sabato 11 marzo 2023

Il lato oscuro della trattativa Stato-mafia, Cavallone: “Chi sapeva oltre ai vertici del Ros?” - Simona Tarzia

 

Una lettura lucida che va oltre la sentenza d’appello, da magistrato con quarant’anni di esperienza sul campo 

Cominciamo dalle motivazioni, naturalmente. Perché è qui, nella logica giudiziaria, che si gioca la ragione ufficiale garantita dallo Stato e perché, a volte, questa ragione non è la stessa in tutte le sentenze.
Partiamo da qui. Da un dato di fatto inoppugnabile, e cioè che le conclusioni di primo e secondo grado sulla cosiddetta “Trattativa Stato-mafia” sono diverse tra loro come il giorno e la notte.

Perché? È solo un fatto di interpretazione del diritto? “Quello che è stato affermato in primo grado e tutto sommato riconosciuto in appello è che ci fu un colloquio con i vertici di Cosa Nostra per evitare che fossero commessi ulteriori reati” spiega Roberto Cavallone, già Procuratore di Sanremo e poi Sostituto Procuratore Generale alla corte d’Appello di Roma, che sottolinea a Fivedabliu come i magistrati di secondo grado abbiano ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato ai tre ufficiali del Ros – i generali Mario Mori e Antonio Subranni, e il colonnello Giuseppe De Donno -, ma che “sebbene questa ‘improvvida’ interlocuzione ci fu davvero, venne portata avanti senza dolo. Cioè senza collusione con il potere mafioso”. In sintesi, i carabinieri sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”.
Ricorda Cavallone: “Il prefetto Mori si è sempre difeso ammettendo soltanto di aver avuto come interlocutore l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, ma come fa ogni ufficiale di polizia giudiziaria con i suoi informatori. Non ha detto nulla di più e nulla di meno”. 

Un dialogo in buona fede con Cosa nostra

Un dialogo in buonafede per scongiurare altre stragi. È anche la tesi delle difese che hanno sempre sostenuto come “compete al potere esecutivo e alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore commissione di così gravi crimini”.
Scrive la Corte d’Appello che “il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento (quello fedele a Bernardo Provenzano, n.d.r.) che, per quanto sempre criminale, appariva ed era meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”.
E che sia difficile da accettare che dei carabinieri possano essere collusi con i mafiosi lo rimarca anche Cavallone che sottolinea come “sia poco credibile nella misura in cui questa accusa evidentemente non riguarda una singola persona ma il vertice di un’articolazione dell’Arma. Cioè noi dovremmo arrivare ad affermare che una parte importante dell’Arma dei Carabinieri era collusa con i mafiosi. Anch’io ritengo che questo sia difficile”.

Chi sapeva oltre ai vertici del Ros?

Eppure una trattativa “a metà strada tra quella politica e quella di polizia” c’è stata, e ce lo dicono i giudici. Commenta Cavallone: “Il problema sa qual è? Che se questa è la verità giudiziaria, siamo al di là di quello che è il semplice rapporto tra ufficiale di polizia giudiziaria e informatore, e allora occorrerebbe capire da chi hanno avuto la delega“.
E qui, da magistrato con quarant’anni di esperienza sul campo, smentisce che i carabinieri possano aver agito in solitudine, perché “dobbiamo sempre tenere presente che il Ros, ma qualsiasi altra forza di polizia giudiziaria, quando ha una delega per le indagini risponde al pubblico ministero o, se agisce in qualità non di polizia giudiziaria ma di polizia di prevenzione, deve avere un’autorizzazione dai suoi vertici” continua. “Nel caso dei carabinieri, devono avvisare il comandante generale dell’Arma perché il Ros dipende direttamente da lui. Vista la delicatezza della vicenda, immagino che il comandante generale sarà tenuto ad avvisare il Ministro dell’Interno che avviserà il Presidente del Consiglio dei ministri e forse anche il Presidente della Repubblica. Siamo in un ambito che è diverso da quello della polizia giudiziaria, siamo più vicini all’area di competenza dei servizi segreti per capirci. E comunque, anche se si fosse trattato di un’operazione di intelligence, immagino che dovesse esserci un’autorizzazione. Nel caso dei servizi segreti il nulla osta lo dà la presidenza del Consiglio dei ministri“.
Se un’autorizzazione c’è stata, oggi noi non lo sappiamo. Anzi, la sentenza d’appello dice chiaro e tondo che i carabinieri non obbedirono agli ordini di nessun politico, meno che mai di un uomo delle istituzioni.

Non è la prima volta che lo Stato scende a patti con la mafia

Lo Stato è già sceso a patti con la mafia. Lo ha fatto e continua a farlo per ottenere informazioni dai pentiti. Ma per i giudici di primo grado i carabinieri avrebbero fatto una fuga in avanti, oltre i limiti della legge.
“Il rapporto con il collaboratore di giustizia è un rapporto molto trasparente ed è previsto dal nostro ordinamento”, mette in chiaro Cavallone spiegando come funziona: “Il pentito deve ragguagliare l’autorità giudiziaria entro un arco di tempo ben determinato su tutto ciò di cui è venuto a conoscenza durante il periodo in cui ha agito all’interno dell’organizzazione. Per questa sua attività può beneficiare di sconti di pena perché sono previste delle attenuanti per le attività di collaborazione e se c’è un concreto pericolo di vita, come in genere accade, è sottoposto a un programma di protezione. Questo è il rapporto trasparente che c’è tra il collaboratore di giustizia e l’autorità giudiziaria. A monte, si fanno dei colloqui investigativi e se effettivamente il soggetto è degno di interesse, il pubblico ministero raccoglie le informazioni in sintesi che possono essere utili alle varie indagini in corso su tutto il territorio nazionale. Queste informazioni vengono infine ripartite per competenza attraverso le varie DDA. In questo caso la trasparenza non c’è stata, non sappiamo se qualcuno ha dato l’okay per questa sorta di trattativa“.

 

Dell’Utri e l’ultimo miglio

E torniamo al punto di partenza. Chi sapeva oltre ai vertici del Ros? E soprattutto: come faceva Silvio Berlusconi, al suo primo governo nel 1994, ad essere all’oscuro di tutto? Come faceva a non sapere delle minacce che i boss stragisti Bagarella e Brusca, loro sì riconosciuti colpevoli anche in secondo grado, recapitavano a Marcello Dell’Utri attraverso l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano?
Il nodo dell’assoluzione del cofondatore di Forza Italia sta tutto qui.
Altro imputato eccellente del processo sulla Trattativa e già condannato in via definitiva nel 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri è stato assolto dal reato di “minaccia a corpo politico” dalla Corte d’Assise d’Appello “per non aver commesso il fatto”.
Per i giudici mancherebbe “l’ultimo miglio”, così lo chiamano.
Per capirci: appurato che nel 1994 Dell’Utri ha incontrato Mangano almeno due volte; appurato che “Mangano ha appreso, in assoluta anteprima, della modifica del regime processuale dell’arresto per 416-bis”; appurato che Dell’Utri “aveva piena conoscenza” del progetto ricattatorio di Cosa nostra che mirava a stipulare con lo Stato una tregua normativa a suon di bombe per ripristinare quel patto di coesistenza pacifica che aveva disegnato la storia della prima Repubblica e che Totò Riina considerava tradito dalle condanne definitive del maxi processo di Palermo; manca la prova provata della trasmissione delle intimidazioni a Berlusconi. Quindi nessuna minaccia a corpo politico, nessun delitto.

È una lettura credibile? “Il ragionamento logico vuole che la persona minacciata venga avvertita”, dice Cavallone. “Ma questo è un pensiero da cittadino qualunque. Certo è che anche nell’esperienza pratica ogni volta che noi facevamo un’indagine e risultavano delle possibili linee di rischio a carico di persone che ricoprivano incarichi istituzionali si avvertiva la Prefettura per prevedere la predisposizione di adeguati strumenti di protezione. Poi naturalmente vado dall’interessato. Come fai a non avvisarlo? Non può essere difeso a sua insaputa, per fare una battuta”.

La prova logica: congettura o realtà?

Al fatto che Dell’Utri le minacce al Cavaliere le avesse riportate, i giudici di primo grado invece ci credevano davvero e in sentenza mettevano nero su bianco che vi erano “ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra, mediati da Vittorio Mangano”. Un’argomentazione che non ha persuaso i magistrati d’Appello, convinti che la cosiddetta “prova logica” vada utilizzata con più moderazione.
Punti di vista diversi sui quali farà chiarezza la Cassazione.

Ma cosa si può aspettare la Procura generale se farà ricorso? “La Cassazione può interloquire solo in sede di errore di interpretazione della legge o errore nella motivazione della sentenza”, risponde Cavallone aggiungendo che la Corte “non può rivalutare le prove che sono state esaminate in primo e in secondo grado perché questa è una questione che attiene al merito, né è in grado di valutare le dichiarazioni di un collaboratore perché non ha gli atti”.
Agli Ermellini in effetti “non arriva tutto quell’enorme fascicolo che hanno in mano i giudici di primo e di secondo grado ma soltanto l’atto impugnato, cioè la sentenza, queste 3.000 pagine, e i vari atti di impugnazione. Il compito della Cassazione è soltanto quello di fare un’analisi della sentenza e verificare se ci sono quei vizi di interpretazione e applicazione della legge, o quei vizi di motivazione che sono stati denunciati nel ricorso. Questo è il compito della Cassazione”. Punto. “Quando trova delle incongruenze nella motivazione allora può annullare la sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Assise d’Appello che riesamina la questione”.
E la diversità di vedute sulla prova logica? “La Corte ha più volte affermato che la prova logica ha pari dignità di tutte le altre prove quando è supportata da elementi che inducono a ritenere degno di considerazione il ragionamento svolto dal giudice”. Quindi questo dell’ultimo miglio “potrebbe essere uno dei passaggi eventualmente soggetti a ricorso”.

Gli affari si fanno in silenzio

Chi contesta le motivazioni dei giudici d’appello ha parlato di una sentenza che legittima la cosiddetta zona grigia. “No, assolutamente no”. Non lascia spazio ai dubbi Cavallone che risponde che “lo Stato non può avere il doppio binario. Eventualmente la zona grigia è tipica dei servizi di informazione che però rispondono ad altre esigenze che non sono quelle dell’assicurazione dei colpevoli alla giustizia ma sono quelle della salvaguardia dell’interesse nazionale, che potrebbe essere anche nella vita di un rappresentante delle istituzioni. Non lo so, però mi chiedo sempre come questi personaggi di così basso livello possano arrivare a colpire un’istituzione se l’istituzione non gliene dà la possibilità”.
Perché i mafiosi, “per quello che conosco io del mondo mafioso”, non sono così “ferrati”, dice Cavallone che non perde l’occasione per mettere in chiaro alcuni concetti che, secondo la sua esperienza di magistrato inquirente che di interrogatori ne ha fatti parecchi, proprio non quadrano. “Episodi come quello che hanno riguardato i colleghi Falcone e Borsellino, o l’attentato fallito ai Carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, o l’autobomba di via dei Georgofili a Firenze, comportano non solo un’organizzazione ma un disegno complessivo criminoso che mi pare che vada al di là del singolo personaggio mafioso per come li ho conosciuti io. Ecco, forse aveva ragione Falcone quando diceva che i fili li tiravano le ‘menti raffinatissime’, perché il livello criminale dei mafiosi è davvero molto basso dal punto di vista della capacità di elaborazione logica”.
Dunque non fu solo mafia? La strategia della tensione era manovrata da uomini che non appartenevano a Cosa nostra? E chi erano? Esponenti del Sisde? Falcone un nome lo aveva fatto, quello del numero tre del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica di allora, il Sisde appunto. Condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, oggi, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha imposto allo Stato italiano di risarcirlo per danni morali perché all’epoca dei fatti il reato non era ancora previsto dal nostro ordinamento giuridico, l’ex 007 risulta incensurato.

Sono tante le domande che sono rimaste senza risposta. Di certo, in questo “gioco grande” di “ibridi connubi”, i picciotti di Riina hanno giocato la parte delle pedine. Ricorda Cavallone che “la mafia dei cosiddetti corleonesi era una cosa molto diversa da quella che era stata la mafia classica. La mafia classica era una mafia che andava da sempre a braccetto delle istituzioni perché era rappresentata non dai pastori ma dall’alta borghesia siciliana dell’epoca – stiamo parlando di fine ‘800, inizi del ‘900 -, erano persone che si frequentavano nei salotti buoni. Invece i corleonesi erano una cosa completamente diversa. Il motivo per cui evidentemente è arrivata la loro fine è che Cosa nostra classica non accettava lo stato di belligeranza continua perché interferiva con i loro interessi economici. Perché davanti a delle azioni così eclatanti, una risposta dello Stato, quantomeno di facciata, ci deve essere e quindi si rompe un equilibrio. Gli affari si fanno in silenzio. E questo tipo di strategia criminale certamente non era quella più idonea a fare affari in silenzio. Forse per questo Riina è stato venduto da chi è stato venduto“.

La mancata perquisizione del covo di Riina

E da chi è stato venduto? Scrivono ancora i giudici d’appello che “non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile (il famoso covo di via Bernini 54, n.d.r.) dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. Nè Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documenti compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”.

È una storia strana questa delle omissioni seguite all’Operazione belva, il blitz del Capitano Ultimo che il 15 gennaio 1993 ha messo la parola fine ai 23 anni di latitanza del Capo dei capi. Tanto strana che anche Cavallone, “a suo tempo, quando ancora ero alla Procura di Sanremo, ne ho parlato con Giancarlo Caselli. Io non so se questa sia una verità giudiziaria o una verità vera, quella la conoscono soltanto i protagonisti della vicenda ma, diciamocelo, è una ferita ancora aperta perché chiaramente l’autorità giudiziaria è stata presa in giro“.

Il mancato blitz a Mezzojuso

E il mancato blitz nel casolare di Mezzojuso, dove nel 1995 un infiltrato aveva segnalato la presenza di Bernardo Provenzano? Una “indicibile ragione di interesse nazionale”, dicono le carte dei magistrati di secondo grado, che ha spinto il Ros a lasciarsi sfuggire un superlatitante “per non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa nostra che sancivano l’egemonia della sua strategia dell’invisibilità e della sommersione”. La sua leadership, insomma, era considerata una garanzia contro “il rischio del ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Un modo per scongiurare il ritorno all’interregno del tritolo.

“A volte uno si fa delle domande. Non sempre riesce a darsi anche le risposte” scandisce Cavallone ripercorrendo i tanti dubbi legati a queste vicende che dopo trent’anni conservano dei lati oscuri: “Bisognerebbe capire il disegno finale. L’obiettivo finale qual era? Quale risultato bisognava raggiungere? Dalle sentenze sappiamo che c’è stata, se non una trattativa, un’interlocuzione. La Corte dice per prevenire gravi attentati, gravi reati, però io credo che lo Stato avesse i mezzi e le capacità per prevenire azioni di questo tipo senza ricorrere a interlocuzioni. In questo Borsellino aveva ragione, o si sta da una parte o si sta dall’altra. Poi c’è la questione della scala gerarchica: tu fai una trattativa, hai un’interlocuzione, e non avverti i tuoi superiori e i tuoi superiori non avvertono il responsabile politico?  Mi sembra strano. Se è avvenuto mi sembra strano. Stiamo parlando di potere esecutivo quindi siamo di fronte a una piramide e c’è un vertice. Qualcuno deve autorizzare sennò siamo fuori dallo schema”.

Per la cronaca: Provenzano alla fine fu catturato, l’11 aprile del 2006 in una masseria vicino a Corleone. Era latitante da 43 anni.

Massimo Ciancimino, da icona dell’antimafia a “pentito” inattendibile

Sono sue le dichiarazioni che costituiscono l’ossatura del processo sulla Trattativa. Dichiarazioni che già i giudici di primo grado hanno definito “senza alcuna valenza probatoria” a causa della “sua verificata complessiva inattendibilità che ne impedisce qualsiasi uso”. Massimo Ciancimino è il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, don Vito. Caduto dal piedistallo di icona dell’antimafia, è stato processato a Caltanissetta e Bologna per calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e all’agente dei Servizi segreti Rosario Piraino.

E qui viene da chiedersi se non fu un errore a monte quello di dargli ascolto.
“Non è che ci sono errori”, risponde Cavallone. “Il processo serve proprio ad accertare se i fatti si sono svolti secondo una certa ipotesi. Se sì, si arriva a una condanna. Se no, si arriva a un’assoluzione. Il processo è fatto per questo. Poi ci sono processi facili e processi difficili. Se uno dovesse fare solo i processi semplici si metterebbe a fare gli arresti in flagranza per spaccio e lascerebbe da parte tutto il resto. Sarebbe come un chirurgo che fa solo appendicectomie e non fa mai un intervento a cuore aperto. C’è il rischio che il processo vada male? Sì. Però se all’inizio la prova sembra affidabile come fai a chiedere un’archiviazione? Il giudice potrebbe anche non dartela l’archiviazione di fronte a dichiarazioni così. Non è facile. I processi non sono mai facili, soprattutto di questo livello. È facile parlare dopo. Ma è nel momento in cui si ha sottomano l’elemento di prova che si deve decidere cosa fare. Perché un giorno potrebbero anche venire a chiederti come mai hai sottaciuto questa cosa e non gli hai dato sviluppo”.

La domanda da farsi è un’altra, conclude Cavallone, sempre la stessa: “Chi sapeva oltre ai vertici del Ros? Sapevano o non sapevano? Questa è la domanda. Tutto qui. Perché stiamo parlando di un organo istituzionale di grande rilevanza, di grande importanza, di grande prestigio. Chiaro che non è una ditta privata il cui legale rappresentante fa e disfa quello che gli pare. Hanno delle persone a cui devono rispondere o quantomeno tenere informate. Poi ripeto, non so se sia vero che c’era questo famoso papello, o non c’era. Comunque nel momento in cui ti accingi a tenere degli incontri con l’ex sindaco di Palermo per vedere di arrivare a emarginare il ramo violento della mafia, e così dice il Prefetto Mori, credo che sia un’attività che vai a comunicare a qualcuno”. E conclude: “Io ho una piccola conoscenza di questo processo perché non ho a disposizione tutti gli atti. A questa piccola conoscenza affianco la mia esperienza di magistrato per oltre 40 anni. Io ho fatto questo lavoro e se lei mi dice quale domanda ti fai? Io mi porrei questa: chi sapeva oltre ai vertici del Ros? Certamente non hanno avuto deleghe dall’autorità giudiziaria”.

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