La ripresa di interesse al pensiero ecomarxista – penso ad autori come John
Bellamy Foster, Ian Angus, Paul Burket, Michael Löwy, Jason W. Moore, Andreas
Malmo – con al vertice il caso dello straordinario successo dei libri di Kohei
Saito, il giovane studioso giapponese che ha portato in luce una vena
protoecologista del pensiero marxiano (Marx in the Anthropocene. Towards the
Idea of Degrowth Communism, di Kohei Saito, Università di Tokyo), ci
riporta alla vexata questio che ha tormentato le avanguardie
politiche rosso-verdi fin dagli anni Settanta del Novecento: come
riuscire a connettere i diversi aspetti della critica al capitalismo? Come fare
in modo che il “rosso” e il “verde”, ma anche il “rosa” del femminismo, il
“bianco” del pacifismo antimilitarista, antinucleare e nonviolento, il “nero”
dell’antiautoritarismo libertario, la “linea del colore” contro cui si scontano
le lotte di liberazione postcoloniali, l’“arcobaleno” delle lotte per i diritti
civili e le libertà individuali… insomma, l’intero spettro delle resistenze
alle pluriverse contraddizioni scatenate dal sistema capitalista possa
connettersi e convergere in un movimento d’opinione, culturale e politico
capace di impensierire il comune nemico?
Ognuno capisce da sé che le dolorose crisi finanziarie, economiche,
sociali, demografiche, alimentari, migratorie, ambientali… sono concatenate e
hanno un’origine comune. C’è una fonte avvelenata che origina ogni male; ci
sono un insieme di relazioni (non solo produttive), c’è un ordine sociale (non
solo economico) e un potere simbolico che sfibrano i tessuti della solidarietà
sociale e minano la convivenza civile, che generano insopportabili
discriminazioni e ingiustizie, che mettono a repentaglio le stesse basi
biologiche della vita, che mortificano gli individui fino a metterne in
discussioni l’esistenza, la “nuda vita”. La guerra è forse l’esito finale,
l’apoteosi di una logica di violenza ubiquitaria e strutturale.
Non è questa la sede per dimostrare questa realtà. Ci basti qui ricordare
la fallacia della teoria di base del liberalismo secondo la quale il commercio
globale e il desiderio di benessere materiale dei popoli avrebbero pacificato i
rapporti tra gli stati moderni. Non serve qui elencare le molte evidenze
fattuali per dimostrare che vale esattamente il contrario. È proprio la
competizione economica tra le imprese di capitale finalizzata alla
massimizzazione dei profitti, all’accumulazione “primitiva” permanente,
all’aumento della produttività e alla crescita a tassi compositi del valore
delle merci sui mercati a creare uno stato permanete di prevaricazione,
sfruttamento dei “fattori” di produzione, espropriazione, estrazione e
dissipazione dei beni comuni naturali. Un sistema che cannibalizza – per dirla
con Nancy Fraser (Il capitale cannibale. Come il sistema sta divorando la
democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, 2023) – i
supporti stessi del suo funzionamento.
Come fermare la bestia biblica, il mostro leviatano?
Nel corso della storia a ogni fase di espansione della marcia trionfale del
capitalismo (del processo di occidentalizzazione del pianeta) si sono
affacciate varie forze di opposizione e resistenza. Innanzitutto le
comunità autoctone, indigene e contadine che, difendendo il loro
territorio, hanno tentato di impedire la predazione coloniale dei mezzi
naturali di sussistenza. Poi le masse proletarie inurbate attraverso le
varie formazioni del movimento operaio hanno tentato di contrastare
l’estrazione diretta di plusvalore. Le donne, per parte loro, hanno
da sempre denunciato il disconoscimento del “lavoro riproduttivo” e di cura, la
divisione sessista dei ruoli sociali, il patriarcato come forma primaria di
dominio. Inoltre, con l’evidenziazione della “frattura metabolica” (per usare
il linguaggio marxiano) provocata dall’industrializzazione gli abitanti
dei territori in tutti i luoghi del pianeta hanno manifestato la loro
contrarietà alla deturpazione e alla mercificazione della natura. Aggiungiamoci
i gruppi di pressione e i movimenti che sono mossi direttamente da motivazioni
etiche, come gli animalisti antispecisti, i pacifisti nonviolenti, la
cittadinanza attiva impegnata nel far valere i diritti civili individuali…
e raggiungeremo a contare quel 99% della popolazione della Terra che viene
costantemente depredato dal’1% dei super-ricchi.
Come è possibile che si verifichi una tale schiavitù di massa (più o meno)
volontaria?
Sono due le principali abilità con cui il capitalismo supera le sue
criticità: da una parte la capacità plastica di assorbire e trasformare le
disfunzioni che genera in stimoli di cambiamento (innovazioni
organizzative e tecnologiche) spostando sempre in avanti la frontiera delle
condizioni di riproducibilità del sistema; dall’altra la capacità di
rovesciare e distribuire i costi delle crisi sui diversi costrutti
sociali (classi, nazioni, etnie, generazioni, generi…) in modo
da mettere in contrasto gli uni agli altri. Non serve ricordare casi già
noti come il ricatto costante esercitato dal sistema imprenditoriale sulle
forze del lavoro poste di fronte all’alternativa tra accettare condizioni di
lavoro insalubri e la perdita del reddito. “Lavoro contro salute è una partita
impossibile da giocare, perché i giocatori appartengono a entrambe le squadre –
Ha scritto Stefania Barca (Ecologia operaia, in Trame, Tamu, nov. 2021,
p.78) – L’unico modo di vincere è non giocare”. Scrivevano, tanti anni fa, i
pionieri dell’ecologismo operaio del collettivo di medicina democratica di
Castellanza: “La minaccia del posto di lavoro spinge gli operai a una oggettiva
alleanza con il padrone. […] L’operaio come figura sociale entra in conflitto
con sé stesso: la sua lotta contro l’inquinamento prodotto dalle aziende entra
in contraddizione con le sue possibilità di occupazione” (Edoardo Bai, Una
nuova ecologia, Cooperativa Smemoranda, Milano, 1983).
Analoghe situazioni conflittuali si trovano abitualmente nelle comunità
urbane schiacciate tra una condizione abitativa che obbliga gli abitanti a
consumi energetici assurdi (mobilità privata, raffrescamento, servizi
tecnologici sempre più raffinati) e l’avvelenamento dell’aria, la scarsità
idrica, la perdita degli spazi comuni e della biodiversità.
La progressiva dipendenza delle singole vite umane dalla disponibilità
economica individuale porta le persone a introiettare fino ad accettare
condizioni e stili di vita autodistruttivi oltre che alienanti. L’ordine
economico capitalista non ha solo diviso le popolazioni a seconda delle
funzioni loro assegnate nella catena di produzione del valore economico, ma è
penetrato fin dentro i singoli individui riuscendo a suddividere il loro
quadrante biologico in comparti separati: lavoro, consumo, spostamenti, cura,
svago. A ogni dimensione del vivere vengono assegnati tempi, dosi di
risorse psicofisiche da impegnare, modelli comportamentali, rituali. Il tutto
mediato indissolubilmente dal denaro a disposizione, o meglio, dall’accesso al
credito, dai limiti di solvibilità del ricorso al debito. Ordini
sociali e sistemi di vita non capitalisti non sono tollerati, ovvero,
costituiscono il campo su cui le imprese – come tanks in battaglia – penetrano,
distruggono, conquistano, investono, colonizzano; in competizione tra loro.
L’economia di mercato mutua i propri modelli di azioni da quelli della guerra.
“La competizione – ha affermato qualche tempo fa una commissaria europea per la
ricerca, Máire Geoghegan-Quinn (citata da Alice Benessa e Silvio Funtowics in L’innovazione
tra utopia e storia, Codice edizioni, 2013) – è la nuova legge di gravità
dell’economia, che nessuno può sfidare”.
Per coloro che desiderano tentare una fuoriuscita politica dal presente
ordine sociale si pone quindi la necessità di ricondurre a unità le identità
sociali frammentate, di superare le separazioni, di unificare le opposizioni,
le lotte, le proposte alternative. Per riuscirci servono una teoria critica
generale capace di cogliere la centralità del sistema che domina le relazioni
sociali esistenti e un progetto di emancipazione che vada bene per tutte le
popolazioni variamente soggiogate dal sistema; una visione e un progetto di
società alternativa, plausibile, desiderabile oltre che necessaria, capace di
mobilitare i soggetti della trasformazione.
Come noto, i molti tentativi fin qui prodotti non hanno dato buon esito.
Perché? Quali sono stati i loro limiti? Ogni movimento antagonista ha
creduto di aver trovato il bandolo giusto della matassa. Cosicché ognuno ha
tirato il suo rendendo la matassa ancora più intricata. Le
organizzazioni politiche del movimento operaio hanno pensato che il motore del
processo di trasformazione fosse il proletariato industriale, liberato il quale
tutti ne avrebbe tratto beneficio. Scrisse Giuseppe Prestipino a proposito
delle pretese universalistiche della teoria marxista ortodossa: “I vecchi
marxisti ripetevano che la classe operaia, in quanto ‘classe generale’, avrebbe
avuto il compito di abolire tutte le classi e che, liberando se stessa, avrebbe
liberato tutta l’umanità da ogni forma di servaggio” (in Accadde domani,
Centro per la filosofia italiana, Aracne 2005).
I partiti verdi, dal canto loro, hanno ritenuto che la preservazione
dell’ambiente naturale avrebbe dovuto interessare e mobilitare l’intera
umanità. I movimenti femministi, come quelli anticoloniali e antirazzisti,
hanno creduto che senza l’abbattimento delle discriminazioni di genere, razza,
religione nessuna persona si sarebbe mai potuta sentire davvero libera.
Soffermiamoci sulle ragioni dei “rossi” e dei “verdi”.
C’è uno scritto illuminante di Alex Langer del 1985 (Il verde non passa
per la cruna dell’ago rosso, pubblicato su “il manifesto” del 26/01/85) che
spiega molto chiaramente la situazione. Come noto, Langer rifiutava di
schiacciare il neopartito verde sul lato della sinistra parlamentare, non solo
o tanto per ragioni tattiche di opportunità elettorale e nemmeno per la
differenza di contenuti, alle volte davvero grande (pensiamo al nucleare), ma
su questioni più di fondo. Scrive il fondatore dei Verdi italiani: “Bisognerà
interrogarsi anche sull’utilità pratica di certe classificazioni, e trarne le
conseguenze. […] Ci sono oggi più cose tra cielo e terra di quante non se ne
riescono ad afferrare con categorie politiche che già in passato faticavano a
rendere l’idea e oggi sono manifestazioni in crisi”. Langer rinfaccia
alle sinistre di aver perduto una dimensione utopica ed etica e di occuparsi
solo di “giustizia distributiva e migliori condizioni di vita sociale”
rinunciando alla “critica di fondo alla civiltà dominante”. Per contro
Langer paragonava la battaglia dei verdi per la “sopravvivenza della specie” a
quella dei cristiani delle origini che scelsero il Nuovo Testamento e rifiutano
i profeti e le leggi di Israele. I verdi quindi non si consideravano una “terza
posizione” tra le destre e le sinistre, ma una cosa altra, un’altra categoria
politica alla ricerca di un “proprio progetto complessivo” che Langer delinea
attorno ad alcune missioni di base: dare risposte a “una domanda di
spiritualità e di interiorità; una rivalutazione dell’iniziativa personale e di
gruppo rispetto alla priorità dell’’ente pubblico’; una ricerca di comunità non
riconducibile alla socialità politicizzata e strutturata propria della
tradizione di sinistra…”. Da qui l’inevitabile profetico pessimismo: “A ben
guardare e per tutto un periodo non breve l’approfondimento di una visione
ecologista porterà allo scoperto distanze assai più marcate tra ‘verde’ e
‘rosso’ di quanto oggi non si pensi, e i conflitti sul nucleare, sul terzo
mondo, sul militarismo, sulla ‘fuoriuscita dall’industrialismo’, sul sindacato
e più in generale sulla concezione del ‘progresso’ che si preannunciano saranno
assai dolorosi”.
A Langer, quindi, (ma anche a Ernesto Balducci e alla corrente cattolica
che militava nel Pci, Franco Rodano, Claudio Napoleoni, Raniero La Valle) non
bastavano né le risposte apparentemente inoppugnabili, neutrali che venivano
dall’“ambientalismo scientifico”, né quelle dell’ecomarxismo di James
O’Connor (teorico della “seconda contraddizione” tra capitale e natura)e
dell’”ecologismo sociale” di Barry Commoner, Richard Levins e altri. Le prime
finivano nell’affidare le sorti del pianeta alla tecnoscienza, le seconde
all’automatico rovesciamento dei rapporti di potere tra le classi sociali.
Era quindi chiaro fin dall’inizio della storia del pensiero politico
ecologista che la convergenza tra verdi e rossi, tra l’ecologia pura
(conservazionista, profonda) e l’ecologia sociale (operaia), non si sarebbe
potuta realizzare per giustapposizione aritmetica, ma attraverso un processo
alchemico, fusionale che avrebbe dovuto modificare la natura stessa delle parti
coinvolte e dei loro punti di vista.
Il pensiero ecologico stesso (sistemico, complesso, relazionale) è un modo
di pensare il mondo e di pensare sé stessi in rapporto a ogni altro ente. È una
“scienza sovversiva”, diceva Giorgio Nebbia, poiché riunisce le conoscenze fisiche,
geologiche, biologiche, climatiche… e le pone in relazione con le scienze che
studiano i comportamenti umani. L’ecologia non è una branca della
biologia è piuttosto una “superscienza”, una “filosofia
globale”, poiché “nella grande concatenazione di causa ed effetto nessuna
materia, nessuna attività può essere considerata isolatamente” (Ludwig Trepl,
in Profeti verdi, a cura di Gianfranco Bettin, 2022). Se presa sul
serio, l’ecologia rimette in discussione alla base i miti fondativi della
civiltà occidentale, la separazione tra essere umano e natura, la cosificazione
della natura e così via. “In questo universo tutto ha a che fare con tutto,
formando una incommensurabile rete di relazioni” (Leonardo Boff, La
terra è nelle nostre mani, edizioni Terra Santa, 2017).
L’ecologismo, quindi non è solo anticapitalista, anche se per andare oltre
dovrà necessariamente abbatterlo.
Un primo tentativo di connessione tra le istanze ecologiste e sociali venne
dalla proposta ecosocialista (vedi, di Antunes, Jaquin, Kemp, Krieger,
Stengers, Telkamper, Wolf, Ecosocilaismo, Per un’alternativa verde in
Europa, pubblicato in Metafora verde, n.1 1990) che si ispirava alle
posizioni di Barry Commoner, Gorz e che in Italia prese la via dei Verdi
Arcobaleno, dove confluivano spezzoni della “nuova sinistra”.
L’ecosocialismo, il bio-umanesimo, il “comunismo di base” di Luis Munford (Tercnica
e potere), il “comunismo dei beni fondamentali” di Giorgio Nebbia,
l’“ecologia rivoluzionaria” e ora il “comunismo decrescente” di Saito indicano
sentieri di riconciliazione della società umana con la natura che
implicano una rivoluzione antropologica. Una rivoluzione del
sentire comune, nel senso di coscienza di specie che si recepisce come parte
integrante della rete della vita, non soggetti esterni superiori. E ciò può
avvenire solo riscoprendo un rapporto empatico, emozionante (non solo razionale
e utilitaristico) con la natura, a partire dal proprio corpo. Nulla di new age.
Nessuna fuga nell’intimismo individuale o nel metafisico. Al contrario, un
processo di liberazione – non solo dell’immaginario – dalle costrizioni
materiali che compromettono le possibilità di una vita piena e sana, ricca e
soddisfacente. Timothée Parrique, commentando i lavori di Saito ha confermato che non potrà esserci mai
un ridimensionamento pianificato democraticamente delle produzioni e dei
consumi (al fine di alleggerire le pressioni ambientali) senza fare uno “sforzo
di condivisione delle ricchezze e del benessere”. Il “regno della
libertà” auspicato dal comunismo è quindi un mondo liberato dall’ossessione
della crescita, della produttività, del denaro. Un “socialismo senza crescita”,
un “comunismo decrescente”.
Testo, rivisto dall’autore, dell’intervento al seminario Decrescita:
una via ecosociale al cambiamento, promosso a Brescia dalla Fondazione
Micheletti il 31 marzo 2023.
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