L’uomo che aveva osato rifiutare il vaccino, rinunciando ad un torneo in cui era strafavorito, al trono del tennis mondiale e ad un pacco di soldi, è tornato in quell’Australia che gli aveva chiuso le porta in faccia, ha sbaragliato la concorrenza e si è portato a casa, per la decima volta, l’Australian Open, ergendosi a tennista più titolato di tutti i tempi. Quell’uomo si chiama Novak Djokovic, ed è un tipo pericoloso.
Già in tempi non sospetti, quando pure il circo mondiale delle racchette si
era fermato per il Covid, Novak Djokovic aveva espresso le sue riserve su un
vaccino che era ancora di là da venire, ma per il quale era già in corso la
campagna promozionale. Sin da allora s’erano allungate sulla sua persona le
ombre di nemico della scienza, ma era solo un antipasto. Dopo le sue
manifestazioni di “scetticismo” pandemico, infatti, Djokovic fu preso in
trappola in occasione dell’Adria Tour di giugno, un evento di beneficenza da
lui organizzato a Zara, in Croazia, con la partecipazione di altri colleghi:
nella baldoria seguita al torneo, i tennisti non avevano rispettato il noto
“protocollo” ed erano risultati tutti positivi al tampone. I nomi degli altri
reietti Dimitrov, Rublev e Zverev furono oscurati a beneficio dell’unico che
doveva risplendere nel cielo massmediatico, quello di Novak Djokovic, che
acquisì compiutamente la patente di “nemico della Scienza”. Un anno e mezzo
dopo, quando il possesso del lasciapassare elettronico da vaccinazione divenne
un requisito fondamentale per poter viaggiare e prendere parte ai tornei, il
campione serbo si ritrovò a mezz’aria alla vigilia di quell’Australian Open che
era la sua competizione preferita. Sulle prime, il serbo aveva provato a
nascondicchiarsi, evitando di prendere parte all’ATP Cup di Sidney con la
sua nazionale e rinviando così la resa di conti di qualche giorno. Djokovic non
era l’unico tennista non vaccinato ad infrangersi sulle rigide norme
australiane, e come gli altri (26 a detta del direttore della manifestazione
Craig Tiley) aveva fatto ricorso ad un escamotage, presentando alla frontiera
una “esenzione medica” rilasciatagli da due commissioni indipendenti; le
autorità australiane, per motivi mai chiariti, accettarono le altre “esenzioni”
e respinsero quella del serbo, il quale venne posto in regime di quarantena e,
al termine di un calvario durato dieci giorni con due ricorsi presentati a
diversi organi di giustizia, dichiarato “persona non grata” ed espulso dal
paese con un atto amministrativo promulgato dal ministro per l’immigrazione
Alex Hawke, che descrisse Djokovic come “un pericolo per la sicurezza”.
La prova di forza del governo australiano, allora guidato dall‘esponente del Partito Liberale
Scott Morrison, poi sconfitto alle successive elezioni politiche, attestò il suo ruolo
di capofila del mondo occidentale nelle politiche di “rigore pandemico”
(primato che gli sarebbe poi stato strappato dal Canada di Trudeau) nel momento in cui
la campagna vaccinale globale raggiungeva il suo apogeo. Sull’altare della
propaganda venne sacrificato quello che meglio funzionava come Nemico
Pubblico della Scienza, quel Novak Djokovic di cui si consumò il linciaggio a
reti (occidentali) unificate.
Fino a quel fatidico 2020, il tennista serbo era stato tutt’al più
considerato un tipo “eccentrico”, seppure pienamente organico alla megamacchina
dello spettacolo: dopotutto, come gli altri paperoni dello sport (i suoi
guadagni in carriera sono stimati in quasi 200 milioni di dollari), anche lui
aveva stipulato faraonici contratti da testimonial dei diversi marchi
dell’abbigliamento sportivo, anche lui aveva girato spot pubblicitari, anche
lui aveva fatto impresa di se stesso, anche lui aveva partecipato al festival
di Sanremo finendo a cantare Terra promessa di Eros Ramazzotti
sul palco dell’Ariston. Eppure, la traiettoria che aveva condotto Novak
Djokovic sul tetto del mondo era diversa da quella dei suoi omologhi. Nel 2010,
quand’era ancora un tennista di medio calibro che non era riuscito ad esprimere
il suo potenziale, aveva scoperto di essere affetto da celiachia dopo essersi
affidato alle cure del dottor Igor Cetojevic, uno “specialista in medicina
energetica” che gli aveva diagnosticato l’intolleranza al glutine applicando
una fetta di pane bianco sui muscoli delle sue braccia. Successivamente, dopo
avere ingaggiato come allenatori due fuoriclasse come Boris Becker e Andre
Agassi, allo staff di Djokovic era stato aggregato anche Pepe Imaz, ex tennista
spagnolo diventato a fine carriera “guida spirituale”: sarebbe stato lui ad
inserire nei piani di allenamento di Djokovic pratiche quali la meditazione e
gli abbracci di gruppo, che saranno poi oggetto di scherno da parte dei mass
media. In quel 2017 che fu l’anno più difficile della sua carriera, poi, il
campione serbo si incaponì a curare un problema al gomito seguendo la filosofia
di Imaz, salvo poi sottoporsi ad intervento chirurgico nel febbraio dell’anno
successivo . Avendo vissuto tutto ciò come una disfatta sul piano personale,
dopo l’operazione Djokovic pianse per tre giorni consecutivi. In seguito,
nonostante il ritorno dello slovacco Marian Vajda a capo del suo staff tecnico
ed il conseguente allontanamento di Imaz (secondo il prosaico Vajda, “il tennis
non è una questione di filosofia”), Djokovic avrebbe ancora fatto parlare di sé
per le sue “bizzarre” credenze, fra una visita al sito “magico” dela “Piramide
del Sole” in Bosnia ed un confronto pubblico con il guru dell’alimentazione
Chervin Jafarieh sul potenziale curativo della meditazione. Se all’inizio
queste prese di posizione erano state derubricate ad innocue convinzioni “new
age” da miliardario stravagante, quando scattò l’operazione “Djokovic Nemico
della Scienza” furono sbattute come mostruosità su tutte le prime pagine,
producendo articoli di puro dileggio come, volendo pescare due aghi in un
pagliaio, “È
ancora possibile per una persona normale tifare per Novak Djokovic?” oppure “Cose
più improbabili dei vaccini anti-covid in cui Novak Djokovic crede fermamente”, pezzo nel quale il
serbo viene presentato come un pazzoide che dialoga con le ciotole di riso e
celebra le sue vittorie arrampicandosi sugli alberi.
In verità, Novak Djokovic si è sempre definito un cristiano ortodosso,
membro di quella Chiesa Ortodossa Serba che lo insignì nel 2011 dell’Ordine di
San Sava, prestigiosa onorificenza che rappresentò, a detta sua, il premio più
importante che avesse mai ricevuto. Negli anni il campione serbo si è prodotto
in diverse dichiarazioni di tenore “panslavista” e “panortodosso”, ricevendo un
riconoscimento in tal senso anche dalla Chiesa Ortodossa Russa. Numerose sono
state le sue iniziative di beneficenza, sia in ambito laico che religioso, come
l’apertura di un ristorante gratuito per senzatetto (“Il denaro non è un
problema per me. Ho guadagnato abbastanza per dar da mangiare a tutta la
Serbia. Penso che la gente lo meriti per il sostegno che mi ha dato.” disse
allora) o l’acquisto di un locale a Nizza per far sì che la locale comunità
serba potesse avere il suo luogo di culto. In occasione della sua detenzione
australiana, mentre il suo caso diventava in patria testimonianza della
“diversità serba” e dell’ostilità dell’Occidente contro Belgrado, strascico dei
bombardamenti del 1999, il Patriarca di Serbia Porfiria aveva invitato i fedeli
a pregare per lui, innalzando Djokovic sullo scomodo piedistallo di eroe
nazionale. Il “nazionalismo serbo” di Novak Djokovic è sempre stato in realtà
piuttosto tiepido, limitandosi a qualche dichiarazione a favore della
permanenza del Kosovo nella Serbia, mentre allenatori provenienti dall’odiata
Croazia entravano con disinvoltura a far parte del suo staff, ma il tribunale
mediatico che lo ha processato ne ha fatto un ulteriore capo di imputazione.
Nel suo trionfale ritorno in Australia, dopo aver vinto il torneo di
Adelaide, si può ben dire che Djokovic avesse vinto pure il più prestigioso
Open di Melbourne prima ancora di scendere in campo, ed a sostegno di questa
tesi basterebbe citare lo stravolgimento delle “regole anti-covid” che ne
avevano impedito la partecipazione l’anno precedente: nell’edizione 2023 del
torneo, infatti, è stato possibile scendere in campo anche se “positivi” purché
ci si sentisse in forma, senza alcun obbligo di tamponamento né prima né dopo
le gare. Il cammino del serbo nella competizione è stato caratterizzato dalle
vittorie schiaccianti e dalle polemiche pretestuose: oggetto degli strali
velenosi del sistema massmediatico è stato pure il suo problema alla coscia,
descritto come un espediente tattico per fare un po’ di chiagniefottismo. Nel
match del secondo turno contro il francese Couacaud, nel quale Djokovic ha
ceduto un set all’avversario, l’attenzione si è concentrata su una borraccia
con bigliettino annesso pervenutagli dagli uomini del suo staff: tanto è
bastato per accusarlo di essere un imbroglione ed invocarne la squalifica.
Nell’incontro dei quarti di finale contro il russo Rublev, protagonista
dell’incidente che ha stuzzicato le perniciose attenzioni della canea mediatica
è stato invece il padre di Novak, Srdjan, beccato a festeggiare assieme ai
russi nei dintorni della Rod Laver Arena, trovandosi immortalato in una foto in
cui a pochi centimetri dal suo volto sventolava una bandiera con l’immagine di
Putin. Si è scatenata subito una (prevedibile) gazzarra, culminata nelle
dichiarazioni della tennista ucraina Marta Kostyuk, la quale, dicendosi
“turbata”, ha sentenziato che nessuno ha il diritto di sventolare le bandiere
russe. C’è mancato poco che Srdjan Djokovic fosse espulso dall’Australia; ad
ogni modo, per evitare altri “incidenti diplomatici”, ha deciso di non
presenziare agli ultimi due incontri. Nel primo di questi, la semifinale contro
l’americano Tommy Paul, massacrato per tre set a zero, in tribuna c’era anche
il Grande Vaccinatore in persona, quel Bill Gates che era giunto in Australia a
bordo del suo jet da settanta milioni di dollari per mettere in guardia il mondo
sui pericoli del cambiamento climatico e per avvertire
gli australiani che il loro paese deve prepararsi per la prossima pandemia, che
sarà assai più brutale del Covid. Guardare Djokovic che prende a pallate
il suo avversario americano deve avergli fatto lo stesso effetto che fecero a
Hitler le vittorie di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936. La finale
contro il greco Tsitsipas è stata poco più di una formalità, al termine della
quale Djokovic ha potuto celebrare la sua decima vittoria all’Open d’Australia
(su dieci finali disputate: uno dei tanti imbattibili record) nonché la sua
ventiduesima in un torneo del “Grande Slam”, riprendendosi pure, a quasi
trentasei anni, il primo posto nel ranking ATP. Lorsignori se ne facciano una
ragione: il Nemico Pubblico è il numero uno.
Nessun commento:
Posta un commento