martedì 4 aprile 2023

L’Occidente contro il Resto del Mondo

articoli, video, disegni di Raniero La Valle, Barbara Spinelli, Jeffrey Sachs, Manlio Dinucci, Stefano Orsi, Giuliano Marrucci, Fabrizio Marchi, Seymour Hersh, Fred M’membe, Pepe Escobar, Vittorio Rangeloni, Alessandro Orsini, Francesco Masala, John Mearsheimer, Alberto Fazolo, Daniele Luttazzi, Fabrizio Poggi, Salvatore Toscano, Francesco Toscano, Flavio Pintarelli, Pablo Iglesias, Raúl Sánchez Cedillo, Vasily Prozorov, Franco Fracassi, Enrico Piovesana, Francesco Vignarca, Matteo Saudino, Carlos Latuff




Ahi serva Europa, in balia di armi, denaro e potenti – Raniero La Valle

“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà, un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a stare senza guerra. Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio al fine di costruire, e non ai cannoni e ai carri armati al fine di distruggere, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente a quelli di altre comunità e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’“idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come aveva ispirato le lettere dei condannati antifascisti (l’identità cancellata da Giorgia Meloni) della Resistenza europea.

E ora che cosa è diventata? L’ultimo Consiglio europeo ce l’ha mostrato con la massima evidenza. L’Unione europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del 25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità e lo sguardo sul mondo, Ursula von der Leyen e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro, dimentico della storia, andato a chiedere di votare i “crediti di guerra” ai partiti socialisti a Bruxelles, come alla vigilia della Prima guerra mondiale.

Ma non solo: l’Europa non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitor” sono gli Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative: l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale” che la loro sicurezza, la loro difesa e l’obiettivo della loro bulimia militare stanno nel fatto che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.

Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta sociale a oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di Zelensky, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi vecchi e bambini costretti a morire anche loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta a unirsi. È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, a Est, alla Russia e alla Turchia, e a Ovest, non solo a un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? E quanto dobbiamo aspettare per vedere arrivare qui una vera Schlein, non il dominio del passato, ma il coraggio del cambiamento?

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“Oggi tutte le strade del progresso portano a Pechino” – Fred M’membe

Ho tenuto un discorso a Pechino in occasione della cerimonia di apertura del ‘Secondo Forum Internazionale sulla Democrazia – I Valori Umani Condivisi’, organizzato congiuntamente dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali e dai think tank di Cambogia, Cile, Nigeria, Spagna e Tonga.

Più di 300 ospiti, studiosi ed esperti provenienti da oltre 100 Paesi e regioni hanno partecipato al forum di persona o virtualmente per discutere di democrazia e sviluppo sostenibile, democrazia e innovazione, democrazia e governance globale, democrazia e diversità della civiltà umana, democrazia e percorso di modernizzazione.
Ecco cosa ho detto:

«In un mondo veramente equo, libero e pacifico, la democrazia assume molte forme di espressione, non solo una. Credo che la democrazia sia un governo in cui tutto il popolo partecipa, in cui gli interessi del popolo regnano sovrani, in cui la sovranità del Paese, l’onore del Paese, è al primo posto.

Questo mese è il mese del discorso sulla democrazia nel mondo. Alla fine di questo mese, ci sarà una conferenza a Lusaka, o un vertice a Lusaka, in Zambia, il mio Paese, guidato dagli Stati Uniti. Sono venuti in Africa del sud per insegnarci la democrazia: un Paese che si è opposto alla nostra liberazione, un Paese che ha sostenuto i regimi coloniali – il loro regime fantoccio in Sudafrica, il regime della minoranza razzista bianca in Rhodesia, ora Zimbabwe, i governi coloniali portoghesi in Mozambico, in Angola, in Guinea-Bissau e a Capo Verde – oggi viene in Africa per insegnarci la democrazia.

Un Paese che ha rovesciato tanti governi in Africa, che ha guidato tanti colpi di Stato in Africa e in altre parti del mondo, un Paese che ha ucciso tanti nostri leader in Africa e in altre parti del mondo, gli assassini di Patrice Lumumba, quelli che hanno rovesciato Kwame Nkrumah, quelli che hanno ucciso Nasser, quelli che hanno ucciso Muammar Gheddafi, oggi vengono a insegnarci la democrazia. Un Paese che è stato costruito sulla forza brutale, sulla schiavitù di altri esseri umani, sull’umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani, sul saccheggio dell’Africa, oggi viene a insegnarci la democrazia.

Questa è l’arroganza, l’arroganza imperialista, l’arroganza razzista di cui siamo vittime. Non possiamo avere democrazia quando c’è l’egemonia della potenza imperialista più forte, più potente. Non possiamo avere una democrazia in cui le risorse di un Paese, le decisioni di un Paese sono dettate da un altro Paese. Un Paese che è dominato da un altro Paese non può essere democratico, un Paese che manca di sovranità non può essere democratico, un popolo che non può decidere da solo non può essere democratico. Una colonia e una neocolonia non possono essere democratiche.
Ecco perché oggi, alle Nazioni Unite, l’adesione è basata sulla sovranità. Solo le nazioni sovrane possono essere membri delle Nazioni Unite, perché solo le nazioni sovrane possono decidere da sole. Una colonia non può essere membro delle Nazioni Unite. Non è un caso. Non è un errore. Se non si ha rispetto per la dignità degli altri, se non si ha rispetto per la sovranità degli altri Paesi, non si può pretendere di essere un campione della democrazia.

Una volta si diceva che tutte le strade portano a Roma. Oggi possiamo dire con sicurezza che tutte le strade del progresso, tutte le strade di ciò che è meglio per l’umanità, portano a Pechino. Questo è un popolo che si è sviluppato, un Paese che si è sviluppato senza colonizzare nessun Paese del mondo, senza saccheggiare nessun Paese del mondo, senza sottomettere nessun popolo del mondo. Questo è un Paese che si sta sviluppando con il massimo rispetto per gli altri, per la sua storia, per le sue culture, e riconosce la diversità che è civiltà. Ci è stata insegnata una sola forma di civiltà, una sola forma di modernizzazione: quella occidentale. L’occidentalità era una misura del grado di civiltà e di modernità. Noi la rifiutiamo. Lo rifiutiamo perché non è corretto. Lo rifiutiamo perché è antidemocratico. Lo rifiutiamo perché è incivile pensare agli altri e al mondo in questo modo.

Oggi non possono accettare che la Cina li abbia raggiunti, che li stia per superare in molti settori dell’attività umana. La loro arroganza imperialista impedisce loro di accettare questa realtà, la loro arroganza razzista impedisce loro di accettare questa realtà. Ma il mondo sta cambiando. I cinesi che vediamo oggi, come ha detto il Presidente Xi a Mosca l’altro giorno, non si vedevano da 100 anni.

Loro (gli statunitensi) hanno plasmato un mondo di cui loro stessi hanno paura, e hanno plasmato un mondo che non è sostenibile. La democrazia, lo sviluppo umano non è sostenibile sulla base del saccheggio, della schiavitù, dell’umiliazione quotidiana di altre persone. Questo è il sistema che vediamo oggi, un sistema che non sopravviverà se verrà eliminato il saccheggio, se verrà eliminata la sottomissione di altri popoli, di altre nazioni, se verrà eliminata la disuguaglianza nel mondo. Quel sistema scomparirà. L’unico sistema che può sopravvivere e durare a lungo è quello che si basa sul mutuo vantaggio, sulle relazioni win-win, sul rispetto reciproco per gli altri, sull’accoglienza e sulla tolleranza verso gli altri e sull’amore fraterno per tutta l’umanità. Questo è ciò che troviamo oggi in Cina. Questo è ciò che ci mostra l’esempio della Cina.

In effetti, tutti i percorsi sono diversi. Non esiste un percorso uguale all’altro. Anche se ci stiamo dirigendo verso la stessa destinazione, ogni percorso ha le sue caratteristiche. Lo stiamo vedendo, lo stiamo imparando, lo stiamo sperimentando oggi con la Cina.

Ci sono molte cose da fare per ottenere il mondo che vogliamo. Un mondo più giusto, più equo, più pacifico è possibile. Ma non cadrà dal cielo, dobbiamo lottare per ottenerlo. E, come diceva Fidel (Castro), se lottiamo vinceremo».

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L’Occidente: un’oasi che ci fa feroci – Barbara Spinelli

Si stanno pagando con decine di migliaia di morti in Ucraina gli errori, le promesse tradite, la tracotanza, l’assenza di intuito e di capacità di penetrazione con cui l’Occidente ha gestito, sotto la guida di sei amministrazioni Usa, il dopo Guerra fredda e i rapporti con la Russia.

Guida priva di sagacia, che negli ultimi trentaquattro anni ha creato caos ovunque e l’ha chiamato “ordine basato sulle regole”, rules-based international order – le regole essendo quelle statunitensi.

La Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, ma la storia di questa violenza illegale ha radici in un passato sistematicamente occultato da chi, a Washington e in Europa, vede solo il segmento ucraino di un trentennio disastroso, che le amministrazioni Usa narrano come lotta del bene contro il male – come fantasticata ripetizione della guerra contro Hitler o favola di Cappuccetto Rosso, secondo il Papa. Qui in Occidente il bene, lì i barbari dell’inciviltà. Qui la potenza Usa, disperatamente ansiosa di apparire vincitrice della guerra fredda e unico egemone nel pianeta, lì gli Stati e popoli che quest’egemonia la rigettano perché rivelatasi incapace di produrre stabilità e convivenze incruente. È toccato a un europeo, il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, impersonare la hybris atlantista con le parole più demenziali: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”. Quale giardino? Quantomeno incongruo sproloquiare su giardini con la Francia di Macron sull’orlo dell’insurrezione popolare, l’Italia di Meloni che vuol abolire il reato di tortura (ma è vietato dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1984), la Polonia affamata di guerra nucleare, le guardie costiere libiche pagate dall’Ue che sparano sulla nave Ocean Viking per rimandare in Libia, in campi mortiferi, 80 migranti in fuga verso l’aiuola europea che ci fa tanto feroci.

A queste demenze siamo arrivati – accompagnate all’invio di armi sempre più offensive, uranio impoverito compreso – e c’è ancora chi parla, serio, di ritorno della guerra fredda. Non è guerra fredda quella che uccide l’Ucraina, ma esercitazione in guerre calde tra potenze atomiche. La Guerra fredda fu violenta e bugiarda, ma mai mancò la capacità di negoziare, di scansare la catastrofe, di aprire epoche di distensione, di Ostpolitik e di disarmo.

Oggi niente chiaroscuro, è tutto nero. A più riprese si è sfiorata la pace, tra Mosca e Kiev, e ogni volta Washington e Londra hanno messo il veto e imposto il proseguimento della guerra a un’Ucraina trattata al tempo stesso come eroe e vassallo. È accaduto una prima volta il 5 marzo ’22, subito dopo l’invasione, come rivelato lo scorso 4 febbraio dall’ex premier israeliano Naftali Bennett: Putin “capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky e non chiedeva più il disarmo dell’Ucraina”, Zelensky era pronto a seppellire l’adesione alla Nato (impegno iscritto nella Costituzione dal 2019). Ma venne il veto di Boris Johnson e poi di Biden (l’obiettivo secondo Bennett era “distruggere Putin” – smash Putin). Lo stesso è successo dopo la proposta di tregua in 12 punti (la pace appare solo come prospettiva) avanzata il 24 febbraio da Pechino: prima ancora di conoscere le reazioni di Zelensky e i risultati della visita di Xi Jinping a Mosca, Washington respingeva non solo la pace ma anche il cessate il fuoco.

Subito prima della visita a Mosca di Xi, tanto per mettere le cose in chiaro, la Corte penale internazionale emetteva il 17 marzo un mandato di arresto nei confronti di Putin per crimini di guerra. Washington ha applaudito, anche se una legge autorizza il presidente a usare la forza ogni qualvolta un americano è incolpato dalla Corte. Difficile trattare con chi hai appena definito un criminale. Negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina cozza contro il ripetersi di veti opposti alle tregue e l’evidente interesse Usa a demolire Putin.

Qualcosa però sta accadendo fuori dal piccolo recinto Nato. Qualcosa di planetario che il conflitto dissigilla. Due terzi dell’umanità sono contro guerra e sanzioni. L’egemone ha clamorosamente fallito in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Ha fallito in Iraq, Libia, Siria. Ha partorito mostri come lo Stato Islamico. Da oltre mezzo secolo ignora l’occupazione illegale della Palestina e accetta la “clandestinità” dell’atomica israeliana. Gli Stati Uniti sono più che mai egemonici dunque vittoriosi nell’Ue, ma collassano nel Sud globale: un territorio sempre più ostile all’interventismo Usa, più rassicurato da Cina e Russia. È il “momento Suez” degli Stati Uniti, dicono alcuni, evocando il fiasco di Londra, Parigi e Tel Aviv quando sfidarono Nasser occupando militarmente il canale egiziano nel 1956.

Il passato occultato da governi e giornali mainstream, in Occidente, sta già passando da quando è entrato in scena, con forza inattesa e formidabile, il nuovo attivismo di Pechino: prima con il piano di tregua in Ucraina, il 24 febbraio, seguito dalla visita di Xi a Mosca il 20 marzo; poi con la riconciliazione fra Iran e Arabia Saudita patrocinata da Xi, il 10 marzo. La riconciliazione scompiglia radicalmente il Medio Oriente allargato. Rassicura Assad in Siria, spunta i piani bellici israeliani, facilita la pace in Yemen, tranquillizza lo Stato afghano, che teme nuovi interventi Usa di “regime change”. A Iran e Arabia Saudita è stata prospettata l’adesione al gruppo non allineato dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): una vistosa promozione.

È consigliabile la lettura del rapporto pubblicato il 20 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, intitolato “L’egemonia Usa e i suoi pericoli”. Si parla di una quintupla egemonia, sempre più destabilizzante: egemonia politica (esportazioni della democrazia che “producono caos e disastri in Eurasia, Africa del Nord, Asia occidentale”), militare (uso sfrenato della forza), economica (egemonia del dollaro, politiche predatorie), tecnologica, culturale.

Il piano cinese sull’Ucraina è vago, certo. Volutamente vago. Ma letto assieme al testo sull’egemonia Usa diventa una forma di empowerment, di coscienza della propria forza condizionante. Il primo punto dovrebbe piacere a Kiev e a Mosca, visto che difende la sovrana integrità territoriale di tutti gli Stati Onu, e si accoppia a esigenze precise: applicazione non selettiva della legge internazionale (punto 1); architettura di una sicurezza europea senza espansioni delle alleanze militari (punto 2); neutralità delle operazioni umanitarie (punto 5), fine delle sanzioni unilaterali (punto 10).

Tra le righe, quel che si legge è un’alternativa al disordine causato dal suprematismo Usa. Inutile temere il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo: sta già succedendo, benvenuti nella realtà. I Brics contestano anche l’uso politico del dollaro. Gli scambi tra Cina, Russia, Arabia Saudita e Iran non avverranno più in dollari. È l’inevitabile trauma che viviamo. È la conferma solenne che oltre il giardino c’è ben più di una giungla.

da qui

 

 

L’Occidente prigioniero di se stesso – Fabrizio Marchi

L’ideologia neoliberale dominante è di fatto una sorta di religione, sia pur secolarizzata, che si fonda sul postulato, pur non scritto, della superiorità del mondo occidentale su tutto il resto del pianeta che si troverebbe fondamentalmente in una condizione di barbarie. Il compito cui è chiamato l’Occidente è quello di civilizzare tutto il resto del mondo, con le buone o con le cattive. Una visione sostanzialmente messianica, religiosa, in palese contraddizione con quegli stessi principi di laicità e di tolleranza che pure dovrebbero costituire le fondamenta del pensiero liberale. Può piacere o meno ai suoi cantori ma non c’è dubbio che l’ideologia liberale si è storicamente e concretamente determinata nel modo testè descritto.

In fondo è stato così fin dalla scoperta dell’America che coincide, non a caso, con l’inizio del dominio occidentale su tutto il mondo e viene fatta coincidere con l’inizio dell’era moderna. Cambia, soltanto parzialmente, la coperta ideologica con cui questo postulato viene posto in essere. Non più la religione cristiana (cattolica o protestante) e la (superiore) civiltà “bianca” bensì l’impianto ideologico politicamente corretto. Ma il retro pensiero “suprematista” e quindi razzista che sta dietro a questo modo di interpretare la realtà è esattamente lo stesso. L’Occidente è portatore di un modello liberale e democratico (in realtà sempre più liberale e sempre meno democratico), e quindi di una civiltà considerata oggettivamente superiore e universale. Chi non c’è ancora arrivato dovrà prima o poi arrivarci e chi non si è piegato dovrà piegarsi, in un modo o nell’altro.

E’ ovvio come questo postulato ideologico porti di fatto e necessariamente a giustificare tutte le nefandezze compiute in cinque secoli di storia – genocidi, guerre imperialiste, massacri, colonialismo, dittature militari, regimi fondati sull’apartheid, saccheggio sistematico, sfruttamento, uso di ogni tipo di armi di distruzione di massa, genocidi atomici – come un male necessario per difendere la superiore civiltà liberale.

L’idealtipo liberale, ora “neoliberale”, finge di scandalizzarsi di fronte alle manifestazioni di razzismo, nazifascismo e neonazifascismo  – in genere quelle più innocue – ma in realtà non esita a sostenere i peggiori pendagli da forca nazifascisti (e non solo) quando questi gli tornano utili. E’ successo sistematicamente in Europa, con le dittature militari in America latina (ma anche in Asia e in Africa), succede oggi con la feccia nazista ucraina che i (neo)liberali sostengono attivamente, senza nessuna remora e nessun tentennamento di ordine ideologico o tanto meno etico.

Chi ha avuto modo di interloquire con queste persone, sa perfettamente che questo è il loro sentimento, né potrebbe essere diversamente per chi parte da quel postulato. Se gli porti argomenti logici in tal senso cambiano rotta e tornano al loro spartito sulla superiore civiltà occidentale (fondamentalmente anglosaxon) ripetuto come un mantra.

Naturalmente, per quanto ci riguarda, non si tratta affatto di capovolgerlo nè di esaltare, a parti invertite, tutto ciò che c’è al di fuori dell’occidente, cioè i tre quarti del pianeta. Così facendo gli si fa solo un favore, oltre a deformare anche noi, come loro, la realtà. Del resto il mondo – ma potremmo anche dire la storia dell’umanità – è un “arco” e un “insieme” complesso di storie, culture, ideologie, religioni, contesti che hanno prodotto effetti a volte positivi e altre volte, magari anche il più delle volte, negativi. Vale per gli europei e per i nordamericani come per tutti gli altri.

La mia opinione infatti è che l’Occidente abbia prodotto anche tanto di buono – filosofia, letteratura, arte, cultura, diritti, principi di libertà e di democrazia – ma che il più delle volte abbia utilizzato quanto di meglio ha prodotto nel modo peggiore, cioè come falsa coscienza ideologica per coprire la sua volontà di potenza e la sua conseguente vocazione imperialista. Ed è ciò che sta facendo anche e soprattutto oggi.

Ma da qualche tempo c’è una grossa, gigantesca novità. L’impero occidentale a guida USA non è più in grado di dominare quella parte di mondo che fino all’altro ieri era sotto il suo controllo. Ed è una parte importante e anche molto robusta, non solo economicamente e militarmente ma anche dal punto di vista della coesione sociale e culturale. Pezzi di mondo (Cina, Russia, Iran, ma anche Cuba, Venezuela, Vietnam) che hanno costruito la loro forza, né poteva essere altrimenti, a partire dalle diverse rispettive storie, culture, contesti e strutture politiche che, ovviamente, non sono né potrebbero essere quelli del mondo liberale e neoliberale occidentale e soprattutto anglosassone.

Questa ormai raggiunta e consolidata autonomia e indipendenza politica ed economica (per quanto sia possibile in un mondo totalmente globalizzato) da parte di questi ex paesi del terzo mondo – risultato di grandi lotte di liberazione nazionali anticolonialiste e successivamente di una crescita, a volte portentosa come nel caso cinese, non solo economica ma anche tecnologica e militare – ha creato un vero e proprio corto circuito e un senso profondo di frustrazione nelle classi dirigenti occidentali che non sono più in grado di imporre alcunché a quegli stessi paesi. Nasce proprio da questa incapacità/impossibilità e da questo senso di impotenza, l’accentuazione, diciamo pure l’esasperazione di quell’atteggiamento messianico e “suprematista” nello stesso tempo che, se non opportunamente elaborato e disinnescato, potrebbe condurre al disastro.

Il compito non solo dei socialisti ma di tutti i sinceri democratici e di tutte le persone di buon senso (che sono più numerose di quanto non sembri) dovrebbe essere quello di disinnescare quella vis ideologica autoreferenziale, “suprematista” e (inevitabilmente) guerrafondaia di cui sopra e lavorare per far prevalere la parte migliore della cultura e del pensiero occidentale. L’Occidente deve accettare, per la sua stessa sopravvivenza, che esiste un mondo che rifiuta di declinarsi secondo le sue categorie (che, evidentemente, non sono universali), e deve abbandonare la presunzione e la pretesa di imporle. Ciascun paese e ciascun popolo deve avere il diritto di fare la propria storia, di costruire il proprio percorso e nessuno può impedirglielo. In ogni caso, non è più possibile. Non prenderne atto sarebbe il più grave errore che si potrebbe commettere.

da qui

 

due domande – Francesco Masala

 

1 -difesa dei confini o turismo militare? 

l’Italia manderà il più presto possibile nell’Indo-Pacifico la sua nave da guerra più importante, la portaerei Cavour (da qui)

 

2 – oggi, qual è il tavolo dei vincitori?

Il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, pensava che la conferenza di pace avrebbe offerto una buona occasione per ragionare, non solo sul Medio Oriente, ma sul futuro dell’Europa e dell’Italia, la penisola divisa, che i Savoia volevano unificare. Il problema era trovare il modo di sedersi al tavolo delle trattative. Si poteva fare? Sì, bastava partecipare alla guerra dalla parte dei vincitori. Cavour non aveva dubbi: i russi sarebbero stati sconfitti. Bisognava mettere in conto qualche morto e Cavour decise che ne valeva la pena: un pugno di morti fra i soldati piemontesi era il prezzo da pagare per sedersi al tavolo dei vincitori (da qui)

 


continua qui

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