti alla protesta di Cospito, ma davanti alla propria ingiustizia, e non si risolleverebbe più debole, ma più forte. Non si inchinerebbe agli intendimenti dei mafiosi che avrebbero istigato l’anarchico a proseguire lo sciopero, ma all’esigenza di farla finita con la giustizia dei piombi, con il finalismo giudiziario che per recidere il tentacolo del crimine non esita a mettere alla rinfusa sul ceppo e ad affidare indiscriminatamente al boia qualsiasi altro diritto.

Una soluzione diversa sarebbe stata un’occasione di riscatto dello Stato, la dimostrazione della capacità dello Stato di emendarsi, di riconoscere un proprio difetto e di porvi rimedio, e invece lo Stato ha dimostrato in questo modo di soggiacere in condizione di inerzia, che non è vigore, non è rispettabilità, a un’iniziativa cui sarebbe stato possibile rispondere con la forza del diritto anziché con questa sciocca intransigenza persecutoria. Se quello di Cospito era un ricatto, allora lo Stato avrebbe potuto liberarsene concedendo a sé stesso, non alla situazione di quel condannato, la possibilità di un incivilimento che non avrebbe avuto nulla di concessorio alle farneticazioni dell’anarchico né agli atti di violenza cui si sono abbandonati alcuni pericolosi dimostranti.

E il ministro della Giustizia avrebbe potuto dare prova di qualche aderenza tra la sua predicazione garantista e la linea esecutiva che ha concretamente ritenuto di intraprendere. Avrebbe potuto decidere di essere un ministro diverso, al costo di non essere più ministro, e invece ha deciso di non essere un ministro diverso pur di continuare a essere ministro.

da qui

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