C’è un sacco di bella gente, che
pretende di rappresentarci, parla al nostro posto e decreta a suo piacimento
ciò che pensa sarebbe bene per noi: diventare finalmente adulti ragionevoli,
scrivono in uno splendido editoriale collettivo di Tous Dehors alcuni giovani francesi. Vivono
le grandi proteste di queste settimane come un’occasione imperdibile per una
riflessione collettiva sulle proprie condizioni di vita, sui mondi che
desiderano davvero e per l’elaborazione di nuove strategie di lotta. Sono però
molto netti nel rifiuto delle forme di lotta tradizionali dei movimenti sociali
“alla francese” e criticano con rigore e intransigenza la condizione di
precarietà che si associa in modo naturale, e tutt’altro che ingenua, alla loro
giovane età. Non lotteranno certo per quel “paradiso terrestre” che viene loro
promesso per quando saranno vecchi e sfiniti: la miseria di un salario
differito che chiamano pensione. Non hanno alcuna intenzione di sognare di
poter essere sfruttati come le generazioni precedenti. L’ideologia del lavoro
non è un sogno, è un incubo. E la speranza di una emancipazione attraverso il
lavoro una trappola che non inganna più nessuno. Il loro problema è difendere
la vita, cioè trovare soluzioni vere all’impazzimento di un mondo che è stato
condotto sull’orlo del precipizio. Altro che dannarsi l’anima per vendere il
loro tempo alla ricerca di un lavoro salariato e per il miraggio di una
pensione da fame. Per questo denunciano il rischio che la riforma delle
pensioni appaia come la madre di tutte le lotte quando non è niente altro che
un sintomo, tra gli altri, di una dittatura dell’economia che cerca di imporre
il dominio totale sulle loro vite
Aforza di sentirlo, quel ritornello, potremmo rischiare quasi di finire per
crederci: la giovinezza è precarietà. A scuola, all’università
o nella formazione professionale, al lavoro, negli stage, nel lavoro interinale
o nei contratti a tempo determinato, nelle tane per topi che ci fanno da
alloggio, nel nostro stesso status sociale, nelle nostre identità, nell’amore,
in tutto, dovunque e per tutto, saremmo “precari”. Vale a dire, mai
veramente completi, mai veramente stabili, ci mancherebbe sempre qualcosa. Una
rivoluzione, forse? I nostri genitori e nonni ci compatiscono ma
intanto un po’ ci disprezzano, i sindacati e i partiti di sinistra
generalmente ci ignorano, salvo poi magari prometterci un impossibile ritorno
ai Gloriosi Trenta (gli anni della grande crescita
economica, quelli tra il 1945 e il 1975, ndt).
Tutta questa bella gente, che pretende di rappresentarci, parla al nostro posto
e decreta a suo piacimento ciò che ipoteticamente sarebbe bene per noi, cioè il
diventare finalmente adulti ragionevoli. Ma quello che ci viene offerto
è di accontentarci di essere sfruttati come le precedenti generazioni. E
oggi, ci viene chiesto di metterci in movimento perché così, in tempi lontani,
quando saremo vecchi e sfiniti, potremo vivere nel paradiso terrestre dei
“salari differiti” che chiamano pensione. Salari che peraltro per noi varranno
sicuramente meno di un salario minimo.
L’idea di felicità comune per la generazione dei nostri genitori e nonni
poggiava sulle fondamenta di una crescita economica che non abbiamo mai
conosciuto. Dal punto di vista antropologico, si traduceva nella
figura del buon cittadino lavoratore-consumatore: un mutuo di 20 anni per
“diventare proprietario di una casa”, un prestito al consumo per sperimentare
la “libertà” di guidare un’auto, uno o due bambini, una parvenza di carriera in
un lavoro di merda, un voto nell’urna, di tanto in tanto, ma senza crederci
troppo.
Oggi sappiamo tutti fino a che punto questo sogno sia sempre stato un
miraggio. Sappiamo anche quanto sia costato in compromessi politici di cui
stiamo ancora pagando il prezzo. Non c’è bisogno di ricordare come
questa società poggiasse, e poggia ancora, da un lato, sul più immondo
sfruttamento del lavoro da parte del capitale, dall’altro su un
sovrasfruttamento delle risorse della terra, i cui effetti cominciano appena a
farsi sentire e continueranno a farlo in misura crescente.
Per la nostra generazione va tutto male, eppure non cambia nulla. Con
l’inflazione e l’aumento generalizzato dei prezzi, inoltre, molti di noi sono
scesi al di sotto della soglia di povertà. Eppure ancora niente. “Il
lavoro non piace più”, si sente dire dappertutto. Forse però bisognerebbe
aggiungere che non piaceva nemmeno prima. “Fottetevi!”. È questo, in
sostanza, il messaggio per i nuovi arrivati nel mercato del lavoro da
vent’anni a questa parte. Quello che spudoratamente si impone nel nostro tempo
è la sofferenza sul lavoro, diventata uno degli indicatori principali delle
trasformazioni sociali della società contemporanea. Del resto, noi già non
lavoriamo, non facciamo carriera. Al massimo troviamo un lavoretto, passiamo
inosservati, ci danniamo l’anima per trovare qualche aggancio.
La nostra generazione non ha mai creduto nell’emancipazione attraverso il
lavoro. Per noi, al contrario, ciò che struttura un mondo felice non è
il salario, non sono la sacralità della proprietà privata e il regno degli
interessi meschini. È la cooperazione, sono le relazioni gioiose, l’aiuto
reciproco e lo scambio, l’amicizia e la voglia di prendersi cura delle persone
che ci sono care, ma è anche il poter dare risposte a tutto quel cumulo di
problemi che abbiamo ereditato e che ci spinge alla necessità di trovare
soluzioni all’impazzimento di un mondo sull’orlo del precipizio. Tutto
questo è una cosa da capogiro, siamo d’accordo.
L’epidemia di Covid 19 ci ha costretti all’isolamento. Sì, è vero, in
un certo senso, siamo spesso inchiodati ai nostri schermi, isolati, prigionieri
degli algoritmi. Siamo fragili, manipolabili, sfruttabili. Eppure, oggi c’è
tutto un campo antagonista al potere dell’economia e dell’autoritarismo
governativo che cerca di trovare la via per fare irruzione in questa epoca. Siamo
dalla parte degli scioperi, dei blocchi, dei sabotaggi e del superamento dei
limiti imposti. Ci sentiamo vicini a tutte e a tutti coloro che, ovunque nel
mondo, cercano di rialzare la testa ribellandosi al regno della disuguaglianza
e dell’ingiustizia.
Oggi, per diversi motivi, stiamo correndo il rischio che la riforma delle
pensioni appaia come la madre di tutte le lotte quando non è niente altro che
un sintomo, tra gli altri, di una dittatura dell’economia che cerca di imporre
il suo dominio totale sulle nostre vite. In primo luogo perché permette di
evocare, ancora una volta, l’indescrivibile “movimento sociale alla francese”,
sebbene ormai quasi nessuno creda alla pertinenza delle forme di lotta che
utilizza, tranne forse alcune roccaforti sindacali (RATP, SNCF, energie, educazione nazionale). Forme che, d’altra parte, sono state
largamente superate dalla forza della rivolta immediata dei Gilet Gialli. E
poi, perché, riducendo il conflitto a queste roccaforti sindacali,
diventiamo tutti spettatori di un conflitto in cui non contiamo niente.
Infatti, come è accaduto giovedì 19 gennaio, in questo tipo di
movimento appariamo come una massa amorfa, che serve solo a far numero, ed è
dunque buona solo per essere contata, per spiegare il rapporto di forza tra le
centrali sindacali e il governo.
Di più, sono almeno 40 anni che il repertorio d’azione del movimento
sociale classico è stato superato dalle ristrutturazioni contemporanee
dell’economia (globalizzazione dei flussi di capitale,
de-industrializzazione, terziarizzazione dell’economia, gestione da parte degli
algoritmi, ecc.). Oggi, costretto sulla difensiva, il classico movimento
sociale alla francese, irrigidito nel suo repertorio d’azione, finisce per
bloccare una ristrutturazione antagonista delle lotte basata su una matassa di
situazioni sociali, ovviamente diverse, ma che in ultima analisi puntano a una
messa in discussione di massa dell’attuale sistema economico.
Tuttavia, mentre una rabbia diffusa si predispone a convergere intorno al
rifiuto della riforma delle pensioni, questa occasione è troppo ghiotta
per non coglierla come trampolino di lancio. Lo sciopero, inoltre, è
sempre l’opportunità per uno stop. Il tempo dello sciopero è spesso anche
quello di una riflessione collettiva sulle proprie condizioni di vita, sui
mondi che desideriamo. Ed è anche un momento propizio per l’elaborazione di
nuove strategie di lotta. Come farvi irruzione? Come aumentare l’intensità?
Come evitare di farsi cooptare da tutti quei politici ambiziosi? Tante domande
urgenti a cui dovremo rispondere nelle prossime settimane.
Il campo che chiede l’abolizione del capitalismo è sempre più numeroso,
soprattutto tra le giovani generazioni. Però è ancora intrappolato in una
critica astratta al mostro economico e non trova forme autonome per venire alla
luce. Di conseguenza, questo campo antagonista alla dittatura dell’economia
sulla vita appare solo in modo sordo e quasi invisibile in un rifiuto sempre
più marcato dell’ideologia del lavoro. I sintomi di questo rifiuto diffuso sono
numerosi. Lo vediamo, anno dopo anno, nelle statistiche della sofferenza sul
lavoro, nell’ansia e nella depressione che si diffondono, ma anche nel fatto
che molti di noi si adattano a un “lavoretto” solo con la prospettiva di
ottenere uno stipendio, cioè senza altra motivazione che quella della pura
sopravvivenza. In altre parole, quasi nessuno si aspetta più
emancipazione dal lavoro. Tranne, forse, chi controlla gli altri e gli rovina
la vita: la classe dei manager. Per lo più, tuttavia, loro non
ingannano più nessuno. Lo testimoniano anche tutti gli influencer che
inondano i social con i loro video di elogio dell’investimento: nell’ideologia
del capitale l’immagine di chi fa soldi investendo in borsa, in criptovalute o
nel settore immobiliario ha ormai sostituito quella dell’onesto lavoratore.
Questo rifiuto del lavoro è senza dubbio ancora massicciamente passivo e le
sue rare occasioni di apparizione pubblica sono quelle di chi “se lo può
permettere”, come gli studenti delle maggiori scuole di ingegneria che
dicono di volersi “distinguere”, o i dirigenti in crisi esistenziale che si
reinventano artigiani o neo-ruralisti. Quando partecipiamo a un
movimento come quello delle pensioni, spetta però solo a noi restituire a
questo rifiuto l’ostilità che lo configura. Pensiamo che l’irruzione
sulla piazza pubblica di questa ostilità comune alle tante diverse voci che la
sentono possa essere un modo per andare oltre il contesto sindacale e aprire
la porta a ogni tipo di nuove pratiche di riappropriazione, tanto nella lotta
come nella vita quotidiana, sia in questo movimento che in quelli degli
anni a venire.
Nota
1. Amministrazione autonoma dei trasporti parigini e Società nazionale
delle ferrovie francesi
Qui l’editoriale collettivo di Tous Dehors nella versione originale
in francese. La traduzione per Comune-info è di marco calabria
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