mercoledì 8 marzo 2023

Trattato sulle pandemie: quella bozza zero scritta con la penna di Schwab - Gavino Piga

  

Tutto è pronto per trasformare l’OMS in un pezzo del nuovo governo mondiale. Nella bozza zero del nuovo Trattato Internazionale sulle Pandemie, combinata alle proposte di revisione del Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, c’è tutto: il nuovo ruolo dell’organizzazione più controversa e fallimentare del momento, nuove misure contro la “disinformazione”, una rete logistica permanente per la distribuzione di vaccini, la condivisione con il privato della sfera decisionale pubblica. E c’è l’idea che la fase in cui viviamo è solo un momento inter-pandemico: il definitivo affermarsi del criterio tecnosanitario per misurare la storia. Così, alla scuola di Davos, l’OMS si avvia a diventare un presidio del futuro regime globale.

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In settimana cominceranno i negoziati sulla “bozza zero” del Trattato sulle Pandemie: lo ha annunciato Tedros Ghebreyesus in data 22 febbraio, ma i media per ora non spingono troppo sul pedale: l’importante è che tutto vada secondo i piani, almeno per quanto concerne la lunga marcia digital-sanitaria verso il “new normal”, che in questa fase procede più spedita se in modalità silenziosa.

Del resto, che la cupola finanziaria (quella che ogni anno bivacca a Davos) non avesse intenzione di deflettere dalla propria agenda era cosa nota. Lo spettacolino svizzero dello scorso gennaio – fra finti scoop, first ladies, palchi scintillanti, manipoli di gretini in fervorosa protesta e resilienze varie – qualche messaggio lo aveva fatto filtrare.

Ad esempio Tony Blair, ormai in veste di attivista per i diritti umani, aveva tenuto un illuminante discorsetto nella sessione intitolata “100 giorni per affrontare la prossima pandemia”. Un titolo che non a caso riproduceva esattamente lo slogan dell’ultrafinanziata CEPI, fiore all’occhiello della galassia “filantropica” gatesiana, la cui attività dal 2020 ruota intorno a domande come«Che cosa sarebbe accaduto se la revisione degli studi da parte degli enti regolatori fosse avvenuta con 7 mesi di anticipo? Che cosa sarebbe successo, cioè, se anziché avviare le iniezioni l’8 dicembre 2020 – quando erano stati confermati 67 milioni di casi di contagio – la campagna vaccinale fosse partita l’8 maggio 2020, quando erano stati registrati meno di 3,8 milioni di casi?». Domande che, man mano che la finestra di Overton si spalanca, suonano grossomodo così: possiamo davvero continuare a farci imbrigliare da una burocrazia lenta e inutile anziché lasciare libera la Scienza di salvare il mondo? E soprattutto, perché aspettare che un virus si diffonda quando si potrebbe agire prima ancora che compaia, ad esempio vaccinando preventivamente?

D’altronde, dopo la guerra preventiva o la dottrina del nucleare preventivo, nulla impedisce che un aggettivo transiti serenamente da una trincea all’altra. E comunque, che questo sia il nodo vero lo ha dimostrato appunto l’ex premier britannico – sotto gli sguardi compiaciuti di Albert Bourla – di fronte agli applauditori scelti di Davos. Blair ha ricordato che le sfide pandemiche prossime venture dovranno trovarci pronti, ossia già dotati di un’infrastruttura industriale e digitale per la produzione veloce di vaccini mRNA con richiamo ciclico, l’altrettanto veloce somministrazione massiva e l’immancabile verifica dell’avvenuto inoculo via QR Code. Una catena di montaggio permanente e pronta a partire in ogni momento, non solo al palesarsi della minaccia, ma addirittura prima, qualora la Scienza – cioè, fuor di metafora, gli stessi produttori di vaccini – ritenga anche solo probabile il ricomparire all’orizzonte di un virus. Cioè praticamente sempre: lo straordinario può finalmente diventare ordinario, strutturale, normale. Sarà un caso, ma quando Charles Michel e Tedros Ghebreyesus formalizzarono, nel 2021, l’idea di un nuovo Trattato sulle Pandemie, lo fecero con un documento che recitava: «Ci saranno altre pandemie e altre gravi emergenze sanitarie. La domanda non è se, ma quando. Insieme, dobbiamo essere meglio preparati a prevedere, prevenire, individuare, valutare e rispondere efficacemente alle pandemie in modo altamente coordinato».

Tutto si tiene, insomma: dalla partnership ormai collaudata fra Microsoft e Accenture (quest’ultima impegnata già nel progetto Good Health Pass Collaborative e ora anche nella costruzione del meta-villaggio davosiano, subdolo candidato a sostituire i Parlamenti), al progetto di vaccino universale targato Bill & Melinda Gates, annunciato già a margine del WEF 2022. E alla settimana che si apre.

 

La vita in tempi interpandemici

La bozza zero «concettuale» del WHO CA+ (Who convention, agreement or other international instrument on pandemic prevention, preparedness and response), presentata lo scorso novembre, parlava già piuttosto chiaro. Talmente chiaro che perfino una testata come Il Manifesto, ben lontana dall’avversare la narrazione ufficiale sul Covid, si permetteva un certo sgomento sul “soluzionismo farmaceutico” che permeava il documento: «Nella macedonia di proposte c’è di tutto sulla sola declinazione di salute che l’Oms e la comunità sanitaria internazionale sanno interpretare da decenni a questa parte: quella della sua medicalizzazione. Una agenda tecnologica occidentale decisamente egemonica, che piace alle case farmaceutiche perché conferisce loro sconfinato potere» scriveva Nicoletta Dentico. E nulla è cambiato nella bozza successiva, licenziata il 1° febbraio, cioè quella su cui si apriranno ora i negoziati. Circa questo punto, e non solo.

Tanto per cominciare, il documento chiarisce ancora una volta – se mai fossero rimasti dubbi – che ci troviamo a vivere in una fase non “post-pandemica” bensì “inter-pandemica”, adottando un criterio di periodizzazione della storia umana che non lascia spazio alle speranze. Ma questo era nelle premesse. Il punto è ora un altro: assodato che dopo una pandemia l’unica cosa da fare è prepararsi alla successiva, resta da definire il come. E qui – oltre alla costruzione della rete permanente in stile blairiano – emerge il concetto-chiave, a cui si dedica un intero articolo: la necessità di una stabile partnership pubblico-privato. L’articolo 1 di ogni strategia globalista – che tende a destrutturare i processi decisionali democratici dislocandoli in tavoli compositi o ambienti virtuali in stile Agile Nations – viene alleggerito rispetto alla precedente stesura, ma resta a chiare lettere: se prima si chiedeva in maniera perfino ridondante di «collaborare, anche con gli attori non statali, il settore privato e la società civile, attraverso un approccio onnicomprensivo, multigovernativo, multistakeholder, multidisciplinare e multilivello», ora, più discretamente, si invita a «promuovere la collaborazione con attori non statali, il settore privato e la società civile». Questa la formula ultrainclusiva attraverso cui passa, dietro un paravento partecipativo, l’espropriazione mondiale della salute. Del resto Tedros non fa che mettere a partito le indicazioni recentemente fornite proprio dal WEF, nel paper Public-Private Partnerships for Health Access: Best Practices, dove si sottolinea come in ambito sanitario il settore pubblico (reso inefficiente da risorse limitate, dipendenza da istanze politiche e da criteri burocratico-assistenziali) debba imparare a «condividere la propria autorità decisionale» col privato, ove gli investimenti in healthcare sono immaginabili solo dentro un modello di business sostenibile e se producono ritorni economici positivi. Per trovarne un esempio non si dovrà cercare troppo lontano: nel paper rincontriamo infatti il CEPI, l’«inspiring example» felicemente dominato dai soliti “filantropi” ai cui miliardi si assommano i grati tributi dei fedeli governi nazionali. Sappiamo bene com’è andata per doverci dilungare oltre.

 

Politica agile e scomparsa del cittadino

Ma non sarà inutile, per capirci meglio, tornare un attimo all’ultima edizione del WEF, inaugurata da Schwab sotto lo slogan «Cooperazione in un mondo frammentato», dove la lamentata frammentazione non era tanto un riferimento alle tensioni geopolitiche in corso: piuttosto si chiedeva di sanare la pericolosa “dispersione di poteri” – politico, economico etc. – interna al fronte occidentale, ossia virare verso un modello decisionale ancor più centripeto e totale. “Collaborativo”, come è di moda dire in quegli ambienti. E qualcuno ricorderà quanto lo stesso Schwab scriveva nel 2017: «Nella Quarta Rivoluzione Industriale, le politiche devono tenere conto dei sistemi industriali globali, regionali e intersettoriali che stanno plasmando il nostro mondo, e tutte le parti interessate – siano esse espressioni del governo, degli affari o della società civile – non hanno altra scelta che agire insieme, attraverso inedite forme innovative di collaborazione». Già allora questo era il preludio per una riforma della politica in senso “agile”. O, meglio, per la fondazione di una politica «tecnica e creativa» che emulasse le start-up e si ricreasse sulla lezione del settore tecnologico. Ecco: la declinazione di tali princìpi in termini sanitari è esattamente ciò di cui si discuterà (o si fingerà di discutere) nei prossimi giorni.

Per inciso, se mai qualcuno si chiedesse dove stia, in tutto questo, il popolo, sappia che ovviamente non c’è (o al limite è dall’altra parte della barriera algoritmica). Anzi, a detta nientemeno che di Antonio Guterres, segretario generale ONU (sempre al WEF di gennaio), la lezione del Covid è stata proprio questa: «I politici devono capire che a volte ci troviamo di fronte a questo tipo di sfide. È meglio prendere oggi decisioni che alla fine non saranno popolari ma sono essenziali, in grado di plasmare la stessa opinione pubblica». Tanto per fugare ogni ombra da questo folgorante brillare di collaborazioni e d’inclusioni.

Infatti, nella bozza del Trattato, la tanto decantata collaboratività si traduce in quel che, come dicevamo, esattamente è nel pensiero di Schwab e dei suoi apostoli: concentrazione di poteri a fini “agili”. All’art. 15 del documento si legge: «Le parti dovranno permettere all’Oms un rapido accesso alle aree colpite da pandemie con dispiegamento conseguente di team di esperti”. E ancora “dovranno riconoscere il ruolo centrale dell’Oms nel dirigere e coordinare il lavoro sanitario internazionale. Il direttore generale dell’Oms sarà colui che potrà dichiarare lo scoppio di pandemie». Non che i governi nazionali restino senza lavoro, per carità: a loro (art. 5) spetterà il compito di «accelerare il processo di approvazione di prodotti legati alla pandemia per utilizzo d’emergenza» (riducendo definitivamente gli Enti preposti a certificatori d’ufficio) e di «legiferare contro prodotti legati alla pandemia che non siano conformi» (ricordate lo Sputnik?). In maniera del tutto autonoma, è da immaginare.

 

I dibattiti fanno male alla salute (dell’industria farmaceutica)

Altro punto che gli estensori della Bozza Zero non potevano trascurare è quello dell’informazione, che del resto assilla lorsignori fin dai tempi di Atlantic Storm. Le proposte non sono particolarmente originali: «gestire le infodemie attraverso canali efficaci, compresi i social media; condurre regolari analisi per identificare la prevalenza e i profili della disinformazione; promuovere e facilitare lo sviluppo e l’attuazione di programmi educativi e di sensibilizzazione del pubblico sulle pandemie e i loro effetti». E poi addirittura «contribuire alla ricerca sui fattori [nella versione precedente: barriere comportamentali] che ostacolano l’adesione alle misure sociali e sanitarie pubbliche, l’adozione dei vaccini, l’uso di terapie appropriate, la fiducia nella scienza e nelle istituzioni governative». In breve, a parte la morality pill, il repertorio è integrale: dalle catechesi nelle scuole e sui media alla censura in stile Twitter Files fino sostanzialmente alla profilazione psicologica dei renitenti. Di nuovo sembra di poter dire che gli estensori della bozza avessero ancora nelle orecchie le melodie dell’ultimo festival davosiano, dove Stephan Bancel, CEO di Moderna, elogiava i «i Paesi in cui tutti i partiti dicevano: questi vaccini sono stati approvati dalle autorità di regolamentazione, gli studi clinici sono stati fatti, dovreste farli» rispetto a quelli in cui invece si sono avuti «dibattiti scientifici, dibattiti politici e [dibattiti sui] social media», tre cose che hanno rovinosamente reso «il tasso di vaccinazione molto, molto basso». Gli aveva fatto eco anche il carissimo nemico Albert Bourla (che, inseguito da due eroici attivisti, se l’era filata quasi gli dovessero consegnare una convocazione al Parlamento Europeo) lagnandosi dell’eccessiva “politicizzazione” dei vaccini, stizzito per aver dovuto costantemente fronteggiare domande sulla loro efficacia (visti gli esiti, del resto, erano davvero interrogativi oziosi). Senza dimenticare la preoccupazione espressa da Erik Brynjolfsson, dello Stanford Institute for Human-Centered AI, per il flusso delle cosiddette “informazioni polarizzanti“: troppo libero, a suo dire, in una società in cui è importante “comunicare la verità alle persone giuste”. Per classificare le quali, distinguendole da quelle sbagliate, speriamo possa presto avvalersi dei profili comportamentali previsti dalla bozza di Trattato sulle Pandemie. Così sarà sicuro di non sbagliare.

 

Tecnosalutismo green

Infine, i temi più cari ai vaccinisti di sinistra. L’ala progressista delle moderne borghesie vaccinali non può certo ottenere molto sul nodo dei brevetti e dell’accesso universale ai sieri (la foglia di fico egualitaria con cui s’era tentato di coprire un sostanziale conformismo), dopo i compromessi tentati a luglio in sede WTO e già ampiamente criticati da Ong e analoghi: la bozza resta giocoforza ancorata lì, all’idea della sospensione temporanea dei brevetti – oltretutto con forme assai timide, che improvvisamente passano dal “dovrà/dovranno” a “incoraggia” o “richiederà se del caso” – e agli angusti spazi di flessibilità del contestatissimo TRIPS, sia pure nel formato post-Doha. Più soddisfatti, invece, potranno dirsi sul fronte dell’approccio One Health, che del resto è ormai nel codice genetico della finanza green. Sì, perché dopo l’avvilente sequenza di certezze scientifiche e cicliche smentite circa l’origine del Covid, oggi i futuri firmatari del Trattato sono chiamati a riconoscere che «e la maggior parte delle malattie infettive e delle pandemie emergenti è causata da agenti patogeni zoonotici», come premessa essenziale perché la futurologia epidemica, combinata ai dogmi di Ultima Generazione, possa mantenersi in piedi. La miscela esplosiva di salutismo per decreto e radicalismo verde viene fuori infatti, in tutto il suo splendore, al comma 3 dell’art. 18: «Le parti identificheranno e integreranno nei pertinenti piani di prevenzione e preparazione alle pandemie interventi che affrontino i fattori che determinano l’insorgenza e la ricomparsa di malattie all’interfaccia uomo-animale, inclusi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, il cambiamento climatico, il cambiamento dell’uso del suolo, il commercio di fauna selvatica, la desertificazione e la resistenza antimicrobica».

Altro inciso: che la salute sia connessa anche alle condizioni ambientali in cui un individuo vive è la scoperta dell’acqua calda. C’era chi provava a evidenziarlo già quarant’anni fa, per non dire dei movimenti sviluppatisi negli anni contro i termovalorizzatori, i ripetitori a due passi dai centri abitati, i poligoni militari e via dicendo: tutti zittiti, ovviamente, con studi indiscutibili in nome della Scienza. La quale ora pare svegliarsi d’un tratto: il perché lo immaginiamo, e dove s’andrà a finire lo sappiamo. Ma se qualcuno ha bisogno di ulteriori didascalie, torni ancora una volta a Davos e ascolti le illuminanti considerazioni di Frédéric Thomas (CNRS) al meeting del 2022, circa l’urgenza di «creare sinergie fra salute pubblica e protezione naturale». Integrandole magari con le risultanze del Global Risk Report 2023 – sempre a cura del WEF – sulla priorità assoluta del clima nello spettro policritico gentilmente messo a punto dall’élite della filantropia globale. E con i picchi di fanatismo green di casa a Bruxelles.

 

E ora?

All’inizio di questa vicenda c’era ancora chi si domandava a cosa servisse un Trattato sulle Pandemie, essendo già esistenti e sempre perfettibili i Regolamenti Sanitari Internazionali del 2005, la cui inefficacia nella vicenda Covid è parsa, ad esser buoni, un pretesto piuttosto opaco. Ora si spera che la questione sia per tutti più chiara. E mentre quei Regolamenti vengono revisionati ad hoc (ossia adattati a farsi compatibili con il nuovo strumento e con la nuova prospettiva agil-verticistica: qui un’analisi puntuale delle proposte di revisione) comincia una partita negoziale che è essenzialmente geopolitica, ma in cui i rapporti di forza si annunciano già gravemente sbilanciati. L’obiettivo europeo e britannico (oltre che degli USA post-Trump, con buona pace del pur battagliero Ron Johnson) è ritrovare nell’OMS – ormai succedaneo del WEF – l’indiscusso centro di gravità permanente del potere sanitario mondiale. E pochi sono i dubbi che il ristretto ma solerte Intergovernmental Negotiating Body, messo in piedi per l’occasione, si spenderà per portare a casa risultati concreti.

Né vi sono dubbi che da qui si dovrà aprire una nuova, vigorosa stagione di lotte dal basso.

da qui

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