Capita che nel ridente percorso del capoluogo ambrosiano che conduce alla
stazione ferroviaria sia da tempo impossibile sottrarsi alla pubblicità più
invasiva. La forma più intrusiva in assoluto è rappresentata dagli schermi
onnipresenti che sganciano h24 le loro bombe a grappolo pubblicitarie, a volte
in guisa diretta, altre volte travestita da “informazione”.
L’intruso molesto che si affacciava oggi dagli schermi era una nota archistar
che decantava, con la seria professionalità che caratterizza il ceto,
l’imprescindibilità odierna della “sostenibilità”. La “sostenibilità” oggi –
diceva – è un dovere morale cui nessuno può sottrarsi. Sullo sfondo
dell’intervista-spot si poteva notare il bellissimo porticato della Statale di
Milano che come ogni anno, in occasione del Salone del Mobile, è invaso da
policrome e imponenti installazioni. Chi abbia la fortuna di aggirarsi negli
spazi universitari, oramai sempre più refrattari ad intristirsi nelle
faccenduole della conoscenza, può ammirare ogni anno una grande varietà di
installazioni, alcune oggettivamente spettacolari. Il tema di quest’anno, e
invero più o meno di tutte le ultime edizioni, è l’AMBIENTE. Su una colossale
catasta di container creativi, piantati a ridosso dei bassorilievi secolari,
quest’anno campeggia la scritta “Save the Planet”.
Il sito del Fuori Salone 2023 dice, e non abbiamo ragione di non credergli, che
Milano è allietata in questi giorni da ben 946 eventi in varie parti della
città. Ciascuno di questi eventi è preparato da settimane di lavoro manifesto
(spesso veri e propri cantieri) e da mesi di lavoro progettuale.
Come chiunque può verificare, ogni anno questi eventi sono preceduti da una
quindicina di giorni di lavoro dedicati alla costruzione di queste
creativissime istallazioni, seguiti, al termine della kermesse, da una buona
settimana di distruzione delle medesime istallazioni, destinate poi alla discarica.
Ecco. Ora permettetemi questa sommessa riflessione.
Quando parliamo di “sostenibilità”, se ci siamo posti il problema del
significato della parola, dovremmo sapere che parliamo di una questione
squisitamente di LIMITI. Nello specifico, tutte le attività che svolgiamo sono,
naturalmente, produttrici in varia forma di entropia. Consumiamo risorse e
produciamo disordine, scarti, inquinamento, sottoprodotti. Il pianeta che ci
chiamano coralmente a salvare è un sistema in equilibrio che ha fortunatamente
certe capacità di metabolizzare gli scarti e di rimpinguare le proprie risorse
(essenzialmente grazie al contributo dell’irraggiamento solare). Ma ciò che
sappiamo almeno dagli studi di Herman Daly degli anni ’70 è che un sistema a
crescita infinita come quello dell’economia contemporanea entra in rotta di
collisione fatale con sistemi finiti in equilibrio come gli ecosistemi (e i
singoli organismi in essi). Da qui trae origine il problema della sostenibilità
ambientale.
Il problema non è in nessun modo aggirabile. La “sostenibilità” al di fuori
delle chiacchiere significa e può significare solo una cosa, ovvero
l’accettazione di limiti. Non limiti allo sviluppo sociale e culturale, ma
sicuramente limiti alla crescita del consumo e della produzione di scarti. Il
cosiddetto tema del “riscaldamento climatico”, per coloro ai quali ciò è caro,
rappresenta soltanto una delle possibili eventuali implicazioni di questa
contraddizione strutturale, ma tutti i numerosi, accertati (e, diversamente dal
“global warming”, taciuti) problemi di squilibrio ambientale nel mondo
contemporaneo dipendono da questo stesso meccanismo.
Bene. Ora torniamo per un momento alla nostra archistar e alle sue parole sulla
inderogabilità della sostenibilità. Se parliamo di sostenibilità parliamo, come
abbiamo detto, di limiti. La questione centrale, l’unica di cui dovremmo
seriamente appassionarci è: quali limiti?
Nel nome di una lettura totalmente unilaterale dell’ambientalismo, oggi a noi
plebei viene spiegata continuamente la necessità di contrarre i consumi, di
chiudere i termosifoni, spegnere la luce, rottamare la vecchia auto per
acquistare (col bonus!) automobili elettriche dal costo quadruplo, di nutrirci
di carne sintetica e farina d’insetti, di smettere di fare i barbecue, di
tappezzare la casa di famiglia di certificazioni energetiche, ecc. E
simultaneamente, in maniera appena appena dissimulata, siamo circondati dalle
più varie forme di moral suasion rivolte a smettere di riprodurci, ad accogliere
col sorriso ogni compressione salariale, e infine a semplificare le pratiche di
ritiro anticipato da questa valle di lacrime. Il messaggio di fondo da cui
siamo bombardati è: “Sei un vivente pernicioso, vergognati, cerca di produrre
tanto, consumare poco e crepare presto.”
E d’altra parte cosa non si farebbe per salvare il pianeta.
Insomma, la nostra cara archistar, dall’alto della sua superiore consapevolezza
del supremo bene del pianeta ci sta spiegando, con una sfumatura di disprezzo,
che la dovremmo smettere di fare festa, come evidentemente abbiamo fatto
ininterrottamente fino ad oggi, perché, giusto cielo, abbiamo vissuto al di
sopra delle nostre possibilità ed è ora di finirla. Dunque, se ho capito bene,
sta cercando di spiegarci che robe come quel mostruoso potlatch da cui
intratteneva il pubblico in mondovisione va sotto la voce “sostenibilità”
(infatti c’è scritto sopra). Questa fiera dell’effimero, questi colossali
spottoni pubblicitari destinati al macero nel giro di una settimana sono il
volto progressivo della “sostenibilità”, e sei tu a non capire.
Questo grande falò ciclico fatto a maggior gloria delle vendite naturalmente
non è un privilegio dei poveri mobilieri. Figuriamoci. Quel falò è in costante
compagnia di un brulicare globale di roghi sacrificali con le stesse finalità
pubblicitarie, trasmesse coattivamente da milioni di schermi nei luoghi pubblici.
E siccome la pubblicità è un bene posizionale, che dipende dal suo rapporto con
i concorrenti, non c’è nessun limite a quante risorse vengano messe nel
sollecitare i consumatori al consumo (ma consumo virtuoso, verde, sostenibile!)
E quali sono i consumi verdi? Beh, com’è noto, da anni l’unico settore che
continua ad avere consumi (e ricavi) in crescita è il settore del lusso. Che
naturalmente è tecnologicamente all’ultimo grido, e dunque è verde, verdissimo,
mica come quel puzzone del tuo barbecue domenicale, mica come quella fottuta
carretta che ti avevano garantito dieci anni fa come ecologica?
Perché casomai non lo aveste capito, bruciare il 20% di risorse industriali
globali in fuffa cromata, in spottoni creativi, in balle mercenarie per guadagnare
una fetta di mercato, questo è “ecofriendly”. Comprare il terzo yacht o la
decima Ferrari è ecologicissimo e profuma l'alito. Anche bruciare 130 miliardi
in spese militari per conto terzi è sostenibilissimo.
Basta che voi la smettiate di bere, mangiare, riprodurvi, rompere i
coglioni per la TAC e produrre flatulenze (che sono gas serra).
E poi andremo d’accordo e il pianeta sarà salvo.
Nota a margine sul tema dell'ambientalismo.
Pochi temi, anche vista l'intensità del bombardamento mediatico, sono così
propensi a perdersi in una miriade di rivoli e distinguo, sono così inclini a
suscitare accuse reciproche e sospetti.
C'è chi drizza le orecchie sospettoso non appena si parla di limiti alla
crescita e tira fuori dalla cantina qualche impolverata critica a Malthus,c'è
chi aggrotta la fronte irritato quando non ci si prosterna all'agenda green del
global warming, tirando fuori l'ultimo pamphlet sull'apocalisse alle porte.
Proviamo perciò a metterla giù semplice, in termini di operatività politica,
senza perdersi in troppi sottoproblemi che fanno perdere di vista gli
obiettivi.
Come si fa a distinguere i soggetti sinceri dai farabutti, le strategie oneste
da quelle telecomandate, le istanze costruttive da quelle a libro paga?
E' semplice.
Si può usare come cartina tornasole l'ORDINE DEL GIORNO con cui si propone che
i temi vengano affrontati.
Un ordine del giorno serio che discuta dei problemi della sostenibilità deve
partire da due punti.
1) In primo luogo deve far piazza pulita dell'idea, cara al capitalismo, per
cui ai problemi ecologici si può porre rimedio con soluzioni di mercato.
Quest'idea è il cardine di tutte le odierne operazioni di greenwashing. Si
immagina che con qualche tassa sui consumi, con qualche incentivo ben piazzato,
e poi lasciando fare alla creatività umana e alla libera competizione, per ogni
problema ecologico si produrrà magicamente una soluzione tecnologica smart,
facendo felici tutti: gli utenti e i detentori di capitale.
Questa però è una stupidaggine ipocrita e pericolosa.
In un sistema ad alta innovatività come quello della concorrenza capitalistica,
riuscire ad identificare la causa di un problema ambientale, ecologico,
organico, è l'eccezione, non la regola. Nel tempo in cui riusciamo ad
identificare una causa e ad escogitare una soluzione, cento altri problemi sono
all'opera senza che noi si abbia la più pallida idea di cause e soluzioni.
Ogni soluzione di mercato, anche quando fosse reale ed efficiente (cosa che
raramente è possibile garantire per problemi di carattere sistemico) è sempre
strutturalmente in immenso ritardo rispetto ai mille mutamenti turbolenti e
scoordinati che il sistema genera costantemente.
Prendiamo un esempio di relativamente facile identificabilità. Noi sappiamo con
certezza che epidemiologicamente condizioni patologiche gravi come l'autismo, i
tumori, le malattie autommuni, ecc. ecc. sono da tempo in fase di diffusione
esplosiva. Per ciascuno di questi problemi potremmo facilmente creare
condizioni per una campagna emergenziale. Per ciascuno di questi problemi non
abbiamo però nessuna chiara catena di imputazione causale, e forse non l'avremo
mai o per decenni. Dunque visto che non ci sono prodotti sul mercato da
fornire, queste emergenze non partono (e anzi, neppure le ricerche
epidemiologiche che ne esaminano la dinamica sulla popolazione sono
particolarmente curate). E questi problemi di salute, quasi certamente di
origine ambientale, sono solo la punta dell'iceberg degli importanti problemi
ambientali di cui potremmo occuparci.
Curiosamente oggi stiamo invece identificando come unico urgentissimo,
inderogabile problema il "climate change", in cui le difficoltà di
imputazione causale sono enormi e le capacità di verificare l'efficacia delle
soluzioni sono minime (dunque i margini di arbitrio sono massimi).
Qui ogni inizio di discussione seria deve mettere in crisi il modello di
crescita obbligata che sta al cuore del capitalismo; se non lo fa il resto è
fuffa.
2) Il secondo punto da cui deve partire una politica della sostenibilità
ambientale seria è la consapevolezza che le differenze economiche massive nel
mondo moderno sono, senza se e senza ma, differenze di POTERE.
Un cittadino ricco rispetto ad un cittadino che stenta ad arrivare a fine mese
(o che non ci arriva proprio senza aiuti) non sono in un rapporto di potere
affine, per quanto questo sia
statuito dalla legge. Se litigano e il primo fa una causa per quanto temeraria
al secondo, il secondo è finito.
Il primo può utilizzare il proprio reddito in innumerevoli forme di
influenza mediata, può lusingare, promettere, assoldare, amplificando
indefinitamente le proprie opinioni e volontà.
Il secondo è ricattabile in ogni istante.
Questo tipo di asimmetrie esistono tra individui all'interno di uno stesso
stato così come esistono tra stati.
Finché il denaro è POTERE e le differenze di capitalizzazione sono abissali
qualunque intervento che tocchi la parte bassa della catena alimentare
capitalistica verrà, giustamente, rifiutato. E se all'interno di uno stato si
può pensare di utilizzare la coercizione, all'esterno questo è sostanzialmente
impossibile.
Dunque se qualcuno vuole prendere sul serio il tema della sostenibilità in
termini di contrazione dei consumi o di limitazione delle ambizioni, il punto
di partenza è uno e uno solo: la drastica riduzione delle differenze di potere
economico (tra individui e tra stati).
Volete ridurre consumi e limitare la spinta acquisitiva della parte bassa della
classifica? Benissimo, la prima cosa da fare, proprio solo per cominciare, è
l'eliminazione di ogni "consumo vistoso" nei ceti affluenti. Finché
ci saranno signori che si recheranno con il jet privato, chessoio, a Davos a
predicare l'austerità per il bene del pianeta, l'unica risposta civile che possono
ricevere è un garbato vaffanculo. E questo non è populismo, questo è realismo e
senso di preservazione.
Se l'uomo con l'arsenale pensa che troppe armi nel mondo siano un problema, non
può cominciare col chiedere all'inerme di consegnare il temperino. Certo potrà
provare a costringerlo con l'arsenale, ma si aspetti di veder volare parecchi
temperini.
Dunque, in sintesi, se qualcuno dei magnifici esemplari delle elite
benpensanti vuole portare avanti seriamente la sua agenda per la sostenibilità
e il bene del pianeta, va benissimo. Per valutarne la serietà bisogna vederne
le priorità.
Se la priorità che porta avanti è la rinuncia alle "soluzioni ecologiche
di mercato" e la drastica riduzione della forbice reddituale tra nazioni e
tra cittadini all'interno della propra nazione, ha i titoli per essere preso su
serio.
Se sbamba di miracoli tecnologici, risposte di mercato e ascetismo dei poveri,
sappiate che avete davanti un cacciapalle.
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