giovedì 27 aprile 2023

Chiamatemi Sisifo - Piero Cipriano

 

L’omicidio della psichiatra di Pisa compiuto da un ex paziente dell’Spdc (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) è per molti una clava con la quale attaccare la legge Basaglia. Era accaduto qualcosa di simile nel 2013, dopo la morte di una psichiatra in un Centro di Salite Mentale di Bari, come ricordano alcune pagine del libro Il manicomio chimico (elèuthera), tornato in queste settimane nelle librerie (con una nuova introduzione), un testo scritto da Piero Cipriano intrecciando parti saggio e parti narrative. Un libro che mostra come in realtà i manicomi non sono mai stati chiusi, semplicemente oggi ci sono quelli chimici, e che aiuta proprio in questi momenti a ricordare con coraggio prima di tutto da dove occorre ripartire: non possiamo legare le persone negli Spdc come ancora accade; non ha senso considerare malattia qualsiasi disagio psichico; non possiamo dimenticare la potenza terapeutica della libertà; non è una cura prescrivere sempre più spesso e per tutta la vita psicofarmaci. Ampi stralci del primo capitolo

 

Ore, giorni, mesi, anni, asserragliato in questa Fortezza. È triste la vita, chiusa nei fortini della cura, ad aspettare. Fuori c’è il deserto dei Tartari, silente, minaccioso, dentro colleghi rassegnati e disadattati, forse più arresi alla vita dei reclusi stessi, disadattati per una loro follia diversa, scaltra, la follia della gente normale che non si fa rinchiudere ma rinchiude, che non si fa violentare ma violenta.

Io sono un infiltrato. Quando è notte aspetto. Se non dormo, vedo film. Se non vedo film, leggo. Se non leggo, scrivo. Forse, in fondo, è questa la vita che voglio. La vita di un recluso. La vita di un Minotauro. Finché, ogni tanto, suona il cicalino. Arriva, dal deserto dei Tartari, un uomo che ha perso la testa. Un folle. Arriva trasportato da un’autoambulanza, la sirena mi avvisa ancor prima del cicalino. Ma forse, ancor prima della sirena dell’ambulanza, mi avvisa un sesto senso. Un senso d’inquietudine. E mi avvio, per il dedalo dell’ospedale, verso il pronto soccorso, lo devo sedare, lo devo obbligare, lo devo spaventare, lo devo rinchiudere nel labirinto, nella Fortezza. E lo so fare. Perché io sono un Minotauro, meno mostruoso degli altri, forse, meno carnefice della fredda, meno leguleio dello svedese, meno infame della iena, meno vigliacco dello psicanalista, meno ignavo del fatalista (gli orridi personaggi che abitano il mio inconscio, sempre ammesso che l’inconscio esista, sempre ammesso che io ce l’abbia un inconscio, le parti cattive di me che ho gettato nel mondo di fuori), ma comunque, il mio, è il mestiere del carnefice.

A proposito di questo doppio ruolo, di avere a che fare con la carta e con la carne, fa comodo a tutti avere due mestieri. Così, quando sei stufo di fare il giudice dei matti, disgustato dalla delega a controllarli che lo Stato t’impone, puoi sempre dire che in fondo lo fai per campare, che di qualcosa bisogna pur vivere, ma il mio vero mestiere è scrivere, inventare le storie, viverci dentro, io vivo là, in un altro mondo. Quando, al contrario, la scrittura non viene, la pagina non rimane bianca ma peggio che bianca, imbrattata da frasi ignobili e storie ridicole, oppure le storie ci sono ma sono tutte uguali e sembrano non interessare nessuno, allora mi torna comodo dire che in fondo questo è solo uno svago, un passatempo, c’è chi gioca a carte io scrivo, che in realtà non pubblico perché non voglio, perché sono una persona seria, curo chi ha l’anima malata, io, ho altro a cui pensare che scrivere storielle, quelle sono capaci tutti, provate a tranquillizzare un agitato, provate, provate a convincere un suicida, e vedete se non vi gela il sangue nelle vene, altro che storie.

E sgravo metafore, che meglio rendano l’idea di questo mio mestiere, che forse è perfino inutile (David Graeber ha scritto qualcosa sui mestieri inutili, a volte credo che di tutti il più inutile sia il mio): sono il tenente Drogo, con una fortezza Bastiani da presidiare, sono il Minotauro, divoro chi arriva fino a questo labirinto, sono Ismaele, stivo nel Pequod magnifici capodogli impazziti, ma soprattutto sono e sarò Sisifo finché campo, l’eroe tragico, l’eroe assurdo, il brigante, e per me non esiste un lavoro più terribile, più vano, e più disperato di questo.

L’altro ieri, per esempio. Arrivo in spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) alle venti. Esce, dalla porta chiusa del reparto, l’infermiera. Le chiedo come va, com’è la situazione là dentro. Mica c’è qualcuno legato? Sì, risponde. E chi è? Uno che è arrivato ieri sera, da quando è entrato che è legato. Vado a conoscerlo. Cinquant’anni. Voce roca, un po’ impastata, per le sigarette e per i farmaci. Dice che ieri sera ha fatto un po’ di casino, perché era troppo contento. L’hanno portato in pronto soccorso. Un infermiere l’ha trattato male, lui ha reagito, e l’hanno legato. Chi era il medico? Quella donna che c’è in turno stasera, mi fa. Ma mica sono una bestia, continua, qualunque cosa avessi fatto, e le assicuro che non ho fatto nulla di che, ma è modo questo di trattare un essere umano? Dico: ho intenzione di toglierle le fasce, ma lei mi deve aiutare. Ora chiamerò qui la dottoressa che l’ha legato, no ma quella non mi slega!, non si preoccupi, chiamerò pure gli infermieri, e le farò delle domande, davanti a loro, lei dimostri che è pronto per essere sciolto.

Cerco la collega. Mi racconta, a modo suo, dell’uomo legato. Dice è un alcoolista e un cocainomane. Dice è uno che ruba in casa e fuori casa. Dice è uno senza un lavoro fisso. Dice aggredisce i familiari. Dice fa una terapia antidepressiva ma forse ne fa troppa, e insieme con la cocaina e l’alcool deve essere andato in eccitamento. Dice ieri sera era così eccitato che si arrampicava sui muri (questa è una di quelle espressioni stereotipe che chi lega spesso adopera, per enfatizzare l’ineluttabilità delle fasce, però io non ho mai visto nessuno arrampicarsi sui muri). Dico ok, ora però vieni con me che lo andiamo a slegare. Dice non sono d’accordo, l’ho valutato appena due ore fa e straparlava, era logorroico, disorganizzato, minaccioso. Dico io invece ci ho parlato giusto due minuti fa e tutto ciò che elenchi non c’è più, quindi vieni con me a slegarlo, per favore. Convoco tutti nella stanza dell’uomo legato, dottoressa e infermieri. Formulo al paziente le assurde domande che questi operatori vogliono sentire per poter procedere allo slegamento. Si sente più tranquillo? Sì vostro onore. Accetta di prendere i farmaci che le daremo? Sì vostro onore. Accetta di proseguire il ricovero per almeno un’altra settimana? Sì vostro onore. Ebbene, dico agli altri, la decisione è presa, il paziente verrà sciolto. L’infermiere maschio abbozza. Gli va a fare la terapia, Depakin per bocca, Abilify intramuscolo nel sedere, en endovena nel braccio, tutte le vie di somministrazione le abbiamo percorse. Questo è il baratto necessario. Per togliergli le fasce dagli arti gli devi mettere i farmaci nel cervello. Da qualche parte lo devi legare. Lo sciogliamo. L’uomo legato non batte ciglio. L’infermiere si aspetta qualche reazione. Un minimo. Invece rimane in posizione clinica ancora un po’, anche se le fasce non le ha più. L’uomo con la calamita esce e l’uomo sciolto mi stringe la mano, con molta forza, e mi dice: se non c’era lei, stasera, io restavo fino a domani mattina, come minimo. Grazie, gli dico, grazie a lei, per la pazienza. Io non l’avrei avuta la sua stessa pazienza, davvero.

Oggi, per esempio. Un ragazzo di vent’anni, ricoverato da poche ore, un po’ delinquente (spaccio, uso di cannabis e cocaina, piccoli furti) e un po’ eccitato nell’umore (forse ancora per l’effetto di cocaina e cannabis), non vuole andare nel suo spdc di competenza territoriale. Gli spiego: guarda, qui abbiamo quattordici posti, e siete in diciotto. Se tu fossi il quattordicesimo ricoverato ti terrei, anche se appartieni a un altro spdc, ma siccome sei il diciottesimo, e lì hanno posto, devi essere trasferito. Lui mi dice che non ci va lì, manco morto, che lì ha già fatto due ricoveri, e ogni volta lo hanno legato, per cui se lo voglio trasferire devo passare sul suo corpo, anzi, lo devo uccidere. Dico no, guarda, non posso proprio, non puoi restare, ti do mezz’ora, preparati la borsa che faccio venire l’ambulanza per il trasferimento. Io mi giro e lui rompe un vetro con un pugno, e col pugno sanguinante mi minaccia: se mi trasferisci te la vedi con me, bastardo!

Ora, io lo comprendo perché lui non ci vuole andare in quell’altro spdc, è un spdc hard, di quelli dove, senza troppe cerimonie, prima ti legano, e poi discutono, però lui non lo sa che pure qui sta andando incontro allo stesso tipo di trattamento. Provo a spiegarglielo, a dirgli che il rischio di essere legato c’è anche qui, e che è meglio se accetta di andare perché, se rimane tranquillo, non potrà succedergli nulla, né qui né in quell’altro spdc. Ma lui niente. È irremovibile. Si spezza ma non si piega. Mentre io penso, ok, prendiamo tempo, qualcuno informa il direttore che lo psichiatra riluttante prende tempo, non decide, forse non sa che fare. Il direttore viene in reparto a parlare con me e dice: non esiste al mondo che lo tieni qua, abbiamo quattro pazienti in soprannumero e lui deve andare nel suo spdc, o con le buone o con le cattive, per cui ti do un quarto d’ora, o lo convinci oppure lo sedi, lo impacchetti e lo invii. Provo a spiegargli che non è né agitato né aggressivo, che non ci vuole andare in quel reparto perché ha paura, che lì l’hanno sempre legato nei precedenti ricoveri. E io che faccio, siccome ha paura che in quel reparto verrà legato, lo lego? Per un problema burocratico? Di competenza territoriale? Lui mi fa: ti do un quarto d’ora, se non lo fai tu lo faccio io.

Esco nel corridoio e ripenso a quel che sosteneva uno psichiatra di Napoli: l’urgenza, in psichiatria, non esiste. Non esiste l’urgenza, continuo a pensare, in questo quarto d’ora che mi ha dato. Intanto il quarto d’ora è passato e lui, con tutta la sua urgenza, tra poco verrà, e chiamerà i vigilantes, e raccoglierà tutto il personale sanitario e ausiliario per prenderlo, legarlo, sedarlo, e spedirlo. E io rimarrò a guardare. E lui, alla fine dell’urgenza, mi dirà che non sono adatto a lavorare in spdc, perché non so gestire l’urgenza. O forse perché non sono tagliato per la medicina dell’obbedienza.

E sono passati già venti minuti e penso a quel che suggerivano i fenomenologi, Edmund Husserl, che bisogna fare epoché, sospendere il giudizio, e a quel che diceva Basaglia, che bisogna mettere tra parentesi la malattia mentale, ma a volte, come adesso, mi sa che è necessario perfino sospendere l’azione, e io quello sto facendo, sto fermando l’azione, e se potessi fermerei anche il tempo. E mi ritorna in mente una cosa che ho letto mesi fa, uno dei più grandi manager degli ultimi decenni, Jack Welch della General Electric mi pare, per un’ora al giorno guardava dalla finestra. Ecco, ora lo faccio pure io, mi metto a guardare fuori dalla finestra, da questa finestra con le sbarre, così provo a fermare il tempo. E mentre guardo fuori mi ricordo di Oblomov, l’accidioso personaggio di Ivan Gončarov, e penso che ormai nessuno, e non solo tra chi fa il mio mestiere, ha più il tempo per pensare, per riflettere. Oblomov rappresenta l’ozioso, ma l’ozio permette di riflettere, e io sto riflettendo, e mi torna in mente La banalità del male, e la domanda di Hannah Arendt agli ebrei: ma perché non vi siete ribellati? Non sarebbero stati sei milioni, le vittime dell’olocausto, se i funzionari ebrei si fossero ribellati alle direttive naziste, e penso ad alcuni miei colleghi in particolare, non tutti, ma alcuni sono veramente dei burocrati, obbedienti agli ordini, tanti piccoli Adolf Eichmann che fanno il male mica perché amano fare il male, no, manco si rendono conto di fare il male, lo fanno proprio perché si attengono scrupolosamente alla legge, ai protocolli, alle regole, alle linee guida, alle direttive dei primari, a prescindere dall’eticità di queste leggi, di questi protocolli, di queste linee guida, potevate astenervi, dice la Arendt agli ebrei che hanno collaborato alla soluzione finale, potevate non partecipare, e io ora sento questo mio umore farsi sempre più socratico, e so che è proprio questo il momento giusto per disobbedire, perché è meglio subire un torto che commetterlo, è meglio che io sia in disaccordo col mondo, se il mondo ha leggi ingiuste, piuttosto che essere in disaccordo con me stesso, perché io, poi, con me stesso ci devo continuare a vivere, io, poi, torno a casa e devo guardare in faccia le mie figlie, e dunque sto continuando a riflettere invece di agire, l’urgenza del direttore, dov’è adesso l’urgenza di agire, e dove sarà adesso il direttore e a che punto sarà la sua urgenza, io intanto mi sto calmando, e magari pure il ragazzo sta riflettendo, e si sta calmando, ed è passata già mezz’ora, anzi quasi quaranta minuti, e meno male che il direttore non è ancora venuto, battagliero, risoluto, determinato ad acchiapparlo e sedarlo e legarlo e spedirlo. Sarà stato trattenuto da qualche telefonata, per fortuna, perché il ragazzo nel frattempo ha riflettuto e si è calmato, e viene da me e mi dice: va bene, se non ho alternative allora vado nell’altro spdc.

Ora sono al bar, ho stimbrato, sono di nuovo un uomo libero, senza capi, via dall’urgenza e dalle leggi assurde, sorseggio un tè con due giovani tirocinanti, una molto bella, ma con uno sguardo melanconico, l’altra più lieve, con un piercing, quest’ultima mi fa: ma solo tu lavori in questo modo? Io dico: non proprio. Siamo in pochi, questo sì. Ma… siamo una minoranza forte. Quelli come me sapete come li chiamano? Ci chiamano i basagliani. E così ne approfitto per parlare loro di Franco Basaglia.

da qui

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