Traduzione di Andrea Rivas
Il racconto
di una famiglia palestinese sulla notte del pogrom di Huwara, articolo scritto
dal giornalista e attivista israeliano, Yuval Abraham, pubblicato nel sito web
israeliano +972, il 2/03/2023 (QUI).
Nota del
traduttore: “L’ho
tradotto da “A l’encontre”, sito della rivista francese “La Brèche” (QUI).
Non ho aggiunto nulla. Mi sembrava del tutto non necessario”. Andrea Rivas
Sei anni fa,
quando è nato il loro primo figlio, Uday Dumeidi e sua moglie Ahlas decisero di
adottare una micina fulva. Costruirono una piccola casa accanto ad un oliveto,
in una via laterale della occupata città di Huwara (a sud di Nablus, in Cisgiordania).
Chiamarono loro figlio Taym, che proviene da una delle parole arabi che
significano «amore», e la gattina Bousa, che significa «bacio». Così iniziò il
racconto di Uday, tremando in piedi accanto ad una pozzanghera di sangue nero.
La notte del pogrom realizzato dai coloni a Huwara (26-27 febbraio 2023),
qualcuno mutilò il gatto abbandonandolo nel cortile della famiglia Dumeidi,
accanto alla stanza per gli invitati che restò completamente calcinata. La
notte dopo il pogrom, Uday Dumeidi ed io abbiamo chiacchierato davanti ai muri
anneriti ed al sangue coagulato per terra. Una scatola vuota di cibo per gatti,
un cuscino colorato dove dormiva il gatto e frammenti di cristallo sporcavano
il pavimento. Uday Dumeidi mi raccontò che amava gli animali fin da quando era
bambino, che sapeva come comunicare con loro. «Sono una sorta di specchio delle
mie emozioni», mi disse.
Dopo la violenza, il silenzio sommerse la città. Poche persone osavano uscire
dalle loro case. Nelle prime ore del mattino ho camminato per la via principale
verso la casa di Uday. C’erano soldati accanto a negozi chiusi e ad autovetture
bruciate. L’ingresso in città era permesso solo ai veicoli israeliani malgrado
la sua strada principale serva come arteria centrale ai coloni che si spostano
da nord a sud della Cisgiordania.
Un’autovettura ha diminuito la sua velocità quando sono passato. «Cosa guardi?»
urlò una voce dall’interno. Prima che potessi rispondere, due coloni israeliani
sono scesi dall’auto. Solo dopo che avevo detto una parola in ebraico, sono
risaliti in macchina e se ne sono andati.
Secondo il comune di Huwara, i coloni hanno incendiato almeno 10 abitazioni.
Secondo i rapporti israeliani, 400 coloni hanno partecipato al pogrom per
vendicare l’assassinio di Hillel e Yagel Yaniv, due fratelli che vivevano nel
vicino insediamento di Har Bracha.
Questa è la
storia di una delle famiglie sopravvissute al pogrom.
Far fronte a
ciò che arriva dopo
Tutto è iniziato alle 6 del pomeriggio, racconta Uday Dumeidi. Era al lavoro
quando l’ha chiamato sua moglie. «Mi disse che stavano entrando in casa. Ho
sentito urla di sottofondo. I miei due figli urlavano al telefono: ‘Babbo
vieni, babbo vieni’».
Ahlas, la moglie di Dumeidi, disse che aveva rinchiuso i loro due figli piccoli
in bagno. Aveva visto gli aggressori attraverso la finestra. Raccontò i fatti
senza fermarsi. «Fuori, decine di coloni hanno circondato la casa. Anzitutto
hanno rotto tutte le finestre. Poi hanno dato fuoco a degli stracci bagnati con
gasolina e hanno cercato di incendiare la casa dalle finestre. Sono riusciti a
dare fuoco ad una stanza. Perché la finestra del bagno è molto piccola ho
nascosto lì i bambini. Hanno cercato di entrare dalla porta. In quel momento,
non so cosa sia successo, sono rimasta impietrita. Non riuscivo a muovermi». In
qualche momento dell’attacco, i coloni hanno cercato anche di dare fuoco alla
bombola di gas del cortile, sperando che esplodesse. Per fortuna, non è
successo.
Ahlas abbandonò Huwara lunedì mattina e ritornò a casa dei suoi genitori nella
città di Salfit (nel centro della Cisgiordania). Portò via con sé i loro due
figli, Taym e Jood, che ha quattro anni, che la notte precedente avevano dovuto
essere curati in seguito alle inalazioni di fumo. Da allora, hanno problemi per
addormentarsi.
Diverse famiglie di Huwara hanno raccontato che avevano portato temporalmente i
loro figli a un posto più sicuro, quasi sempre a casa di parenti in città più
grandi come Nablus e Salfit.
Huwara è una
piccola città della Zona B della Cisgiordania. In base agli Accordi di Oslo,
ciò significa che la polizia palestinese non può esercitare alcuna autorità in
materia di sicurezza e non può agire senza coordinarsi previamente con
l’Esercito israeliano. Quindi, in questi luoghi sono i soldati israeliani a
dover garantire la protezione dei palestinesi. Sufficienti testimonianze e
prove dimostrano che in realtà i soldati sono una garanzia per gli attacchi dei
coloni e che la popolazione palestinese è costretta a difendersi da sola.
Ho conosciuto Uday Dumeidi seduto da solo nella sua casa tra i vetri rotti. I
membri della sua famiglia si unirono a lui più tardi, per proteggersi
collettivamente se fossero stati ancora aggrediti.
Quella notte, preoccupata per la sua salute Ahlas lo chiamò più volte da
Salfit. Ogni volta Uday Dumeidi si scusava, guardava da un’altra parte e
parlava al telefono a voce bassa. Le disse che in quel momento era tranquillo,
che erano preparati per qualsiasi cosa potesse succedere. Le chiese se aveva
mangiato, poi le chiese cosa aveva mangiato, e all’improvviso i suoi occhi si
riempirono di lacrime.
«Sei
completamente solo»
La notte del pogrom, Uday Dumeidi tardò un’ora ad arrivare a casa sua per i
controlli dell’Esercito. «Nel momento dell’attacco ero sulla strada principale,
vicino a casa, ma i soldati non mi hanno fatto passare», disse. «Sono
impazzito. So solo un po’ di ebraico. Mio padre era con me e urlò loro in
ebraico: ‘Hanno dato fuoco alla nostra casa, ci sono bambini piccoli e
donne all’interno’, ma non ci hanno fatto passare».
Uday Dumeidi mi ha fatto vedere come tirò fuori il suo telefonino per far
vedere ai soldati una foto di Jood che usa come salvaschermo. «Ma non hanno
fatto in tempo a vederla perché ha chiamato mia moglie. L’ho messo in viva voce
perché potessero ascoltare. Si sentivano solo delle urla. Ricordo che ascoltai
qualche colono gridare in ebraico: ‘Apri, puttana!’. È stato allora quando uno
dei soldati mi ha lasciato passare».
Diversi altri testimoni feriti durante il pogrom hanno raccontato storie
simili. Immediatamente dopo l’attacco, l’Esercito impose il coprifuoco ad
Huwara. Il traffico verso e dentro la città è stato recintato dai posti di
controllo. Verso le 6 del pomeriggio, centinaia di coloni hanno superato i
posti di controllo. Durante almeno un’ora, gli aggressori hanno dato fuoco ad
abitazioni all’interno della città mentre i soldati ne restavano fuori e
impedivano fisicamente che i residenti potessero farne ingresso.
Uday Dumeidi è corso a casa sua. L’aria era viziata dal fuoco. Secondo i
residenti, gli aggressori si erano divisi in gruppi e si comportavano in modo
relativamente organizzato. Attorno alla casa di Uday Dumeidi c’era una trentina
di persone, alcune mascherate. Alcune portavano sampietrini, bottiglie molotov
e spranghe di metallo. Altre giravano armate esibendo le rivoltelle. Hanno
cercato di incendiare la casa. Lui vi si è avvicinato da dietro.
«Ho pensato: Come faccio ad entrare così nella mia casa? Allora ho cercato di
farmi passare per uno di loro. Ho preso alcune pietre, mi sono infilato il
cappuccio in testa e mi sono messo accanto. Ha funzionato. Dalla finestra ho
gridato alla mia moglie: Sono qui, sono qui». Allora hanno capito chi fosse, e
cioè il proprietario della casa. Hanno cominciato a lanciarmi pietre.
La schiena di Dumeidi porta ancora i segni delle pietre. Quando ci siamo visti,
zoppicava ancora per i colpi ricevuti.
Quando Uday Dumeidi si è avvicinato alla sua casa, ha trovato sua madre in
stato incosciente, accanto alla porta d’ingresso della casa adiacente dove
abita con la nonna. Ha attraversato immediatamente il cortile per arrivare alla
casa contigua dove ha trovato la nonna nel salotto.
«Ha 87 anni e patisce una malattia neurologica. Era per terra nel salotto,
tremava, e dalla bocca ne usciva una specie di schiuma. Aveva gli occhi aperti,
ma non se ne intravvedevano le pupille. Non parlava. Non so come descrivere ciò
che ho sentito. Dove dobbiamo andare per aiutare mia madre, mia nonna, i
bambini? Mentre curo mia madre vedo i coloni rompere tutto dall’esterno. Sei
completamente solo e devi proteggerti».
Un
meccanismo ben oliato
Due testimoni palestinesi hanno affermato che, nel frattempo, diversi soldati
israeliani restavano accanto ai coloni. «Si limitavano a guardare», ha
confermato Uday Dumeidi.
A un certo momento, quando sono arrivati alla casa altri familiari e vicini, i
palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre, tazze ed altri utensili da cucina
contro i coloni. Allora, i soldati hanno iniziato a respingere i coloni mentre
sparavano gas lacrimogeno contro i palestinesi. Poi, un soldato ha aperto il
fuoco contro i residenti. Secondo i testimoni e secondo il dispensario medico
locale di Huwara, quattro palestinesi sono stati feriti con colpi d’arma da
fuoco mentre difendevano le loro case; tre erano feriti ad una gamba e uno ad
un braccio.
È un modello
ben oliato che si ripete in attacchi simili in tutta la Cisgiordania. Un gruppo
di coloni israeliani invade un paese e quando gli abitanti lanciano loro delle
pietre, i soldati sparano contro i palestinesi per proteggere gli aggressori.
Così l’attacco si prolunga risultando a volte mortale.
Dal 2021, l’Esercito ha ucciso almeno quattro palestinesi nel nord della
Cisgiordania nel corso di attacchi portati avanti da coloni mascherati:
Muhammad Hassan, 21 anni, a Qusra; Nidal Safdi, 25 anni, ad Urif; Hussam
Asaira, 18 anni, ad Asira al-Qabilyia; Oud Harev, 27 anni, ad Ashaka.
Probabilmente, Sameh Aqtesh, morto durante gli atti violenti di domenica notte
ad Huwara, è stato ucciso in circostanze simili, ma gli esatti dettagli del suo
decesso devono ancora essere stabiliti definitivamente.
Alla fine, i vicini accorsi ad aiutare Uday Dumeidi sono riusciti a respingere
gli aggressori. I coloni hanno bruciato una stanza e rubato degli orologi, un
televisore e un computer portatile. «Hanno portato via tutto e l’ultimo ad
uscire ha bruciato la stanza». Quando la famiglia è uscita, ha trovato il suo
gatto, Bousa, mutilato.
Non è un
peccato morire così?
Ormai di notte, quando m’incamminavo verso la mia vettura per fare ritorno a
Gerusalemme, ho sentito dei fischi provenienti da uno dei tetti. Un gruppo di
10 uomini palestinesi era sul tetto di una casa alla quale i coloni avevano
rotto tutte le finestre e mi faceva segno di stare all’erta. Mi dissero di
camminare piano verso di loro perché avevano visto dal tetto che i coloni erano
appena entrati ancora in paese. Qualcuno scese, aprì una porta chiusa col lucchetto
e mi portò su. Mi hanno proposto di attendere con loro fino a quando l’allarme
fosse superato e si augurarono che non venisse bruciata la mia vettura,
parcheggiata sulla strada principale.
Nel tetto ho visto due contenitori riempiti di pietre e alcune fionde. Il
gruppo mi ha spiegato che durante il pogrom nessuno è riuscito ad arrivare in
tempo a proteggere la propria casa e ciò spiega perché i coloni hanno potuto
fare così tanti danni. Una quindicina di familiari e vicini ha viaggiato
durante un’ora per strade impervie da Nablus per superare i controlli
dell’esercito e arrivare a Huwara. Se succede qualcosa è importante trovarci
insieme come se fossimo una famiglia, mi dissero.
Era buio. Qualcuno mi ha offerto un capotto. Anche i tetti circondanti erano
occupati da famiglie che osservavano. In attesa. Sotto, nella tranquilla via
principale, brillavano luci bianche. Sopra c’era un’alta montagna, con in cima
una struttura rotonda con una fine aureola di luce. Sono le case
dell’insediamento di Yitzhak. All’improvviso lampeggiò un telefonino. Qualcuno
ricevette un messaggio. «C’è stato un attentato a Gerico, ci sono vittime».
Un’altra persona mi chiese se era vero che c’erano manifestazioni contro il
pogrom in Israele.
Quando ha saputo che ero ebreo, l’uomo più anziano del gruppo mi si avvicinò e
mi disse in un ebraico fluente: «Che senso ha? Tutta questa gente muore, nel
nostro e nel vostro campo. Non è una vergogna morire così, per una terra? Il
nostro destino è vivere qui assieme». Mi raccontò che aveva lavorato tutta la
sua vita in Israele, che aveva partecipato a gruppi di dialogo e che era
necessaria una pace reale, con uguaglianza e rispetto per il suo popolo, che
vive come suddito di seconda classe controllato dall’Esercito, con tessere
d’identità verdi» (rilasciate dalla polizia israeliana).
Un giovane che si trovava accanto sorrise. Poi mi disse in arabo: «Guarda,
guarda», mentre prendeva una pietra, la collocava sulla fionda e la lanciava.
La pietra si scontrò con un tetto. Mi offrì una sigaretta. Ho cercato di
rompere il ghiaccio dicendo che tutto faceva prevedere che presto ci potrebbe
essere una guerra. «Mi piacerebbe», mi rispose con tono leggero.
Venne fuori che avevamo la stessa età. Ma non è mai uscito dalla Cisgiordania.
Non ha mai visto il mare né visitato Gerusalemme. Suo padre è finito in galera
durante la seconda Intifada (dal settembre 2000 al 2004/2005) e da allora tutta
la famiglia è nella lista nera dello Shin Bet, il che significa che non possono
ottenere permessi ed i soldati li fermano ogni tanto nei posti di controllo.
Sapeva appena qualche parola di ebraico. Come tutti i giovani che aspettavano
lì, vigilanti sul tetto, fa parte di una generazione nata nel regime dei
diversi permessi concessi da Israele all’ombra del muro della segregazione.
Abbiamo parlato durante un’ora sulla violenza. Mi disse che era aumentata fin
dalla elezione del nuovo governo, ma che c’era sempre stata. Mi parlò del suo
senso di frustrazione nei confronti dell’Autorità Palestinese, che «fa tutto
ciò che Israel le chiede» e non fa altro che mantenere l’occupazione. Mi parlò
di quanto spera che qualcosa cambi presto – anche tramite una guerra – per
vedere cosa significa un cambiamento. E mi parlò di un suo amico al quale i
soldati spararono per aver lanciato pietre. Da allora sente una rabbia che non
riesce a togliersi da dosso.
Sotto di noi, un gruppo di coloni con bandiere israeliane cercava di entrare
nuovamente a Huwara. Ma questa volta i soldati gliel’hanno impedito. Almeno su
questo tetto la notte è trascorsa tranquilla.
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