Nel pensiero e nel
linguaggio di Bayo Akomolafe, psicologo clinico,
filosofo e poeta transnazionale di origini yoruba – cui ci introduce un prezioso e appassionato
articolo di Rebecca Rovoletto – la blackness e
la whiteness non
hanno davvero nulla a che vedere con il colore della pelle o con l’identità di
singoli individui. Diventare neri è sì un processo di ricongiunzione con le
proprie radici culturali ma è soprattutto un percorso che configura percezione
e comprensione del mondo reintegrandovi degli attori in-visibili. Vuol dire,
tra le altre cose, sottrarsi agli imperativi e ai giochi egemonici della “nave
schiavista” che fa di tutto per mantenerti tonico. Diventare neri è diventare
fuggiaschi, rallentare recuperando l’attenzione, trovando altre temporalità,
sapendo che in nessun luogo arriveremo intatti. Ed è anche accorgersi delle
crepe, tastarne i bordi, abitarne i paradossi… Non solo quel che viene escluso
dal computo capitalista, ma anche ciò che resta fuori dalle coscienze
collettive “bianche” imperniate nella separatezza e nei binarismi. Perché una
cosa è lasciarsi trasformare dal contatto con alterità radicali, altro è
reinscriverle nei recinti eurocentrici. Una cosa è pensare l’emancipazione in
termini di “fuggitività” dalla reclusione neoliberista, altra è accarezzare un
posto al tavolo del potere. La postura di radicale decolonialità di Akomolafe
ci interroga in profondità: quando e come reiteriamo o rinforziamo il sistema
contro cui ci battiamo? In che modo diventiamo iatrogeni nel pensiero e
nelle azioni che vorrebbero essere di cambiamento? Le sue domande segnano il
solco tra l’ambizione di occupare la tolda della “nave schiavista” e il
fuggirne. Non si tratta di soluzioni, dice. Si tratta di meravigliarsi, di
costruire nuove alleanze con il mondo che ci circonda (e non solo con gli
umani) per diventare diversi. Toccando il corpo materiale dell’attivismo e
lasciandolo rabbrividire
Nel 2020, l’onda ecologica partita da Wuhan, nel suo incontenibile percorso
di perturbazione verso occidente, ha raccolto e trasportato con sé inedite
voci. Una di queste appartiene a Bayo Akomolafe[1]. Intercettando
alcuni “punti ciechi” del nostro praticare militanza e attivismo, ha stimolato
un gruppo di umani italici a seguirne le tracce, riflettere sulla sua
prospettiva e impegnarsi nell’approfondire e restituire almeno in parte il suo
pensiero.
Il risultato, sin qui, è la pubblicazione a maggio della traduzione
italiana del suo saggio Queste terre selvagge di là dallo steccato,
per i tipi di Exòrma, e la nascita di un sito dedicato a raccogliere e
tradurre molti dei suoi contributi[2].
Ma facciamo un passo indietro. Per chi ha intensamente frequentato il
pensiero e le epistemologie meso-sudamericane dei popoli Maya,
Aymara o Mapuche; per chi ha sostato con le proposte di Ivan Illich e Gustavo Esteva, con le analisi di Raúl
Zibechi, con le visioni e le pratiche cosmo-politiche di Silvia Rivera Cusicanqui e dei femminismi comunitari di
Lorena Cabnàl e Julieta Parédes (e i molti altri raccolti da Francesca
Gargallo)[3], con le vivide esperienze delle cosiddette autonomie indigene, a
partire da quella zapatista; ebbene, a questi “noi” – cui si aggiungono i
conoscitori dell’ampio spettro dei black studies e dei
femminismi neri – non mancheranno numerose risonanze con quanto ricorre,
dall’altra parte del globo, nell’elaborato pensiero di Bayo Akomolafe.
«Se c’è una cosa che l’Antropocene non sa fare è rendere conto delle
perdite. Non sa guardare al passato come ancora persistente, vuole guardare nel
futuro per risolvere i problemi nel futuro; tracciare gli algoritmi che ci
aiuteranno a raggiungere il 2050 e oltre. Ma non sa come rendere conto
dell’espropriazione, delle ossa e dei ricordi sepolti sotto l’asfalto e le
autostrade del progresso. Ci sono spiriti, ci sono animali, ci sono esseri
vitali, c’è più-dell’umano… tutto quello che sta accadendo, compresi virus e
cambiamento climatico, suggerisce un’insurrezione delle cose in-visibili».
Nulla di nuovo, quindi? Non proprio. La sua originalità è quella di
intrecciare una formazione prettamente occidentale – che attinge ad alcune
delle sue punte più avanzate[4] – con la tradizione delle sue origini Yoruba,
usando un potente linguaggio figurativo al tempo stesso poetico e ironico,
ricco di tropi e neologismi spiazzanti. Ma, soprattutto, è capace di indicarci
che “il re è nudo” anche riguardo a molto pensiero critico e pratiche
dell’attivismo contemporaneo, quando si limita alla sola dialettica con le
strutture dominanti.
Così come sappiamo guardare in faccia il predatore (il capitalismo
globalizzato, variamente declinato) e le sue molte teste (patriarcato,
razzismo, colonialismo, misoginia, eccetera), allo stesso modo in cui vediamo
gli effetti dei suoi arbitri – che chiamiamo Antropocene, caos climatico,
ecocidio, ingiustizie sociali e ambientali – dovremmo osservare e chiederci
quando rischiamo di replicare lo stesso modello che vorremmo superare. Ricordo
molto bene le parole dello stesso Galeano fu Marcos,
quando nel 2015 diceva: «Noi vediamo che si continua a
ricorrere agli stessi metodi di lotta. Si continua con gli stesi
cortei, reali o virtuali, con elezioni, con sondaggi, con riunioni. (…) Come se
anche il sistema fosse lo stesso e uguali le forme di sottomissione e
distruzione. Come se là in alto il potere avesse mantenuto invariato il
suo funzionamento. (…) Ma ancora una volta vediamo che quelli che
pensano ed analizzano non dicono niente di questo. Continuano a ripetere le
cose di vent’anni fa, quarant’anni fa, un secolo fa… E vediamo che
organizzazioni, gruppi, collettivi, persone, continuano a fare le stese cose (…)».
Wifredo Lam — Sombre Malembo, Dieu du carrefour -1943, immagine tratta dal
blog Clinica della crisi, dove trovate Èsù al crocevia, un brano tratto da Queste
terre selvagge di là dallo steccato di Bayo Akomolafe, edito da
Exòrma
Da attivista e studioso, e da una postura di radicale decolonialità,
Akomolafe parte proprio da queste domande: quando e come reiteriamo o
rinforziamo il sistema contro cui ci battiamo? In che modo
diventiamo iatrogeni nel pensiero e
nelle azioni che vorrebbero essere di cambiamento? Quando e come nel voler
‘combattere’ la crisi diventiamo parte della crisi? E se il modo in cui vediamo
il problema, interiorizzato su sistemi normativi di ri-produzione capitalista,
fosse il problema?
Del resto, l’Antropocene non è certo qualcosa là fuori, non è il climate
change:
«Il climate change non è la vorticosa nuvola grigia fuori dal centro
congressi costruito per combattere il climate change. Il climate change è la
nuvola vorticosa, il centro congressi e il nostro attivismo. Siamo
strettamente legati al mondo e nulla è assolto o al sicuro: né la memoria, né
la cognizione, né i sentimenti, né l’azione, né il pensiero, né i nostri corpi».
Non è semplice, ma ce lo dobbiamo pur dire. Perché una cosa è
lasciarsi trasformare dal contatto con alterità radicali, altro è reinscriverle
nei recinti eurocentrici. Una cosa è pensare l’emancipazione in termini di
“fuggitività” dalla reclusione neoliberista, altra è accarezzare un posto al
tavolo del potere – politico, accademico, leaderistico, autoriale – esserne
normalizzati e funzionali, servendo su un piatto d’argento nuove “nicchie” da
mettere a valore e gentrificare.[5]
«Se siete stati buoni alleati bianchi mi complimento con voi. E anche se ho
bisogno di voi non posso restare qui. E questo probabilmente è vero anche per
voi. Non posso rischiare di essere incluso in questi luoghi di potere. Occupare
la tolda della nave schiavista mi lascia pur sempre qui, ci lascia qui sulla
stessa imbarcazione. E non voglio un posto al tavolo, voglio volare via come
gli uomini e le donne Igbo che volarono via da Dunbar Creek. Forse nel mio volo
potreste accorgervi che nel più ampio fluire delle cose potrebbe non essere
così importante essere stati o meno buoni cittadini…».
In qualche collettivo, tempo fa, è girato un testo cui anche Akomolafe fa
riferimento. Si tratta di Undercommons. Pianificazione
fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred
Moten che l’anno scorso è stato il nucleo dell’edizione del Black History Month di
Torino. Gli autori, citando Frank B. Wilderson III, usano la metafora
della nave schiavista, non soltanto come strutturazione delle gerarchie
capital-colonialiste, ma anche come luogo in cui incontrare una “compagnia
visionaria” con cui pianificare una politica fuggiasca.
Akomolafe riprende la stessa metafora per leggere la condizione di tutti i
corpi (umani e alterumani) nella modernità, sottolineando che da quel
vascello non siamo mai sbarcati, quel vascello si è soltanto diffratto e riversato sulla spiaggia,
diventando il porto, la città e le relazioni, i movimenti e le posture che
i corpi s(tereo)tipati sono obbligati ad assumere dall’assemblaggio stesso
della struttura “navale”. Ma sottolinea anche la generatività delle
spaccature che si aprono nel suo fasciame, quando ci sbalzano in
un crocevia, quando diventa impossibile tirare dritto:
“Ésù è il trickster Yoruba, dio dei crocevia – ricco in agentività, colui
che disciplina le nostre pretese di completezza con dosi omeopatiche di
mostruosità, rompe i binarismi con cui osserviamo il mondo e apre una terza
via. Questo è il dono di Ésù. Il dono dei crocevia. [Colui che] trasformò un
veliero di tortura in un grembo di legno, gravido di un popolo diasporico che
ha arricchito il mondo di magica vitalità. (…) E posso fornire molti esempi di
come l’oppressione sia diventata l’alchimia della trasformazione. Come i corpi
disarticolati sono diventati portali per altri modi di essere: nella danza,
nella musica, nei rituali, nei modi di interagire con il mondo, nelle
religioni, nei sistemi spirituali”.
Per Akomolafe, cresciuto in una Nigeria “post-coloniale” impegnata a
diventare il più occidentale possibile, “diventare nero” è
stato un processo di ricongiunzione con le proprie radici culturali –
scorticate dalle tratte transatlantiche, dalla spoliazione degli ecosistemi,
dal missionarismo, dalle ristrutturazioni del FMI – ma è soprattutto un percorso
che riconfigura percezione e comprensione del mondo reintegrandovi gli attori
in-visibili, i geni dei luoghi, gli abitanti nonumani che co-creano mondo
assieme a noi, le temporalità della memoria, le mitopoiesi, l’incontro con le
figure trickster.
Nella epistemologia di Akomolafe “nerità” e “bianchità” non hanno nulla a
che vedere con il colore della pelle o con l’identità di singoli individui:
la Whiteness è «un sistema razzializzato che produce
corpi e li colloca gerarchicamente. Mi piace dire che i corpi bianchi sono
diventati bianchi per via della “bianchità”». È la cartografia
terra-formante del mondo tracciata dalle rotte estrattiviste in nome
del progetto prometeico dell’Umano cartesiano-illuminista, l’appiattimento
di tutte le discontinuità, la separazione dal “mondo naturale” ridotto a merce. Bianchità
è infatti:
«il modo in cui gli alberi vengono abbattuti e gli ecosistemi ripuliti per
fare spazio ai parcheggi, il modo in cui le popolazioni indigene nelle Americhe
sono state sterminate, il modo in cui le montagne sono state fatte esplodere
per costruire un porto per le navi che trasportavano generazioni africane in
Brasile».
La visione ecologica, decoloniale e postumana proposta da
Akomolafe, che chiama queer, disturba come un’interferenza il
confortevole palinsesto della quotidiana routine, scuote le fondamenta di
questioni come il concetto stesso di identità, di corpo individuale, di
agentività esclusiva e di reattività coatta.
Diventare neri è quindi sottrarsi gli imperativi e ai giochetti egemonici
della “nave schiavista” che fa di tutto per mantenerti tonico.
È diventare fuggiaschi, è rallentare nell’emergenzialità
permanente (etero- e auto-diretta) come funzione
dell’attenzione, trovando altre temporalità (che chiama in modo
geniale cronofemminismo), sapendo che non arriveremo intatti.
È accorgersi delle crepe e sottrarsi alla foga di aggiustarle
o amplificarle, ma tastarne i bordi, abitarne i paradossi (“squattarle”,
come direbbe Timothy Morton), sgusciarvi attraverso e incontrare tutto
ciò che da “moderni” abbiamo occultato, ignorato, reso negletto o
folckloristico. Non soltanto tutto quello che viene escluso dal computo
capitalista, ma anche ciò che resta fuori dalle coscienze collettive “bianche” imperniate
nella separatezza e nei binarismi.
Per Akomolafe si tratta di compostare, fare humus, creolizzare
idee, codici, prospettive, politiche e posture, compreso l’attivismo[6].
«Quando le persone sentono parlare di tecnologie fuggitive, dicono: beh, ecco
una pratica che se la faccio, potrei essere salvo; ecco un prodotto,
chiamiamolo “sistema di guarigione razziale”; ecco una app per l’emancipazione;
ecco un’idea, un concetto che è già ben confezionato. La stessa presenza della
parola fuggitivo lo smonta. Il fuggitivo è una figura in continuo movimento,
quindi non parlo dello stato di arrivo (…) sono all’opera schemi e formule
viscose che vengono occluse quando pensiamo a noi stessi come singoli
attivisti. (…) il cambiamento non è umano, non è opera nostra. Possiamo solo
allearci e costruire coalizioni più forti con il mondo che ci circonda (e non
solo con gli umani). Non si tratta di soluzioni, anche se le soluzioni
sono benvenute. Si tratta di meravigliarsi, costruire nuove alleanze per
diventare diversi. Toccando il corpo materiale dell’attivismo e lasciandolo
rabbrividire».
[1] Bayo Akomolofe, psicologo clinico,
filosofo e poeta, è di origini nigeriane (Yoruba), attualmente residente in
India con la famiglia. Viaggia tra India, Europa, USA e Sudamerica come Visiting
Professor in varie università, tra cui Berkley, tenendo conferenze in
mezzo mondo. Attualmente, è professore aggiunto al Pacifica Graduate Institute,
California, e co-fondatore dell’associazione The Emergency Network.
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