Un
luogo dove si eserciti la cooperazione, la comunicazione, la creatività,
l’autonomia dell’allievo con maestri normali, né eroi né missionari
Si dice che
la scuola sia un cantiere perennemente aperto – semper reformanda, ha
scritto qui Saverio Snider qualche giorno fa. È una visione che tiene duro almeno da mezzo secolo.
Parrebbe, insomma, una sorta di Sagrada Família, ma senza data
di scadenza.
È però
difficile capire quando fu aperto il cantiere della scuola contemporanea,
mentre si sa che l’obbligo di frequentarla rimanda a inizio ’800. Oggi non le
sfugge praticamente nessuno: tra i quattro e i quindici anni un allievo che non
ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore, senza
contare i compiti a casa. Ha scritto Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino,
che se la medicina potesse occuparsi della popolazione anche solo per una
porzione infinitesimale del tempo della scuola, non le si perdonerebbe nemmeno
un raffreddore.
Il cantiere
è sempre aperto, ma a me pare che dietro le narrazioni, gli studi e i rapporti,
questa scuola continua ad assomigliare maledettamente a quella che avevo
frequentato negli anni ’60. Ci sono un sacco di riforme più amministrative che
pedagogiche, tant’è che il modello pedagogico ancor oggi egemonico è anche
quello più conosciuto: lezione ex cathedra (la lezione resta ex cathedra anche
laddove l’insegnante passeggia tra i banchi) + esercizi applicativi (sovente da
svolgere a casa propria) ⇾ valutazione.
A parte
questo piccolo appunto, l’articolo di Snider è interessante, benché finirà
probabilmente anch’esso, come tanti altri, nel cassetto delle buone
riflessioni. Naturalmente ne è consapevole, tanto che, scrive: “ricette non
ne ho, se non quella di riuscire a cambiare la testa della maggioranza delle
persone, impresa che, pensando alla scuola, nemmeno a quella eccezionale ed
esemplare personalità che fu don Milani riuscì ai suoi tempi”.
Don Lorenzo
è stato un personaggio importante. La sua «Lettera a una professoressa» fu
oggetto di citazioni e censure. Si citava ciò che faceva comodo, confidando che
tra citarla e leggerla poteva esserci un mare. Si parlava volentieri della sua
scuola, nata da alcuni contrasti con la Curia di Firenze, che lo allontanò
mandandolo a Barbiana, paesello sperduto della Toscana.
Così don
Milani diventa un modello da imitare, benché il contesto stesso in cui si
svolse l’esperienza pedagogica del priore toscano sia unico e forse
irripetibile. La sua visione di scuola prevede esplicitamente che il maestro è
e deve essere un missionario, una sorta di eroe e di martire: «La
scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella
di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa
aperta a tutti e senza orario. L’altra soluzione è il celibato».
Ma c’è anche
un’altra storia affascinante, iniziata nel 1920 e che dura tutt’ora. È la
storia di Célestin Freinet (1896-1966), che sceglie di fare il maestro e vuole
riformare la scuola partendo dai suoi pessimi ricordi di alunno. Nella scuola
del suo villaggio, nelle Alpi marittime francesi, c’era un solo libro di
lettura per tutta la classe, si ricevevano tutti le stesse lezioni frontali, a
cui si doveva rispondere con la capacità mnemonica, per imparare quelle nozioni
e saperle ripetere.
A partire da
quel suo primo anno di scuola, Freinet diede vita a una pedagogia basata sulla
costruzione del sapere attraverso la sperimentazione, la cooperazione, la
comunicazione, la creatività, l’autonomia. Siamo nel campo della scuola
attiva, in cui l’insegnante ha un ruolo centrale e nel contempo
discosto. È lui che provoca i processi di apprendimento, che favorisce la
cooperazione e la collaborazione, anche per rafforzare la forza e le
opportunità offerte dal gruppo, in un contesto che fa a pugni con la
competizione per essere il primo della classe. Secondo Freinet si impara a
parlare parlando e a camminare camminando, così come si acquisisce la
conoscenza sperimentando, in un modo che lui chiama «naturale». Nella sua
classe ci sono diversi laboratori: per il lavoro manuale di base (allevamento,
lavoro dei campi, falegnameria, costruzioni…) e per le attività più evolute,
socializzate e intellettualizzate (ricerca, conoscenza, documentazione;
sperimentazione; creazione, espressione e comunicazione grafica e artistica).
Assai nota è
la sua invenzione della tipografia scolastica, che compare nella scuola dove
insegnava già nei primi anni ’20, una moderna tecnologia per imparare a
scrivere e a comunicare. Porta a scuola i caratteri mobili coi quali ogni
allievo scrive le sue frasi. I testi venivano poi stampati con una pressa e
diventavano il giornalino. Molte, come si può intuire, sono le competenze messe
in gioco e, nel contempo, si sviluppa il senso di collaborazione reciproca.
Nel corso
degli anni le sue tecniche si svilupperanno e, attraverso il giornalino e la
corrispondenza scolastica, coinvolgeranno altri maestri incuriositi e
affascinati da questa pedagogia così diversa. A partire dagli anni ’50 la
corrispondenza tra scuole e lo scambio di giornalini riguardò un numero
crescente di maestri, tanto che nel 1957 fu istituita la Federazione
Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna, alla quale seguirono
negli anni altre importanti associazione sparse nel mondo – da noi, ad esempio,
CEMEA Ticino.
L’approccio
di Freinet alla scuola è naturale, popolare, attivo, umanista nel senso più
esteso e liberale del termine. Converrebbe conoscere bene i lavori di Célestin
Freinet e dei suoi epigoni, che hanno disegnato una scuola idealista ma non
utopica, fatta da professionisti preparati, laici e intellettualmente liberi.
Maestri
normali, né eroi né missionari.
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