L’omicidio della psichiatra di Pisa
compiuto da un ex paziente dell’Spdc (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) è
per molti una clava con la quale attaccare la legge Basaglia. Era accaduto
qualcosa di simile nel 2013, dopo la morte di una psichiatra in un Centro di
Salite Mentale di Bari, come ricordano alcune pagine del libro Il manicomio chimico (elèuthera), tornato in queste settimane nelle librerie (con una nuova introduzione),
un testo scritto da Piero Cipriano intrecciando parti saggio e parti narrative.
Un libro che mostra come in realtà i manicomi non sono mai stati chiusi,
semplicemente oggi ci sono quelli chimici, e che aiuta proprio in questi
momenti a ricordare con coraggio prima di tutto da dove occorre ripartire: non
possiamo legare le persone negli Spdc come ancora accade; non ha senso
considerare malattia qualsiasi disagio psichico; non possiamo dimenticare la
potenza terapeutica della libertà; non è una cura prescrivere sempre più spesso
e per tutta la vita psicofarmaci. Ampi stralci del primo capitolo
Ore, giorni,
mesi, anni, asserragliato in questa Fortezza. È triste la vita, chiusa nei
fortini della cura, ad aspettare. Fuori c’è il deserto dei Tartari, silente,
minaccioso, dentro colleghi rassegnati e disadattati, forse più arresi alla
vita dei reclusi stessi, disadattati per una loro follia diversa,
scaltra, la follia della gente normale che non si fa rinchiudere ma
rinchiude, che non si fa violentare ma violenta.
Io sono un
infiltrato. Quando è
notte aspetto. Se non dormo, vedo film. Se non vedo film, leggo. Se non leggo,
scrivo. Forse, in fondo, è questa la vita che voglio. La vita di un recluso. La
vita di un Minotauro. Finché, ogni tanto, suona il cicalino. Arriva,
dal deserto dei Tartari, un uomo che ha perso la testa. Un folle. Arriva
trasportato da un’autoambulanza, la sirena mi avvisa ancor prima del cicalino. Ma
forse, ancor prima della sirena dell’ambulanza, mi avvisa un sesto senso. Un
senso d’inquietudine. E mi avvio, per il dedalo dell’ospedale, verso il
pronto soccorso, lo devo sedare, lo devo obbligare, lo devo spaventare, lo devo
rinchiudere nel labirinto, nella Fortezza. E lo so fare. Perché io
sono un Minotauro, meno mostruoso degli altri, forse, meno carnefice
della fredda, meno leguleio dello svedese, meno infame
della iena, meno vigliacco dello psicanalista, meno
ignavo del fatalista (gli orridi personaggi che abitano il mio
inconscio, sempre ammesso che l’inconscio esista, sempre ammesso che io ce
l’abbia un inconscio, le parti cattive di me che ho gettato nel mondo di
fuori), ma comunque, il mio, è il mestiere del carnefice.
A proposito
di questo doppio ruolo, di avere a che fare con la carta e con la carne, fa
comodo a tutti avere due mestieri. Così, quando sei stufo di fare il giudice
dei matti, disgustato dalla delega a controllarli che lo Stato t’impone, puoi
sempre dire che in fondo lo fai per campare, che di qualcosa bisogna pur
vivere, ma il mio vero mestiere è scrivere, inventare le storie, viverci
dentro, io vivo là, in un altro mondo. Quando, al contrario, la scrittura non
viene, la pagina non rimane bianca ma peggio che bianca, imbrattata da frasi
ignobili e storie ridicole, oppure le storie ci sono ma sono tutte uguali e
sembrano non interessare nessuno, allora mi torna comodo dire che in fondo
questo è solo uno svago, un passatempo, c’è chi gioca a carte io scrivo, che in
realtà non pubblico perché non voglio, perché sono una persona seria, curo chi
ha l’anima malata, io, ho altro a cui pensare che scrivere storielle, quelle
sono capaci tutti, provate a tranquillizzare un agitato, provate, provate a
convincere un suicida, e vedete se non vi gela il sangue nelle vene, altro che
storie.
E sgravo
metafore, che meglio rendano l’idea di questo mio mestiere, che forse è perfino
inutile (David Graeber ha scritto qualcosa sui mestieri inutili, a volte credo
che di tutti il più inutile sia il mio): sono il tenente Drogo, con una
fortezza Bastiani da presidiare, sono il Minotauro, divoro chi arriva fino a
questo labirinto, sono Ismaele, stivo nel Pequod magnifici capodogli impazziti,
ma soprattutto sono e sarò Sisifo finché campo, l’eroe tragico, l’eroe
assurdo, il brigante, e per me non esiste un lavoro più terribile, più vano, e
più disperato di questo.
L’altro
ieri, per esempio. Arrivo in spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) alle venti. Esce,
dalla porta chiusa del reparto, l’infermiera. Le chiedo come va, com’è la
situazione là dentro. Mica c’è qualcuno legato? Sì, risponde. E chi è?
Uno che è arrivato ieri sera, da quando è entrato che è legato. Vado a
conoscerlo. Cinquant’anni. Voce roca, un po’ impastata, per le sigarette e per
i farmaci. Dice che ieri sera ha fatto un po’ di casino, perché era troppo
contento. L’hanno portato in pronto soccorso. Un infermiere l’ha trattato
male, lui ha reagito, e l’hanno legato. Chi era il medico? Quella donna che c’è
in turno stasera, mi fa. Ma mica sono una bestia, continua, qualunque cosa
avessi fatto, e le assicuro che non ho fatto nulla di che, ma è modo questo di
trattare un essere umano? Dico: ho intenzione di toglierle le fasce, ma lei mi
deve aiutare. Ora chiamerò qui la dottoressa che l’ha legato, no ma quella non
mi slega!, non si preoccupi, chiamerò pure gli infermieri, e le farò delle
domande, davanti a loro, lei dimostri che è pronto per essere sciolto.
Cerco la
collega. Mi racconta, a modo suo, dell’uomo legato. Dice è un alcoolista e un
cocainomane. Dice è uno che ruba in casa e fuori casa. Dice è uno senza un
lavoro fisso. Dice aggredisce i familiari. Dice fa una terapia antidepressiva
ma forse ne fa troppa, e insieme con la cocaina e l’alcool deve essere andato
in eccitamento. Dice ieri sera era così eccitato che si arrampicava sui muri
(questa è una di quelle espressioni stereotipe che chi lega spesso adopera, per
enfatizzare l’ineluttabilità delle fasce, però io non ho mai visto nessuno
arrampicarsi sui muri). Dico ok, ora però vieni con me che lo andiamo a
slegare. Dice non sono d’accordo, l’ho valutato appena due ore fa e
straparlava, era logorroico, disorganizzato, minaccioso. Dico io invece ci ho
parlato giusto due minuti fa e tutto ciò che elenchi non c’è più, quindi vieni
con me a slegarlo, per favore. Convoco tutti nella stanza dell’uomo
legato, dottoressa e infermieri. Formulo al paziente le assurde domande che
questi operatori vogliono sentire per poter procedere allo slegamento. Si sente
più tranquillo? Sì vostro onore. Accetta di prendere i farmaci che le daremo?
Sì vostro onore. Accetta di proseguire il ricovero per almeno un’altra
settimana? Sì vostro onore. Ebbene, dico agli altri, la decisione è presa, il
paziente verrà sciolto. L’infermiere maschio abbozza. Gli va a fare la
terapia, Depakin per bocca, Abilify intramuscolo nel sedere, en endovena nel
braccio, tutte le vie di somministrazione le abbiamo percorse. Questo è il
baratto necessario. Per togliergli le fasce dagli arti gli devi mettere
i farmaci nel cervello. Da qualche parte lo devi legare. Lo
sciogliamo. L’uomo legato non batte ciglio. L’infermiere si aspetta qualche
reazione. Un minimo. Invece rimane in posizione clinica ancora un po’, anche se
le fasce non le ha più. L’uomo con la calamita esce e l’uomo sciolto mi stringe
la mano, con molta forza, e mi dice: se non c’era lei, stasera, io restavo fino
a domani mattina, come minimo. Grazie, gli dico, grazie a lei, per la pazienza.
Io non l’avrei avuta la sua stessa pazienza, davvero.
Oggi, per
esempio. Un ragazzo di vent’anni, ricoverato da poche ore, un
po’ delinquente (spaccio, uso di cannabis e cocaina, piccoli
furti) e un po’ eccitato nell’umore (forse ancora per l’effetto di cocaina e
cannabis), non vuole andare nel suo spdc di competenza territoriale. Gli
spiego: guarda, qui abbiamo quattordici posti, e siete in diciotto. Se tu fossi
il quattordicesimo ricoverato ti terrei, anche se appartieni a un altro spdc,
ma siccome sei il diciottesimo, e lì hanno posto, devi essere trasferito. Lui
mi dice che non ci va lì, manco morto, che lì ha già fatto due ricoveri, e ogni
volta lo hanno legato, per cui se lo voglio trasferire devo passare sul suo
corpo, anzi, lo devo uccidere. Dico no, guarda, non posso proprio, non puoi
restare, ti do mezz’ora, preparati la borsa che faccio venire l’ambulanza per
il trasferimento. Io mi giro e lui rompe un vetro con un pugno, e col pugno
sanguinante mi minaccia: se mi trasferisci te la vedi con me, bastardo!
Ora, io lo
comprendo perché lui non ci vuole andare in quell’altro spdc, è un spdc hard,
di quelli dove, senza troppe cerimonie, prima ti legano, e poi discutono, però lui non lo sa che pure qui
sta andando incontro allo stesso tipo di trattamento. Provo a spiegarglielo, a
dirgli che il rischio di essere legato c’è anche qui, e che è meglio se accetta
di andare perché, se rimane tranquillo, non potrà succedergli nulla, né qui né
in quell’altro spdc. Ma lui niente. È irremovibile. Si spezza ma non si piega.
Mentre io penso, ok, prendiamo tempo, qualcuno informa il direttore che lo psichiatra
riluttante prende tempo, non decide, forse non sa che fare. Il
direttore viene in reparto a parlare con me e dice: non esiste al mondo che lo
tieni qua, abbiamo quattro pazienti in soprannumero e lui deve andare nel suo
spdc, o con le buone o con le cattive, per cui ti do un quarto d’ora, o lo
convinci oppure lo sedi, lo impacchetti e lo invii. Provo a spiegargli
che non è né agitato né aggressivo, che non ci vuole andare in quel reparto
perché ha paura, che lì l’hanno sempre legato nei precedenti ricoveri. E io che
faccio, siccome ha paura che in quel reparto verrà legato, lo lego? Per un
problema burocratico? Di competenza territoriale? Lui mi fa: ti do un quarto
d’ora, se non lo fai tu lo faccio io.
Esco nel
corridoio e ripenso a quel che sosteneva uno psichiatra di Napoli: l’urgenza,
in psichiatria, non esiste. Non esiste l’urgenza, continuo a pensare, in questo quarto d’ora che
mi ha dato. Intanto il quarto d’ora è passato e lui, con tutta la sua
urgenza, tra poco verrà, e chiamerà i vigilantes, e raccoglierà tutto il
personale sanitario e ausiliario per prenderlo, legarlo, sedarlo, e spedirlo. E
io rimarrò a guardare. E lui, alla fine dell’urgenza, mi dirà che non sono
adatto a lavorare in spdc, perché non so gestire l’urgenza. O forse perché non sono
tagliato per la medicina dell’obbedienza.
E sono
passati già venti minuti e penso a quel che suggerivano i fenomenologi,
Edmund Husserl, che bisogna fare epoché, sospendere il giudizio, e
a quel che diceva Basaglia, che bisogna mettere tra parentesi la malattia
mentale, ma a volte, come adesso, mi sa che è necessario perfino sospendere
l’azione, e io quello sto facendo, sto fermando l’azione, e se potessi
fermerei anche il tempo. E mi ritorna in mente una cosa che ho letto mesi fa,
uno dei più grandi manager degli ultimi decenni, Jack Welch della General
Electric mi pare, per un’ora al giorno guardava dalla finestra. Ecco, ora lo
faccio pure io, mi metto a guardare fuori dalla finestra, da questa finestra
con le sbarre, così provo a fermare il tempo. E mentre guardo fuori mi ricordo
di Oblomov, l’accidioso personaggio di Ivan Gončarov, e penso che
ormai nessuno, e non solo tra chi fa il mio mestiere, ha più il tempo per
pensare, per riflettere. Oblomov rappresenta l’ozioso, ma l’ozio permette di
riflettere, e io sto riflettendo, e mi torna in mente La
banalità del male, e la domanda di Hannah Arendt agli ebrei: ma perché non
vi siete ribellati? Non sarebbero stati sei milioni, le vittime dell’olocausto,
se i funzionari ebrei si fossero ribellati alle direttive naziste, e penso ad
alcuni miei colleghi in particolare, non tutti, ma alcuni sono veramente dei
burocrati, obbedienti agli ordini, tanti piccoli Adolf Eichmann che fanno il
male mica perché amano fare il male, no, manco si rendono conto di fare il male,
lo fanno proprio perché si attengono scrupolosamente alla legge, ai protocolli,
alle regole, alle linee guida, alle direttive dei primari, a
prescindere dall’eticità di queste leggi, di questi protocolli, di queste linee
guida, potevate astenervi, dice la Arendt agli ebrei che hanno collaborato alla
soluzione finale, potevate non partecipare, e io ora sento questo mio umore
farsi sempre più socratico, e so che è proprio questo il momento giusto per
disobbedire, perché è meglio subire un torto che commetterlo, è meglio che io
sia in disaccordo col mondo, se il mondo ha leggi ingiuste, piuttosto che
essere in disaccordo con me stesso, perché io, poi, con me stesso ci devo
continuare a vivere, io, poi, torno a casa e devo guardare in faccia le mie
figlie, e dunque sto continuando a riflettere invece di agire, l’urgenza del
direttore, dov’è adesso l’urgenza di agire, e dove sarà adesso il direttore e a
che punto sarà la sua urgenza, io intanto mi sto calmando, e magari pure il
ragazzo sta riflettendo, e si sta calmando, ed è passata già mezz’ora, anzi
quasi quaranta minuti, e meno male che il direttore non è ancora venuto,
battagliero, risoluto, determinato ad acchiapparlo e sedarlo e legarlo e
spedirlo. Sarà stato trattenuto da qualche telefonata, per fortuna, perché il
ragazzo nel frattempo ha riflettuto e si è calmato, e viene da me e mi dice: va
bene, se non ho alternative allora vado nell’altro spdc.
Ora sono al
bar, ho stimbrato, sono di nuovo un uomo libero, senza capi, via dall’urgenza e
dalle leggi assurde, sorseggio un tè con due giovani tirocinanti,
una molto bella, ma con uno sguardo melanconico, l’altra più lieve, con un
piercing, quest’ultima mi fa: ma solo tu lavori in questo modo? Io
dico: non proprio. Siamo in pochi, questo sì. Ma… siamo una minoranza
forte. Quelli come me sapete come li chiamano? Ci chiamano i basagliani.
E così ne approfitto per parlare loro di Franco Basaglia.
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