mercoledì 1 marzo 2023

Come uscire dal pensiero bipolare inventato dalla tecnocrazia globale - Gianluca Ricciato

 

Io non divento di centrodestra se Meloni dice cose finalmente sensate sulla gestione pandemica italiana, così come non divento di centrosinistra se qualsiasi segretario/a del PD dice cose sensate sulla risaputa omofobia degli italiani. Giudico un provvedimento politico e decido se è utile. Ma essendo consapevole di non essere in questo 2023 in una democrazia, bensì in una tecnocrazia, ed essendo io avversario della tecnocrazia globale atlantista che rappresenta gli interessi della borghesia capitalista attuale, questi due schieramenti servi di questo sistema di potere non mi rappresentano e non determinano il mio sistema di idee. Ma, mi chiedo, le persone in questo 2023, come formano il loro sistema di idee? 



LA MANIPOLAZIONE DEI CERVELLI DA PARTE DEL BIPOLARISMO

C’è un momento simbolico – che non è uguale per tutti e tutte, che può essere veloce o lento, lungo secondi o anni – c’è un momento o periodo insomma in cui inizi a ragionare sulle cose non in base all’appartenenza o meno a uno dei due schieramenti partitici obbligatori delle società occidentali, ma in base alla tua testa. È una delle cose più difficili del mondo e non so cosa darei per trovare la formula esatta e definitiva per insegnarla quando mi trovo dalla parte dell’educatore, credo che sarebbe il mio più grande successo pedagogico.

Il mio momento credo sia stato lungo poco meno di vent’anni, dal luglio 2001 al marzo 2020, se devo dargli due precisi momenti storici. Cioè dal G8 di Genova, intorno al quale è iniziata a crollare la mia idea di vivere in un sistema democratico, all’emissione delle limitazioni di movimento e altro a causa dell’emergenza covid, periodo in cui questa idea ha avuto la sua verifica fattuale e definitiva, per me.

Tutto ciò che ho pensato, detto e manifestato in vari modi, nel corso di questi vent’anni, è stata sempre meno legata al fatto di non dover contraddire uno schieramento “amico” e dover invece dimostrare di non appartenere allo “schieramento nemico” (schieramenti, nemici, posizionamenti, sono tutti termini bellici, non a caso). Allo stesso tempo, è cresciuta in me la tendenza a fare caso e notare sempre di più questo movimento del pensiero che avviene per schieramenti, questo pensare ed esprimersi in base all’appartenenza all’interno dei due poli del binarismo che ogni giorno di più mi sono sembrati diventare delle religioni. Non lo dico perché sia contento di questo, anzi, in molti casi è un dolore, ma è la verità che mi salta agli occhi.

Non sto parlando naturalmente del fatto di avere un grado zero senza pregiudizi: lo so che ogni giudizio è già un pregiudizio, si basa cioè su un vissuto e sulla formazione di pensieri e idee legate al proprio vissuto, per non parlare di tutto l’inconscio di cui si è poco padroni. Sto parlando del fatto di credere che la realtà e la complessità dei fatti che accadono oggi in Italia non possano che essere interpretate all’interno e attraverso la griglia binaria centrodestra/centrosinistra. Questo movimento di pensiero binario non è quasi mai accettato esplicitamente da nessuno, visto che invece tutti a parole rivendicano sempre un proprio libero pensiero, ma di fatto è implicito e totalizzante in tanti giudizi individuali e collettivi sulle vicende pubbliche attuali.

Mi sembra che questo giudizio partitico a priori, questa incapacità di vedere la realtà anche quando è dissonante dagli schemi binari, questo bisogno di copertura costante di una rete ideologica mainstream, abbia radici molto profonde e molto più gravi della questione strettamente attuale del pensare o definirsi di destra e di sinistra in un periodo storico in cui destra e sinistra hanno cambiato totalmente i loro significati originari. Non è questo il punto per me. Il punto è il ragionamento per compartimenti stagni.

Facciamo un esempio con un semplice sillogismo aristotelico, partendo da un titolo:

PENSIERO DEMOCRATICO

§  Un ente privato non può decidere le sorti di un’istituzione pubblica

§  Twitter è un ente privato e Trump un rappresentante di un’istituzione pubblica

§  Twitter non può impedire a Trump di esprimersi

Sia chiaro che in un sistema democratico nemmeno un ipotetico nuovo Hitler potrebbe essere censurato (e in questo caso non farei paragoni fuori luogo tra un criminale e un pagliaccio). I paletti che vengono messi in forma ufficiale e con ricaduta collettiva all’espressione pubblica di un pensiero, specie se di un personaggio pubblico eletto, devono essere frutto della decisione di un’istituzione riconosciuta, come ad esempio dovrebbe essere l’apologia di fascismo. Poi è chiaro che la storia e le vicende umane vanno sempre ben oltre quello che crede di stabilire la legislazione democratica, ma non è questo ancora una volta il punto, adesso.

Il punto è che il ragionamento settoriale, binario, standardizzato su luoghi comuni ritenuti giusti all’interno di un sistema invece caotico e incoerente, getta le funzioni cognitive dell’essere umano in pasto a livelli di manipolazione altissimi.

Leggere Fanpage ed essere manipolate/i dalla loro narrazione; tifare Twitter perché impedisce a un presidente di una Repubblica eletto di esprimersi; schierarsi cioè con la narrazione capitalista in ascesa contro quella sul momento più debole, all’interno di una faida tra destre capitaliste (se vogliamo usare una griglia di interpretazione del sistema politico che abbia a che fare con il significato storico di destra e sinistra); e allo stesso tempo, considerarsi democratici e di sinistra senza riconoscere gli interessi di classe della parte per cui ci si è schierati/e, ma nemmeno il proprio posizionamento ideologico in una nuova “tecnodestra sovversiva” (quella è per me) che vota centrosinistra e legge i suoi media – è esattamente la manifestazione di questa manipolazione sociale di massa.


Al contrario, la consapevolezza di essere immersi in un sistema tecnocratico di controllo globale, ovvero avere come parametro geopolitico interpretativo lo spostamento dei luoghi del potere decisionale verso i grandi gruppi di investimento finanziario – BlackRock, tanto per citarne uno non proprio a caso – che a cascata muovono le decisioni politiche di istituzioni sovranazionali non elette come il Fondo Monetario Internazionale, indirizzano le strategie delle multinazionali, imboccano gli organi di informazione e, infine, gestiscono la vita e la legiferazione dei poteri nazionali con la loro onnipresente articolazione binaria (centrodestra/centrosinistra) o regionali (come l’UE) – la consapevolezza di tutto questo è il vero e complesso punto di partenza per decidere di avere un pensiero che si ritenga vero e giusto per sé, a prescindere dal binarismo di moda in Occidente funzionale e servo del capitale.

Pensare allo schieramento di centrosinistra italiano (o laburista inglese, o democratico statunitense) e a tutti i suoi possibili alleati passati, presenti o futuri, nel 2023, come a qualcosa che possa essere interpretato partendo dalla formulazione delle ideologie come lo furono nell’800 – socialismo e anarchismo a sinistra, liberalismo a destra, tanto per fare gli esempi più noti – significa per me partire non dalla realtà delle cose ma da una realtà virtuale in cui il pensiero è intrappolato in una sorta di psicosi dematerializzante.


LOGOCENTRISMO E TECNOCRAZIA

Il linguista russo Jakobson e a seguire la filosofa italiana Muraro hanno definito disturbo della contiguità il ragionare per luoghi comuni dematerializzati. Copio un brevissimo pezzo del mio testo Gli ordini simbolici di metafora e metonimia per provare a darne una spiegazione:


«Una persona affetta dal disturbo della contiguità, presenta il problema della totale dipendenza dal codice linguistico e dell’incapacità di contestualizzare. In pratica, parla solo attraverso frasi stereotipate. Egli conserva solo delle “parole-nucleo”, cioè delle parole significative, alla stregua del bambino che inizia a imparare a parlare, cui non sa associare nulla (se non già associato, come nel caso dei luoghi comuni) e che non sa declinare o coniugare. All’interno del codice quindi, la somiglianza diviene identità quando la differenza tra due termini è lieve o resa solo dal contesto: “Quando viene meno la capacità di costruire il contesto, il malato, relegato al gruppo di sostituzione, opera con le similitudini e le sue identificazioni approssimative sono di natura metaforica” (R. Jakobson, “Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia”, 1956)»

Il femminismo italiano, a partire dagli anni Sessanta, ha identificato con logocentrismo o fallogocentrismo lo strumento di potere linguistico e reale (“simbolico-sociale”) che letteralmente fa fuori dalla significazione pezzi di vissuto, corpi, emozioni, realtà materiale, all’interno di una narrazione astratta che gira su stessa, ripete gli stessi luoghi comuni e si autolegittima in questo modo come regime di verità. Fondandosi epistemologicamente su schemi preordinati, caselle interpretative che per funzionare hanno bisogno di piegare a sé stesse le cose e i fatti. Come la natura veniva piegata alla griglia interpretativa del metodo induttivo e le streghe venivano soppresse dal legislatore dalle celle fisiche e morali della società seicentesca, come sosteneva in un famoso paragone storico il filosofo inglese Francis Bacon, uno dei fondatori della scienza moderna e protagonista materiale della caccia alle streghe nel suo ruolo di giudice.

Sono idee filosofiche queste che hanno attraversato non solo molte pensatrici femministe, ma anche alcuni (pochi) pensatori maschi della contemporaneità, Nietzsche e Foucault sono probabilmente i più significativi.

Le radici dell’epistemologia logocentrica, fortemente radicata nelle società patriarcali da un certo punto in poi, risiedono probabilmente nella formulazione platonica del mondo delle idee; l’esito più recente sono le vite delle persone telecomandate dal mondo virtuale dall’inizio alla fine delle giornate, per il lavoro, per lo svago, per i rapporti umani e per la stessa sopravvivenza (si pensi oggi ad un anziano in balia dello Spid).

Nel passo citato poco sopra, Jakobson parla non a caso di “natura metaforica” in associazione con il disturbo della contiguità: l’egemonia di una simbolizzazione metaforica, ormai lessicalizzata quindi divenuta invisibile (come è invisibile al parlante che il “collo della bottiglia” non sia un collo) nella cultura occidentale è probabilmente, in modi ancora oscuri perché non studiati sistematicamente, una delle ragioni di questa perdita di realtà e della dematerializzazione della nostra civiltà, e quindi forse anche della sua perdita del senso della vita, dell’alienazione individuale e collettiva. Muraro, a seguito degli studi jakobsoniani, parla infatti di regime di ipermetaforicità. (“Maglia o uncinetto”, 1980, ampiamente citato in questo blog).


TESTO SENZA CONTESTO

Faccio un ultimo esempio legato all’attualità, che ha a che fare con l’importanza della contestualità, per interpretare e comprendere un fenomeno sociale o politico. E non lo faccio a caso, questo esempio.


Agire pubblicamente e mediaticamente performatività maschili degeneri, esprimere riferimenti esplicitamente sessuali, vestirsi “da donna” e truccarsi, per un uomo, in un contesto come poteva essere ad esempio la televisione e la società borghese puritana degli anni ’60 e ’70 in Nordamerica o in Europa, rendeva questi comportamenti altamente destabilizzanti e sovversivi. Fare le stesse cose in un contesto mediaticamente già ipersessualizzato, con un sistema di potere che sta cercando da anni di manipolare e sfruttare economicamente questi comportamenti, farlo cioè nella società borghese tecnoglobale del terzo millennio, cambia totalmente il portato dello stesso atto performativo. E rende chi si presta a questo spettacolo una figura fiancheggiatrice e non destabilizzante per il potere attuale, a meno che non riesca a far passare dei messaggi che lo mettono in crisi.

Per farla breve, lo stesso atto performativo fatto da David Bowie e fatto da Damiano dei Maneskin è un altro atto performativo, opposto. In mezzo ci stanno fiumi mediatici di parole per giustificare la manipolazione che fa diventare arte le strategie finanziarie, e ci sta il disturbo della contiguità per ridurre gli individui a una massa di ripetitori seriali di luoghi comuni ritenuti cultura. Magari anche cultura di sinistra.

È un atto performativo anche il parlare, così come lo scrivere, quindi lo stesso dis/parallelo si potrebbe fare tra i contesti in cui si sono mossi Mario Mieli (in foto) e Carla Lonzi, da un lato, e quelli in cui si muovono Lorenzo Tosa e Chiara Ferragni, dall’altro. Pensare che le prime due figure possano aver detto le stesse cose che dicono oggi le seconde due, forse è un’oscenità che fa venire i brividi non solo a me, ma anche a qualcun altro/a che proviene da una cultura di sinistra.

Ogni linguaggio e ogni azione vengono modificati e possono cambiare totalmente di verso in base alle influenze ambientali, cioè alle relazioni di fatti in cui esistono. Questo avrebbero dovuto saperlo tutti e tutte se le scoperte culturali e scientifiche, negli ultimi centocinquant’anni, fossero state davvero diffuse nella società e non fossero state intrappolate e neutralizzate dall’indottrinamento scolastico e universitario e dalla divulgazione dei media sottoposti all’epistemologia dominante del regime capitalista.

Decolonizzarsi dal pinkwashing, dal greenwashing, dall’healthwashing, dal leftwashing di questi anni e cominciare ad individuare dove si trovi e dove agisca il potere attualmente, per poter ricominciare a fare discorsi antagonisti, anticapitalisti, ecologisti, femministi o quant’altro stia a cuore a chi vuole “un mondo migliore” da un punto di vista che abbia a che fare con il significato storico della parola “sinistra”, secondo me, passa inevitabilmente da una terapia di liberazione dal disturbo della contiguità. Solo così ci si può liberare dalla connivenza con un meanstream deviazionista che sta annientando da anni qualsiasi istanza sovversiva rispetto agli interessi criminali della finanza capitalista.

Ma perché questo possa avvenire occorre preventivamente iniziare un percorso di liberazione dalla droga capitalista dell’infodemia che rende il cervello schiavo del regime di verità dei cosiddetti professionisti dell’informazione – con i suoi corollari di terrore per il complottismo e le fake news e di odio per chiunque non stia nel sistema binario, esattamente quello che presta il fianco alla narrazione dominante.

da qui

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