All’orizzonte si staglia già il probabile innesco della crisi finanziaria che seppellirà quel che rimane dell’economia globalizzata post-1945: il default americano. Il braccio di ferro tra repubblicani e democratici al Congresso sarà usato per provocare il default tecnico delle finanze statunitensi, generando uno tsunami che, oltre alle economie emergenti, colpirà in particolar modo Italia, Giappone e Cina.
Sovversione in grande stile
A distanza di due
settimane dall’analisi “inaugurale” relativa al 2023, c’è già sufficiente materiale
per raffinare quanto anticipato. Abbiamo detto, infatti, che con alta probabilità
l’anno corrente sarebbe stato contraddistinto da una crisi finanziaria
maggiore che spazzerà via gli ultimi resti dell’economia
globalizzata post-1945, già duramente indebolita da Covid e conflitto
russo-ucraino, spianando l’avvento dei nazionalismi/trumpismi in vista del
conflitto tra USA e Cina da collocarsi attorno alla metà del decennio. Abbiamo
più volte sottolineato, inoltre, come l’humus di tale crisi finanziaria sia
stato oculatamente preparato nel corso di quindicina anni: all’epoca dei
tassi a zero inaugurata dopo la crisi dei mutui subprime del 2008 e
l’esplosione del debito post-pandemia, è subentrata la prima ondata di
inflazione (poi esplosa grazie all’intervento di Vladimir Putin in Ucraina),
funzionale all’aumento dei tassi, così da rendere progressivamente sempre più
insostenibili e debiti accumulati. A questo preciso quadro, manca solo un “detonatore”,
un evento che incendi le polveri ammassate in questi anni.
Tale
“innesco”, e arriviamo subito al nocciolo dell’articolo, è ormai facilmente
individuabile nonostante il 2023 sia appena iniziato: non si può neppure dire
che sia una novità quanto, piuttosto, la riproposizione su larga scala,
per cosi dire “definitiva”, di quanto già sperimentato nel 2011. Il
detonare della crisi finanziaria sarà, in sostanza, il default del
debito pubblico americano, l’insolvenza di quelle obbligazioni che fungono
ancora da punto di riferimento per il mercato del debito mondiale.
Un default del debito pubblico americano sarebbe tanto devastante quanto facile
da provocare: la costituzione statunitense prevede, infatti, che il Congresso
debba ciclicamente approvare l’innalzamento del tetto massimo del debito pubblico,
salvo dichiarazione dello stato d’insolvenza e paralisi della spesa pubblica.
Questo scenario, un tempo impensabile, è ormai entrato nel novero delle
possibilità nel nuovo quadro geopolitico mondiale, in cui le potenze
anglosassoni giocano esplicitamente il ruolo di incendiarie. Le
premesse per il default tecnico degli USA ci sono già tutte: un Congresso
suddiviso tra Senato a maggioranza democratica e Camera a maggioranza
repubblicana, una politica più polarizzata che mai, uno clima ancora avvelenato
dall’assalto al Campidoglio del 2021 e dalla costante delegittimazione
dell’avversario.
Il default delle
finanze pubbliche americane ben si inserirebbe in quel contesto di “guerra
civile” strisciante che, quasi certamente, culminerà tra la fine del 2024 e
l’inizio del 2025 nel definitivo regolamento di conti tra democratici e
repubblicani,
sancendo la vittoria dei “trumpisti” anti-Cina ed anti-Iran. Il
default americano avrebbe, però, conseguenze più immediate e sopratutto estese
ben oltre i confini americane. Come una bomba atomica innescata sotto il pelo
dell’acqua, l’insolvenza dei T-bills americani genererebbe uno tsunami che
raggiungerebbe le coste di tutto il mondo, provocando il collasso delle piazza
finanziarie, degli assetti politici, delle relazioni internazionali consolidate
in questi ultimi decenni, della residua fiducia nelle istituzioni globali. In
una parola: il tracollo di quel che rimane dell’ordine mondiale uscito dal
conflitto del 1945 e solo apparentemente rafforzato dopo la dissoluzione
dell’URSS nel 1991.
Senza
prendere in considerazioni i Paesi emergenti, che faticano a stare a galla
negli attuali frangenti (vedi default dello Sri Lanka e difficoltà crescenti di
un Paese chiave come l’Egitto) e che verrebbero trascinati a fondo senza alcuna
speranza da un default americano, sono tre i principali Paesi che rischiano di
rimanere duramente colpiti dallo tsunami finanziario statunitense. Si
può infatti affermare che i principali bersagli della finanza angloamericana
siano Cina, Giappone ed Italia.
La Cina, che
è il secondo detentore estero di titoli di Stato americano (con circa 900
miliardi di dollari), vedrebbe nel default americano il conclamato sabotaggio
di quell’ordine mondiale in cui ha prosperato per un trentennio. I cinesi
considererebbero confermata la loro tesi secondo cui gli USA stiano
deliberatamente alimentando il “caos” mondiale, coll’obiettivo di tarpare
le ali alle potenze emergenti. L’insolvenza americana sarebbe un affronto
secondo solo ai costanti flirt di Washington con l’isola di Taiwan: i guadagni
accumulati in decenni di avanza commerciali sarebbero spazzati via da un giorno
all’altro, causando ad un Paese ancora relativamente “povero” come la Cina
enormi perdite finanziarie. Pechino quasi sicuramente subodora la trappola, e
ciò spiega perché, negli ultimi anni, abbia progressivamente ridotto
l’esposizione verso il debito americano. All’indomani del dissesto
americano, spetterà in ogni caso alla Cina il compito di tentare di ricreare
una qualche forma di mercato mondiale dei capitali, magari poggiante nuovamente
sulle riserve auree, pena la progressiva “balcanizzazione” dell’economia
mondiale.
Il Giappone
sarebbe il secondo grande obiettivo della finanza angloamericana. Il default
americano si ripercuoterebbe su Tokyo attraverso due canali: perdita secca
derivante dalla svalutazione dei T-bills (il Sol Levante è il primo detentore
estero di debito americano, con 1.000 miliardi di dollari) e rischi sulla
sostenibilità del debito pubblico giapponese stesso, pari al 260% del PIL. Il
debito pubblico giapponese, la cui origine va fatta risalire agli accordi di
Plaza imposti dagli USA a Tokyo nel 1985, è cresciuto infatti a dismisura
all’interno di un contesto che sta progressivamente scomparendo: bassa
inflazione, commercio mondiale in ascesa e integrazione crescente del mercato dei
capitali. Da un giorno all’altro, si potrebbe scoprire che il debito
pubblico giapponese non è più rifinanziabile, pena il tracollo dello yen e
conseguente impossibilità di importare energia e derrate alimentari. Si
potrebbe obiettare che il Giappone è parte integrante di quella alleanza
anglosassone per contrastare l’ascesa della Cina nel Pacifico: in realtà, il disordine
finanziario faciliterebbe la radicalizzazione del Giappone, favorendo il
rafforzamento di quegli elementi estremisti e militaristi che sono funzionali
ai piani delle potenze marittime.
L’Italia
sarebbe quasi certamente la terza grande vittima del dissesto americano: con ogni probabilità (come già
successo peraltro nel 2011), la crisi finanziaria italiana finirebbe
coll’offuscare presto il default americano stesso, imponendosi come l’epicentro
per eccellenza della crisi finanziaria mondiale. Col default italiano,
la finanza anglosassone da un lato finirebbe il lavoro iniziato nel 1982
(divorzio Tesoro-Bankitalia, tre anni prima soltanto dei sullodati accordi di
Plaza), dall’altro assesterebbe il colpo di grazia all’Europa a trazione
tedesca che, insieme alla Cina, rimane davvero l’unica minaccia all’orizzonte
per l’universo anglo-ebraico. Colpendo l’Italia, infatti, gli
anglosassoni colpirebbero di nuovo per vie traverse la Germania che, insieme a
Cina e Giappone, subirebbe i danni maggiori dall’implosione dell’economia
globalizzata.
Se nel
gennaio 2023 solo i cinesi dipingono gli USA come gli “incendiari” del mondo,
entro l’estate, col default scientifico delle finanze statunitensi, questa
percezione potrebbe diffondersi a macchia d’olio.
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