giovedì 9 marzo 2023

Una strada battuta: il pogrom di Huwara - Yuval Abraham

 

Traduzione di Andrea Rivas

Il racconto di una famiglia palestinese sulla notte del pogrom di Huwara, articolo scritto dal giornalista e attivista israeliano, Yuval Abraham, pubblicato nel sito web israeliano +972, il 2/03/2023 (QUI).


Nota del traduttore: “L’ho tradotto da “A l’encontre”, sito della rivista francese “La Brèche” (QUI).
Non ho aggiunto nulla. Mi sembrava del tutto non necessario”. 
Andrea Rivas

Sei anni fa, quando è nato il loro primo figlio, Uday Dumeidi e sua moglie Ahlas decisero di adottare una micina fulva. Costruirono una piccola casa accanto ad un oliveto, in una via laterale della occupata città di Huwara (a sud di Nablus, in Cisgiordania). Chiamarono loro figlio Taym, che proviene da una delle parole arabi che significano «amore», e la gattina Bousa, che significa «bacio». Così iniziò il racconto di Uday, tremando in piedi accanto ad una pozzanghera di sangue nero.
La notte del pogrom realizzato dai coloni a Huwara (26-27 febbraio 2023), qualcuno mutilò il gatto abbandonandolo nel cortile della famiglia Dumeidi, accanto alla stanza per gli invitati che restò completamente calcinata. La notte dopo il pogrom, Uday Dumeidi ed io abbiamo chiacchierato davanti ai muri anneriti ed al sangue coagulato per terra. Una scatola vuota di cibo per gatti, un cuscino colorato dove dormiva il gatto e frammenti di cristallo sporcavano il pavimento. Uday Dumeidi mi raccontò che amava gli animali fin da quando era bambino, che sapeva come comunicare con loro. «Sono una sorta di specchio delle mie emozioni», mi disse.
Dopo la violenza, il silenzio sommerse la città. Poche persone osavano uscire dalle loro case. Nelle prime ore del mattino ho camminato per la via principale verso la casa di Uday. C’erano soldati accanto a negozi chiusi e ad autovetture bruciate. L’ingresso in città era permesso solo ai veicoli israeliani malgrado la sua strada principale serva come arteria centrale ai coloni che si spostano da nord a sud della Cisgiordania.
Un’autovettura ha diminuito la sua velocità quando sono passato. «Cosa guardi?» urlò una voce dall’interno. Prima che potessi rispondere, due coloni israeliani sono scesi dall’auto. Solo dopo che avevo detto una parola in ebraico, sono risaliti in macchina e se ne sono andati.
Secondo il comune di Huwara, i coloni hanno incendiato almeno 10 abitazioni. Secondo i rapporti israeliani, 400 coloni hanno partecipato al pogrom per vendicare l’assassinio di Hillel e Yagel Yaniv, due fratelli che vivevano nel vicino insediamento di Har Bracha.

Questa è la storia di una delle famiglie sopravvissute al pogrom.

Far fronte a ciò che arriva dopo
Tutto è iniziato alle 6 del pomeriggio, racconta Uday Dumeidi. Era al lavoro quando l’ha chiamato sua moglie. «Mi disse che stavano entrando in casa. Ho sentito urla di sottofondo. I miei due figli urlavano al telefono: ‘Babbo vieni, babbo vieni’».
Ahlas, la moglie di Dumeidi, disse che aveva rinchiuso i loro due figli piccoli in bagno. Aveva visto gli aggressori attraverso la finestra. Raccontò i fatti senza fermarsi. «Fuori, decine di coloni hanno circondato la casa. Anzitutto hanno rotto tutte le finestre. Poi hanno dato fuoco a degli stracci bagnati con gasolina e hanno cercato di incendiare la casa dalle finestre. Sono riusciti a dare fuoco ad una stanza. Perché la finestra del bagno è molto piccola ho nascosto lì i bambini. Hanno cercato di entrare dalla porta. In quel momento, non so cosa sia successo, sono rimasta impietrita. Non riuscivo a muovermi». In qualche momento dell’attacco, i coloni hanno cercato anche di dare fuoco alla bombola di gas del cortile, sperando che esplodesse. Per fortuna, non è successo.
Ahlas abbandonò Huwara lunedì mattina e ritornò a casa dei suoi genitori nella città di Salfit (nel centro della Cisgiordania). Portò via con sé i loro due figli, Taym e Jood, che ha quattro anni, che la notte precedente avevano dovuto essere curati in seguito alle inalazioni di fumo. Da allora, hanno problemi per addormentarsi.
Diverse famiglie di Huwara hanno raccontato che avevano portato temporalmente i loro figli a un posto più sicuro, quasi sempre a casa di parenti in città più grandi come Nablus e Salfit.

Huwara è una piccola città della Zona B della Cisgiordania. In base agli Accordi di Oslo, ciò significa che la polizia palestinese non può esercitare alcuna autorità in materia di sicurezza e non può agire senza coordinarsi previamente con l’Esercito israeliano. Quindi, in questi luoghi sono i soldati israeliani a dover garantire la protezione dei palestinesi. Sufficienti testimonianze e prove dimostrano che in realtà i soldati sono una garanzia per gli attacchi dei coloni e che la popolazione palestinese è costretta a difendersi da sola.
Ho conosciuto Uday Dumeidi seduto da solo nella sua casa tra i vetri rotti. I membri della sua famiglia si unirono a lui più tardi, per proteggersi collettivamente se fossero stati ancora aggrediti.
Quella notte, preoccupata per la sua salute Ahlas lo chiamò più volte da Salfit. Ogni volta Uday Dumeidi si scusava, guardava da un’altra parte e parlava al telefono a voce bassa. Le disse che in quel momento era tranquillo, che erano preparati per qualsiasi cosa potesse succedere. Le chiese se aveva mangiato, poi le chiese cosa aveva mangiato, e all’improvviso i suoi occhi si riempirono di lacrime.

«Sei completamente solo»
La notte del pogrom, Uday Dumeidi tardò un’ora ad arrivare a casa sua per i controlli dell’Esercito. «Nel momento dell’attacco ero sulla strada principale, vicino a casa, ma i soldati non mi hanno fatto passare», disse. «Sono impazzito. So solo un po’ di ebraico. Mio padre era con me e urlò loro in ebraico: ‘Hanno dato fuoco alla nostra casa, ci sono bambini piccoli e donne all’interno’, ma non ci hanno fatto passare».
Uday Dumeidi mi ha fatto vedere come tirò fuori il suo telefonino per far vedere ai soldati una foto di Jood che usa come salvaschermo. «Ma non hanno fatto in tempo a vederla perché ha chiamato mia moglie. L’ho messo in viva voce perché potessero ascoltare. Si sentivano solo delle urla. Ricordo che ascoltai qualche colono gridare in ebraico: ‘Apri, puttana!’. È stato allora quando uno dei soldati mi ha lasciato passare».
Diversi altri testimoni feriti durante il pogrom hanno raccontato storie simili. Immediatamente dopo l’attacco, l’Esercito impose il coprifuoco ad Huwara. Il traffico verso e dentro la città è stato recintato dai posti di controllo. Verso le 6 del pomeriggio, centinaia di coloni hanno superato i posti di controllo. Durante almeno un’ora, gli aggressori hanno dato fuoco ad abitazioni all’interno della città mentre i soldati ne restavano fuori e impedivano fisicamente che i residenti potessero farne ingresso.
Uday Dumeidi è corso a casa sua. L’aria era viziata dal fuoco. Secondo i residenti, gli aggressori si erano divisi in gruppi e si comportavano in modo relativamente organizzato. Attorno alla casa di Uday Dumeidi c’era una trentina di persone, alcune mascherate. Alcune portavano sampietrini, bottiglie molotov e spranghe di metallo. Altre giravano armate esibendo le rivoltelle. Hanno cercato di incendiare la casa. Lui vi si è avvicinato da dietro.
«Ho pensato: Come faccio ad entrare così nella mia casa? Allora ho cercato di farmi passare per uno di loro. Ho preso alcune pietre, mi sono infilato il cappuccio in testa e mi sono messo accanto. Ha funzionato. Dalla finestra ho gridato alla mia moglie: Sono qui, sono qui». Allora hanno capito chi fosse, e cioè il proprietario della casa. Hanno cominciato a lanciarmi pietre.
La schiena di Dumeidi porta ancora i segni delle pietre. Quando ci siamo visti, zoppicava ancora per i colpi ricevuti.
Quando Uday Dumeidi si è avvicinato alla sua casa, ha trovato sua madre in stato incosciente, accanto alla porta d’ingresso della casa adiacente dove abita con la nonna. Ha attraversato immediatamente il cortile per arrivare alla casa contigua dove ha trovato la nonna nel salotto.
«Ha 87 anni e patisce una malattia neurologica. Era per terra nel salotto, tremava, e dalla bocca ne usciva una specie di schiuma. Aveva gli occhi aperti, ma non se ne intravvedevano le pupille. Non parlava. Non so come descrivere ciò che ho sentito. Dove dobbiamo andare per aiutare mia madre, mia nonna, i bambini? Mentre curo mia madre vedo i coloni rompere tutto dall’esterno. Sei completamente solo e devi proteggerti».

Un meccanismo ben oliato
Due testimoni palestinesi hanno affermato che, nel frattempo, diversi soldati israeliani restavano accanto ai coloni. «Si limitavano a guardare», ha confermato Uday Dumeidi.
A un certo momento, quando sono arrivati alla casa altri familiari e vicini, i palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre, tazze ed altri utensili da cucina contro i coloni. Allora, i soldati hanno iniziato a respingere i coloni mentre sparavano gas lacrimogeno contro i palestinesi. Poi, un soldato ha aperto il fuoco contro i residenti. Secondo i testimoni e secondo il dispensario medico locale di Huwara, quattro palestinesi sono stati feriti con colpi d’arma da fuoco mentre difendevano le loro case; tre erano feriti ad una gamba e uno ad un braccio.

È un modello ben oliato che si ripete in attacchi simili in tutta la Cisgiordania. Un gruppo di coloni israeliani invade un paese e quando gli abitanti lanciano loro delle pietre, i soldati sparano contro i palestinesi per proteggere gli aggressori. Così l’attacco si prolunga risultando a volte mortale.
Dal 2021, l’Esercito ha ucciso almeno quattro palestinesi nel nord della Cisgiordania nel corso di attacchi portati avanti da coloni mascherati: Muhammad Hassan, 21 anni, a Qusra; Nidal Safdi, 25 anni, ad Urif; Hussam Asaira, 18 anni, ad Asira al-Qabilyia; Oud Harev, 27 anni, ad Ashaka. Probabilmente, Sameh Aqtesh, morto durante gli atti violenti di domenica notte ad Huwara, è stato ucciso in circostanze simili, ma gli esatti dettagli del suo decesso devono ancora essere stabiliti definitivamente.
Alla fine, i vicini accorsi ad aiutare Uday Dumeidi sono riusciti a respingere gli aggressori. I coloni hanno bruciato una stanza e rubato degli orologi, un televisore e un computer portatile. «Hanno portato via tutto e l’ultimo ad uscire ha bruciato la stanza». Quando la famiglia è uscita, ha trovato il suo gatto, Bousa, mutilato.

Non è un peccato morire così?
Ormai di notte, quando m’incamminavo verso la mia vettura per fare ritorno a Gerusalemme, ho sentito dei fischi provenienti da uno dei tetti. Un gruppo di 10 uomini palestinesi era sul tetto di una casa alla quale i coloni avevano rotto tutte le finestre e mi faceva segno di stare all’erta. Mi dissero di camminare piano verso di loro perché avevano visto dal tetto che i coloni erano appena entrati ancora in paese. Qualcuno scese, aprì una porta chiusa col lucchetto e mi portò su. Mi hanno proposto di attendere con loro fino a quando l’allarme fosse superato e si augurarono che non venisse bruciata la mia vettura, parcheggiata sulla strada principale.
Nel tetto ho visto due contenitori riempiti di pietre e alcune fionde. Il gruppo mi ha spiegato che durante il pogrom nessuno è riuscito ad arrivare in tempo a proteggere la propria casa e ciò spiega perché i coloni hanno potuto fare così tanti danni. Una quindicina di familiari e vicini ha viaggiato durante un’ora per strade impervie da Nablus per superare i controlli dell’esercito e arrivare a Huwara. Se succede qualcosa è importante trovarci insieme come se fossimo una famiglia, mi dissero.
Era buio. Qualcuno mi ha offerto un capotto. Anche i tetti circondanti erano occupati da famiglie che osservavano. In attesa. Sotto, nella tranquilla via principale, brillavano luci bianche. Sopra c’era un’alta montagna, con in cima una struttura rotonda con una fine aureola di luce. Sono le case dell’insediamento di Yitzhak. All’improvviso lampeggiò un telefonino. Qualcuno ricevette un messaggio. «C’è stato un attentato a Gerico, ci sono vittime». Un’altra persona mi chiese se era vero che c’erano manifestazioni contro il pogrom in Israele.
Quando ha saputo che ero ebreo, l’uomo più anziano del gruppo mi si avvicinò e mi disse in un ebraico fluente: «Che senso ha? Tutta questa gente muore, nel nostro e nel vostro campo. Non è una vergogna morire così, per una terra? Il nostro destino è vivere qui assieme». Mi raccontò che aveva lavorato tutta la sua vita in Israele, che aveva partecipato a gruppi di dialogo e che era necessaria una pace reale, con uguaglianza e rispetto per il suo popolo, che vive come suddito di seconda classe controllato dall’Esercito, con tessere d’identità verdi» (rilasciate dalla polizia israeliana).
Un giovane che si trovava accanto sorrise. Poi mi disse in arabo: «Guarda, guarda», mentre prendeva una pietra, la collocava sulla fionda e la lanciava. La pietra si scontrò con un tetto. Mi offrì una sigaretta. Ho cercato di rompere il ghiaccio dicendo che tutto faceva prevedere che presto ci potrebbe essere una guerra. «Mi piacerebbe», mi rispose con tono leggero.
Venne fuori che avevamo la stessa età. Ma non è mai uscito dalla Cisgiordania. Non ha mai visto il mare né visitato Gerusalemme. Suo padre è finito in galera durante la seconda Intifada (dal settembre 2000 al 2004/2005) e da allora tutta la famiglia è nella lista nera dello Shin Bet, il che significa che non possono ottenere permessi ed i soldati li fermano ogni tanto nei posti di controllo. Sapeva appena qualche parola di ebraico. Come tutti i giovani che aspettavano lì, vigilanti sul tetto, fa parte di una generazione nata nel regime dei diversi permessi concessi da Israele all’ombra del muro della segregazione.
Abbiamo parlato durante un’ora sulla violenza. Mi disse che era aumentata fin dalla elezione del nuovo governo, ma che c’era sempre stata. Mi parlò del suo senso di frustrazione nei confronti dell’Autorità Palestinese, che «fa tutto ciò che Israel le chiede» e non fa altro che mantenere l’occupazione. Mi parlò di quanto spera che qualcosa cambi presto – anche tramite una guerra – per vedere cosa significa un cambiamento. E mi parlò di un suo amico al quale i soldati spararono per aver lanciato pietre. Da allora sente una rabbia che non riesce a togliersi da dosso.
Sotto di noi, un gruppo di coloni con bandiere israeliane cercava di entrare nuovamente a Huwara. Ma questa volta i soldati gliel’hanno impedito. Almeno su questo tetto la notte è trascorsa tranquilla.

da qui

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