Per favorire la lettura e la comprensione
di questo testo che deve, inevitabilmente, trattare questioni ostiche e usare
termini tecnici, è stata aggiunta, alla fine, una legenda. (Red.)
Non si era ancora placata la tempesta Credit Suisse, che si è
aperta un’altra voragine, protagonista il colosso del credito tedesco e
mondiale Deutsche Bank. La crisi di quest’ultima è
indubbiamente legata alle modalità con le quali è avvenuta l’incorporazione
di CS in UBS, su cui diremo qualcosa nel
corso di questo scritto.
In ogni caso, al momento, il bank run, la corsa affannosa agli
sportelli delle banche per ritirare i propri soldi prima che venga giù il
diluvio, sembra essersi placata.
Negli USA, un intervento deciso e tempestivo del Tesoro, della FED e della FIDC
(l’Ente che ha il compito di garantire i depositi bancari fino a 250.000
dollari) ha costruito un cordone sanitario attorno a SVB, Signature e First
Republic Bank, che sembra reggere.
Nel vecchio continente, la caduta rovinosa di Credit Suisse, neutralizzata
con un’operazione straordinaria dalle molte implicazioni, non ha trascinato,
per adesso, altri istituti. Le Borse hanno così ripreso fiato, recuperando in
parte quanto avevano perduto nei giorni del panico.
Tutto a posto, dunque? Hanno ragione coloro che, al di là dell’Atlantico,
vantano la tenuta delle norme “post Lehman Brothers”? E, in Europa, coloro che,
Lagarde in testa, sottolineano il controllo più stringente della vigilanza
bancaria nell’UE, la forte “resilienza” degli istituti di credito europei, la
loro solidità patrimoniale, il “modello differente di business” che li
contraddistinguerebbe da quelli USA? In altre parole, sono giustificate le dichiarazioni
ufficiali improntate allo scampato pericolo, alla capacità mostrata di
soffocare per tempo ogni contagio, a dispetto delle preoccupazioni che, qua e
là, trapelano fra coloro che non hanno responsabilità diretta nella gestione
economica?
Le condizioni del sistema finanziario internazionale
Ci sono molte ragioni per dubitarne e per ritenere che il sistema
finanziario internazionale, lungi dall’essere in buona salute, si trovi invece
in una condizione di estrema fragilità. L’equilibrio è talmente precario
che anche un evento, sulla carta relativamente modesto, come il dissesto di una
banca fino a ieri considerata “non sistemica” come SVB è in grado di innescare
una valanga di enormi proporzioni. Come hanno notato svariati addetti ai
lavori, oltre al “too big to fail” (troppo grande perché possa
fallire) si deve ora fare i conti anche con il “too small to fail” (troppo
piccolo per poter fallire).
Certamente, nel fallimento di SVB vi sono anche cause specifiche, come sempre
avviene in simili casi. Ma le ragioni di fondo che generano sistematicamente
difficoltà e crisi fino ai default sono di carattere strutturale
e globale e riguardano i livelli di indebitamento delle corporations,
finanziarie e industriali, il viluppo inestricabile fra istituti di credito e
sistema bancario ombra, la stretta interconnessione fra i diversi segmenti del
mercato capitalistico, le politiche monetarie delle Banche Centrali e così via.
Per quanto riguarda queste ultime, poi, l’alternarsi di allentamenti monetari e
strette creditizie avviene in un contesto generale che lascia inevitabilmente
immutata la pervasività del capitale speculativo, rendendo problematico, anche
nei momenti più acuti di crisi, il sostegno diretto all’accumulazione, se non
mediato da una mastodontica quanto sofisticata sovrastruttura finanziaria.
L’innalzamento dei tassi di interesse
Nell’attuale fase, fra le cause generali, il detonatore è stato l’aumento dei
tassi di interesse da parte della FED e, a ruota, della BCE, così come delle
altre Banche Centrali. Dopo quindici anni di tassi a zero o addirittura
negativi1, l’aumento dei tassi di interesse per contrastare l’inflazione ha
affossato il valore di mercato delle obbligazioni (il cui prezzo di borsa non
può che scendere, essendo la capitalizzazione di un medesimo rendimento ad un
tasso di interesse divenuto più elevato), a cominciare dai titoli di Stato di
cui SVB, come tutte le altre banche, traboccava. Tuttavia, la gran parte
dei Treasury Bonds, così come del debito pubblico detenuto
dalle banche europee, è collocato nei bilanci degli istituti alla voce “held
to maturity”. Questo significa che la banca dichiara di voler tenere i
titoli in bilancio fino alla loro scadenza naturale, quando verranno rimborsati
al loro valore nominale. In questo modo, la banca non deve contabilizzare
alcuna perdita anche se il valore di mercato dei titoli in portafoglio scende.
I coefficienti patrimoniali rimangono apparentemente solidi finché
l’innalzamento dei tassi, che aumenta il costo dei finanziamenti, e il rallentamento
dell’attività economica, spingono le aziende a ridurre il capitale monetario
parcheggiato nelle banche. Anche le accresciute necessità di denaro liquido da
parte dei privati che hanno i propri risparmi sui conto correnti premono nella
stessa direzione costringendo le banche a liquidare i capitali immobilizzati
nei titoli per far fronte ai crescenti prelievi. A questo punto, la finzione
giuridica delle obbligazioni held to maturity (tenuti fino
alla scadenza) non può che crollare e le perdite da virtuali si trasformano in
reali. E’ quello che è successo a SVB in un arco di tempo brevissimo, portando
la banca al fallimento.
Ma la condizione in cui è venuta a trovarsi SVB è una
peculiarità di quell’istituto o è lo specchio di una condizione generalizzata in
cui si trova il sistema bancario nel suo complesso?
Le condizioni del sistema bancario negli USA
Un recentissimo studio di un pool di economisti di alcune università americane,
fra cui la Columbia e la Stanford University, ha
preso in esame la situazione di ben 4800 banche, uno spaccato attendibile,
quindi, dell’intero sistema bancario USA, a partire dai problemi evidenziati
dal fallimento della SVB. Esso giunge alla seguenti conclusioni: “…Il valore di
mercato delle attività del sistema bancario statunitense è inferiore di 2
trilioni di dollari rispetto a quanto suggerito dal valore contabile delle
attività che rappresentano i portafogli di prestiti detenuti fino alla
scadenza. Le attività bancarie mark-to-market (cioè i valori
di mercato – n.n.) sono diminuite in media del 10% in tutte le
banche, con il 5° percentile inferiore che ha registrato un calo del 20%”. E
ancora: “Il 10% delle banche ha perdite non riconosciute maggiori di quelle
della SVB. Né SVB era la banca con la capitalizzazione peggiore, con il 10%
delle banche con una capitalizzazione inferiore rispetto a
SVB (s.n.)”. La lapidaria conclusione è che “…Anche se solo la
metà dei depositanti non assicurati decidesse di ritirarsi, quasi 190 banche
sono a rischio potenziale di indebolimento dei depositanti assicurati… (s.n.)”.
Lo studio, pubblicato su Social Science Research, è stato
ripreso da Il Sole 24 Ore del 21 marzo, che vi aggiunge alcuni
dati significativi, come la stima della banca d’affari JP Morgan, la
quale ritiene plausibile una fuga di depositi dalle banche USA attorno ai 550
miliardi di dollari solo nella settimana precedente (!). Un altro studio, che
elabora dati della Fdci, mettendoli in relazione all’intero comparto bancario,
calcola che i bond detenuti dagli istituti di credito formalmente “fino alla
scadenza” (allo scopo di non contabilizzarne il calo del valore di mercato)
possa ammontare a 2.000 miliardi di dollari. Anche trascurando il fatto che
circa un quarto dei depositi presso gli istituti di credito non sono assicurati,
perché eccedenti i 250.000 dollari coperti dall’assicurazione Fdci (i primi a
rischio fuga dalle banche), rimane il fatto che il semplice innalzamento dei
tassi d’interesse spinge i depositi, qualora non debbano sostenere la liquidità
del depositante, a migrare verso impieghi con remunerazioni maggiori.
Sempre il Sole 24 Ore ci ricorda che in USA un conto corrente
ha rendimento vicino allo zero, mentre un semplice titolo di Stato a 3 mesi
(quindi con un tempo di immobilizzazione del capitale molto ridotto) dà un
interesse del 4,58%.
I derivati servono davvero ad abbassare i rischi?
Dopo aver lanciato il grido d’allarme, il giornale della Confindustria si
affretta a ricordare che, per una stima reale, sarebbe necessario conoscere
quanti derivati di copertura dal rischio tassi sono stati stipulati. E’
un’affermazione che, pur segnalando il pericolo, lascia intendere che esso
potrebbe essere ridimensionato con un accorto utilizzo dei derivati. La teoria
dominante, infatti, attribuisce a questi strumenti finanziari la funzione di
“assicurazione” dai rischi legati alle variazioni imprevedibili dei più
svariati parametri economici. Essa trascura, non a caso, la natura altamente
speculativa di futures, warrant, swap e via di seguito, una
caratteristica ineliminabile di tali strumenti. Si tratta, infatti, di
contratti che vengono sempre stipulati fra due controparti, che si assoggettano
a determinati obblighi. Se per uno dei contraenti esso può coprire un rischio
reale, per la controparte esso è sempre una scommessa speculativa, che
mette capo a un credito/debito non calcolabile a priori, con un meccanismo di
leva finanziaria che è un multiplo del capitale effettivamente utilizzato
(basti pensare che ogni contratto future permette di
scommettere su un capitale nozionale sottostante pari a dieci o più volte il
denaro investito). Certamente, nel caso che stiamo analizzando (la banca che
stipula un derivato per cautelarsi dal rischio di variazioni del tasso di
interesse), le eventuali perdite non sarebbero dell’istituto di credito ma
della sua controparte. Tuttavia, la vastità del mercato dei derivati, il
carattere aleatorio dei potenziali debiti che esso genera, il rischio generale
di insolvenza, l’intreccio metastatico che si è da tempo generato fra istituti
di credito, hedge funds, mercati cosiddetti over the
counter, ecc., alimentato dai fiumi di liquidità che le Banche
Centrali di tutti i paesi hanno continuato ad iniettare nel sistema, hanno
reso ormai permanente questa massa gigantesca di capitale fittizio che si sposta
da un segmento all’altro del mercato e da un continente all’altro con la
velocità della luce e che per dimensione sovrasta di gran lunga il PIL
mondiale.
Se anche, per ipotesi, le banche fossero adeguatamente coperte dal rischio
tassi attraverso i derivati, calcolando la massa enorme dei bond detenuti, il
problema si sposterebbe solo dal default delle banche al
collasso del mercato dei derivati (per ritornare alle banche un attimo dopo…),
cioè delle società di intermediazioni mobiliare, degli istituti finanziari
specializzati nelle cartolarizzazioni, delle società-veicolo costituite dalle
banche appositamente per gestire quelle operazioni, come è successo nella crisi
del 2007-2008. Allora, l’esplosione del bubbone dei mutui subprime diede
l’avvio ad una catena di insolvenze che risalì in un batter d’occhio la
piramide debitoria costruita su una base reale inconsistente, fino a
determinare il fallimento di Lehman Brothers, la quarta banca d’affari del
mondo, portando al collasso il sistema finanziario internazionale.
In un caso o nell’altro, cambia il punto di innesco della crisi: ieri, i mutui-ninja cartolarizzati,
impacchettati nei CDO e venduti attraverso società-veicolo che
li tenevano formalmente fuori dal bilancio delle banche; oggi, l’inversione
della politica monetaria degli istituti di emissione, suscettibile di far
collassare le banche tramite la svalorizzazione del debito pubblico iscritto
nei loro bilanci. Cambia la causa occasionale, l’innesco, ma i problemi e la
dinamica rimangono gli stessi.
E ancora una volta, i “rimedi” hanno la stessa natura dei guai a cui cercano di
ovviare, finendo alla lunga per aggravarli.
1987: tornano di scena le crisi di Borsa
Grosso modo è all’inizio degli anni ’80 che comincia a manifestarsi un progressivo
sviluppo del capitale fittizio, il cui luogo di elezione sono i mercati di
Borsa di tutto il mondo, ma che presto sarebbe dilagato in tutte le sfere
dell’economia, saturandone i pori all’eccesso e diventando, in un breve arco di
tempo, qualcosa di ben diverso, dal punto di vista qualitativo, di una semplice
escrescenza parassitaria.
Il punto di partenza di questa ipertrofia finanziaria, ciò che l’ha innescata,
è la difficoltà di valorizzazione del capitale nella sfera produttiva, l’unica,
lo sottolineiamo ancora un volta, che, attraverso lo sfruttamento del lavoro
dei proletari, crea effettivamente valore ex-novo, invece di
trasferirlo da un soggetto all’altro, come avviene in Borsa e in tutte le
attività speculative.
La crescita del capitale speculativo, nelle sue molteplici forme, prende
infatti le mosse dalla crisi che investe l’economia capitalistica all’inizio
del decennio precedente, una crisi che decreta la fine dello sviluppo
straordinario dell’accumulazione seguito alla seconda guerra mondiale. Con la
crisi torna a farsi valere la sovraccumulazione di capitale, la caduta del
saggio di profitto, la scarsità di plusvalore, non in via assoluta ma in
relazione al capitale anticipato, si acutizza il disordine monetario a scala
internazionale (nell’estate del ’71, l’amministrazione Nixon dichiara
l’inconvertibilità del dollaro, mettendo così la parola fine al sistema
monetario di Bretton Woods), inflazione e stagflazione fanno la
loro comparsa in tutti i paesi imperialisti. La caduta di redditività che
affligge gli investimenti determina rilevanti mutamenti dello scenario
economico complessivo lungo due direttrici. La prima di queste è lo sforzo, che
prenderà corpo nella seconda metà degli anni ’70, di innalzare il saggio del
plusvalore; la seconda, che si avvierà successivamente, in concomitanza con
altri elementi che qui sarebbe troppo lungo richiamare, è appunto lo
spostamento di una frazione crescente del capitale dalla sfera produttiva a
quella speculativa.
Per quanto attiene a quest’ultima, il rigonfiamento delle Borse non costituisce
un mero “parcheggio” del capitale monetario inattivo, ma svolge anche una
funzione di acceleratore della centralizzazione dei capitali. L’aumento della
produttività, che pure gioca un ruolo essenziale nel risollevare il saggio di
profitto, ha però il fiato corto. Esso permette alle imprese più efficienti
capitalisticamente di realizzare un sovrapprofitto relativo rispetto ai
concorrenti meno agguerriti o più lenti ad adeguarsi, che tuttavia viene presto
neutralizzato dall’adozione generalizzata delle stesse misure. Le difficoltà,
perciò, si ripresentano puntualmente in un mercato mondiale in cui aumenta
la concorrenza e cresce la sovracapacità produttiva. E’ un quadro di
crisi che inesorabilmente si ripresenta, nonostante le
ristrutturazioni degli apparati produttivi e la crescita sia del plusvalore
relativo che di quello assoluto – aumento dei ritmi, maggiore sforzo
lavorativo, riduzione della “porosità” del tempo di lavoro: in una parola,
aumento della tensione della forza lavorativa. E nonostante che dopo il 1987
sia avvenuto un enorme ampliamento del processo di produzione di valore e
plusvalore alla scala mondiale (tema che resta qui sullo sfondo, e a cui
dedicheremo un successivo approfondimento).
La difficoltà di impiegare nello sfruttamento diretto dei proletari la totalità
del capitale e, al contempo, la necessità di procedere ad un accelerato
processo di centralizzazione finanziaria danno impulso ai mercati di Borsa. Si
registra quindi un’ascesa delle quotazioni che in breve diventa un polo
d’attrazione dei capitali dispersi di tutti gli strati sociali borghesi e
piccolo borghesi e, in parte, anche del salario differito e dei risparmi degli
strati superiori del proletariato, soprattutto attraverso lo sviluppo dei fondi
comuni di investimento. Larghe fasce di ceto medio, in particolare, vedono
nella rivitalizzazione del mercato azionario un’alternativa all’investimento
nei titoli di Stato o al mantenimento del proprio denaro sui poco remunerati
conto correnti delle banche.
I processi di fusione e/o acquisizione, la necessità di tenere aperto il
“canale di sfogo” della finanza per l’eccedenza di capitale che si è creata sul
mercato, l’attrazione per la speculazione esercitata da un mercato valutario
che, a causa della fine del sistema dei cambi fissi, offre nuove e allettanti
possibilità di “arbitraggi” per lucrare profitti sfruttando l’asimmetria delle
quotazioni delle principali monete nelle diverse aree, tutto ciò si sposa con
il progressivo superamento della distinzione fra banche commerciali (credito a
breve) e banche d’affari (investimento industriale), così come, di fatto anche
se non di diritto, fra istituti di credito e assicurazioni.
Questi processi si saldano sinergicamente, creando non una semplice “bolla
speculativa”, ma i fondamenti di un nuovo assetto finanziario del
capitalismo. Il cerchio si chiude definitivamente dopo lo spettacolare
crollo di borsa del 1987. Quando questo si verifica, la cura delle “autorità
monetarie”, attente a non ripetere gli errori del ’29 (una stretta creditizia
che acuì la crisi anziché smorzarla), inaugura una nuova fase: la concessione
di liquidità in abbondanza per impedire la propagazione dei crolli in Borsa e
“sostenere” l’economia. Da allora, la creazione di massa monetaria da parte
degli istituti di emissione, ha avuto come destinatario il mondo finanziario,
sostituendo all’inflazione dei prezzi delle merci l’inflazione degli asset, un
continuo lievitare delle quotazioni delle azioni e dei titoli trattati in
Borsa, alimentati sia dalla trasformazione in capitale fittizio di quote sempre
più rilevanti dei profitti aziendali, sia dalle continue iniezioni di liquidità
delle Banche Centrali.
Da tempo, tale processo è diventato irreversibile. Non si
tratta più della “sovraspeculazione” di cui parla Marx, che precede il crollo e
la ripresa “normale” del ciclo degli affari, ripristinando condizioni di
investimento più adeguate dopo l’eliminazione degli eccessi febbrili. E questo
per almeno due ragioni. La prima è che la crisi degli anni ’70 non è stata una
semplice recessione dopo un periodo di espansione, bensì l’esaurimento
della più lunga fase di sviluppo della storia capitalistica, la fine
di un’onda lunga dell’economia. La seconda, forse più rilevante, è che il
successivo sviluppo del capitale speculativo ha trovato come sua propria
base un assetto capitalistico già da tempo profondamente trasformato
dall’intervento dello Stato nell’economia, dalla creazione di moneta
fiduciaria, dalla sistematica “gestione dell’economia” attraverso la spesa in
deficit, in altre parole da tutta l’eredità della crisi del ’29 e degli eventi
successivi.
Analogamente a quanto avvenuto agli inizi del novecento, quando la
concentrazione e la centralizzazione del capitale, la nascita dei monopoli e
l’espansione coloniale diedero vita al capitale finanziario come fusione del
capitale industriale e di quello bancario, che divenne parte costitutiva del
modo di produzione capitalistico, così la finanziarizzazione dell’economia, che
prende le mosse negli anni ’80, da semplice fenomeno ciclico com’era
nel passato, diventa presto irreversibile.
Ad ogni nuova crisi, si alzano strepiti sul fatto che il “denaro facile”
fatalmente stimola il moral hazard (espressione che, nel
linguaggio felpato di economisti e agenti del capitale, indica le avventure
degli squali dell’alta finanza, attratti dal rischio-zero) e un attimo dopo si
interviene aumentando la massa di liquidità che viene trasferita al capitale
speculativo per puntellare il sistema. Si tratta di un circolo vizioso
che non può più essere spezzato senza svalorizzare una massa di capitale
gigantesca, uno shock a cui il sistema economico nel suo insieme non
potrebbe reggere, se non aprendo le porte a sconquassi di tale portata da
mettere in dubbio la tenuta non solo dell’economia ma dell’intero modo di
produzione capitalistico.
La spirale capitalistica e i limiti storici del modo di produzione borghese
Ad ogni crisi, il baratro che si spalanca di fronte al capitale è il
medesimo. Gli strumenti finanziari per intervenire, gestiti da governi
e Banche Centrali, vengono potenziati, messi in campo con sempre maggiore
tempestività e protratti sempre più a lungo. Per circoscrivere la crisi del
2007-2008 (nata anch’essa “in sordina”, come un piccolo problema di mutui
immobiliari di scarsa qualità), gli istituti di emissione di tutti gli Stati e
le aree economiche che contano hanno dovuto inaugurare una stagione di
creazione di moneta di proporzioni gigantesche e di tassi d’interesse negativi,
avventurandosi in terreni di intervento fino a quel momento sconosciuti. E tale
politica non è stata un intervento di emergenza, di qualche settimana, ma è
durata un quindicennio, vale a dire metà dei “gloriosi trent’anni” di
iper-sviluppo dell’accumulazione di capitale che avevano seguito la fine della
seconda guerra mondiale e che il modo di produzione capitalistico non ha più
conosciuto.
Quale dimostrazione migliore che l’esistenza del capitalismo non è solo e tanto
un ripetersi sempre uguale a sé stesso di cicli di espansione e contrazione
della produzione e degli affari, ma invece un potente movimento a spirale che
ad ogni recessione e ad ogni ripresa dell’accumulazione di profitti
(accumulazione che è proseguita, pur se in modi e quantità diverse nelle varie
aree del pianeta) ripresenta, su un piano qualitativamente più alto e
complesso, la crisi come manifestazione del carattere storicamente
superato del modo di produzione capitalistico? Si tratta, in fondo,
dell’inverarsi del giudizio marxiano secondo cui la borghesia supera le crisi
con strumenti che preparano crisi ancora maggiori e riducono, al tempo stesso,
le possibilità di continuare a prevenirle.
Ancora su SVB e Credit Suisse
Anche nei dettagli dell’intervento per sterilizzare la crisi di SVB e
di Credit Suisse vi sono provvedimenti che, necessari
nell’immediato per evitare il peggio, aprono tuttavia scenari ancor più
contraddittori per la tenuta del sistema finanziario. Un primo elemento è la
decisione del governo USA di salvaguardare tutti i depositi
SVB, compresi quelli superiori ai 250.000 dollari. Questa decisione è dettata
dalla volontà esplicita di proteggere imprese high tech e
società di venture capital che in quella banca avevano
consistenti depositi. Allo stesso tempo, l’amministrazione Biden ha affermato che
questa decisione era da considerare un’eccezione non replicabile ma poi, nel
timore di altre fughe di depositi “importanti”, è stata costretta a rimangiarsi
le sue affermazioni, non escludendo che anche in altri casi questa potrebbe
essere la linea d’intervento del governo. Che ciò rappresenti potenzialmente un
ulteriore fattore di incertezza e fragilità è difficile negarlo. Quanto a Credit
Suisse, invece, il carattere eterodosso dell’intervento che ha portato
al suo assorbimento in UBS è rappresentato dall’azzeramento
delle obbligazioni subordinate denominate Additional Tier 1 (At1),
per un controvalore di 16,3 miliardi di franchi (circa 17 miliardi di euro). A
sollevare interrogativi (e probabili cause legali) non è la cancellazione di
queste obbligazioni (evento previsto dalle condizioni di collocazione di questi
titoli), ma il fatto che si siano salvaguardati, almeno in parte, gli
azionisti, sovvertendo del tutto le modalità di intervento in caso di
insolvenza. Come se non bastasse, l’incorporazione in UBS è avvenuta senza
alcuna delibera dell’assemblea degli azionisti. Dietro tali risvolti,
ovviamente, si intravvede una lotta particolarmente feroce fra la Saudi
National Bank e il Fondo del Qatar (che avevano rifiutato la
ricapitalizzazione, aggravando la crisi dell’istituto), da una parte, e gli
interessi costituiti in UBS dall’altra. Con l’attiva mediazione dell’autorità
svizzera, l’accordo è stato trovato a spese degli obbligazionisti. Ovviamente,
se questi fossero solo piccoli “risparmiatori” (categoria per altro piuttosto
vaga), il provvedimento sarebbe solo un aspetto della periodica espropriazione
dei piccoli capitali monetari ad opera del grande capitale. Il fatto è che
anche importantissime società finanziarie possedevano bond At1, una per tutti BlackRock, il
più grande fondo d’investimento del mondo, con sede negli USA. Ed è difficile
non leggere la decisione di UBS, che aveva ovviamente un
insuperabile potere contrattuale nella trattativa, di trovare un accordo con la
finanza saudita a scapito di quella americana. Ma, al di là delle alleanze e
degli scontri, la decisione di modificare così radicalmente il modus
operandi in caso di fallimenti o insolvenze, getta potenzialmente nel
caos un mercato di quasi 300 miliardi di euro, quello appunto delle
obbligazioni subordinate. Non a caso, la successiva crisi Deutsche Bank si
collega a questo aspetto, dal momento che, a dispetto di tutte le assicurazioni
di Lagarde, la decisione di due banche minori tedesche di non rimborsare le
loro obbligazioni subordinate (trasformandole in perpetue) è stato interpretato
come il segnale che anche nell’UE tali manovre erano possibili. La speculazione
sui CDS su Deutsche Bank e, paradossalmente, la decisione del colosso tedesco
di rimborsare anticipatamente una tranche di obbligazioni
subordinate ha fatto il resto, rafforzando i timori e facendo crollare in
titolo in Borsa.
La “regolazione” dell’economia e della speculazione
La vicenda Deutsche Bank, tra l’altro, ci riporta alla
questione dei CDS (Credit Default Swap), anch’essi considerati strumenti
di “protezione dal rischio”, in questo caso il rischio di fallimento. Ma, come
abbiamo già detto, serve a poco invocare, come ha fatto il Corriere
della Sera, che la facoltà di sottoscriverli sia data solo a chi già
possiede azioni del titolo dal cui fallimento ci si vuole cautelare, il tutto
al fine di evitare “speculazioni”. Resta il fatto che chi teme per il proprio
investimento e sottoscrive un CDS lo fa con una controparte
che intende speculare e, in caso di default, non c’è alcuna
garanzia che essa sia solvente. Non a caso, nella crisi del 2007-2008 le
insolvenze di possessori di CDS ebbero un ruolo importante nell’amplificare il
disastro. La “regolamentazione” dei mercati OTC dei derivati, l’introduzione di
regole per controllare la solvibilità dei soggetti coinvolti, ecc. non sono
altro che palliativi che non possono aggredire alla radice il problema: la
massa enorme di capitale fittizio, di titoli di ogni genere che accampa il
diritto alla propria remunerazione in un modo o nell’altro, che è parte
costitutiva dei circuiti finanziari internazionali a cui è
inestricabilmente connessa la massa del capitale “produttivo”, quello
che sfrutta direttamente i proletari e accresce con ciò il capitale
reale che alimenta a sua volta l’enorme sovrastruttura finanziaria che guida il
capitalismo contemporaneo.
La crisi bancaria di queste settimane, che sia bloccata sul nascere o vada
avanti, pone dunque interrogativi che vanno alla radice di questo sistema
sociale sempre più parassitario e foriero di disastri per l’intera umanità.
Letture della crisi e azione di classe
Vi è chi, nella situazione attuale, vede ancora una volta la mancanza di
un’adeguata e sufficiente pianificazione della politica economica, degli
strumenti finanziari (derivati, vigilanza bancaria, ecc.), delle “scelte” delle
autorità e così via. Tali posizioni non sono solo appannaggio delle forze
dichiaratamente capitalistiche, rappresentate in Parlamento da entrambi gli
schieramenti borghesi, di sinistra come di destra. Sono ampiamente presenti
anche dentro “i movimenti”, rivestite coi panni del radicalismo, della critica
al “neo-liberismo” e rimpiangono tutte, in modo più o meno mascherato, il bel
tempo che fu, quando un “movimento operaio” del tutto interno alle dinamiche
del capitale aveva però margini per rivendicare, nelle pieghe del progresso
dell’accumulazione, qualche briciola per gli sfruttati. In Italia, il
togliattismo e la fine ingloriosa del PCI hanno lasciato molti orfani che si
ripropongono anch’essi di raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla
borghesia, magari pretendendo di insegnare alle classi dominanti a “fare
veramente” il loro mestiere.
Per costoro, il “keynesismo”, l’intervento dello Stato nell’economia, con una
pretesa funzione “regolatrice”, resta l’orizzonte strategico irrinunciabile in
cui inserire la propria politica. Lo Stato (borghese, no?) come perno di ogni
azione “riformatrice” (anche se opportunamente dipinta con i colori della
“rivolta”), lo Stato (borghese) come soggetto al di sopra delle classi che, a
determinate condizioni, potrebbe diventare “lo Stato di tutti”, ritornando alla
sua funzione dispensatrice di progresso sociale – ecco la ricetta di base. Si
tratti di vantare le doti “rivoluzionarie” dello sfondamento del deficit
imposto dall’Europa, o l’uscita dall’euro e la riconquista della “nostra”
sovranità monetaria, di contrapporre come strumento contro l’inflazione la
regolazione dei prezzi delle merci anziché l’aumento dei tassi di interesse,
tutto è ridotto ad un problema di “scelta” fra modelli capitalistici
differenti.
In questa prospettiva, spariscono le leggi di funzionamento del modo di
produzione capitalistico che, nei loro tratti fondamentali, sono invece immodificabili, e
si sostituisce la critica dell’economia politica con una modellistica la quale
ha oggettivamente il solo scopo di ricondurre le spinte alla lotta e alla
rivolta nell’alveo di un’azione istituzionale per riformare il sistema.
All’altro capo, troviamo coloro che leggono la crisi in modo oggettivistico,
come la registrazione del progressivo disfacimento del capitalismo, della sua
economia, delle sue istituzioni, senza scorgere il lato soggettivo di
questo processo, la dislocazione dell’azione, obbligata, delle classi
sociali e la necessità per il proletariato e le masse sfruttate di costruire
uno schieramento capace di opporsi alle classi dominanti e alla loro azione
volta a subordinare completamente i proletari alle esigenze di salvaguardia del
sistema stesso per lo scopo, per loro supremo, di prolungare, costi quel che
costi, la sopravvivenza del capitalismo.
Abbiamo detto poco prima che la dinamica dell’economia capitalistica non è un
susseguirsi di fasi di boom e recessione sempre uguale a se stesso, bensì un
processo che ha una sua storia e che ad ogni giro di boa avvicina il modo di
produzione capitalistico ai suoi limiti storici. Questo implica una
lettura delle crisi e del loro temporaneo superamento non solo come un processo
che ripristina le condizioni della profittabilità capitalistica, ma anche come
una ridefinizione degli assetti economici volta ad eliminare quegli elementi di
“organizzazione” dell’economia del capitale che non sono più tollerabili o
funzionali.
Così, dopo la prima grossa crisi in Borsa del 1987, ha preso forma ed accelerazione
quel processo di deregulation che l’ha fatta da protagonista
in tutta la fase successiva. Rientra in questa dinamica, ad esempio,
l’ingigantimento del capitale speculativo e del mercato dei derivati o il
progressivo superamento della distinzione fra banche commerciali e banche
d’investimento, sancito negli Stati Uniti dall’abolizione del Glass-Steagall
Act del 1933 e, più in generale, il superamento di tutti gli argini che
contribuirono, nel passato, ad impedire che una crisi scoppiata in un punto del
sistema potesse dilagare liberamente nell’insieme dell’economia.
L’ideologia “neo-liberista”, che giustifica tali decisioni come frutto della
volontà di non porre limiti al movimento dei capitali, alla loro possibilità di
espandersi a piacimento in tutti i campi, attribuendo a tale libertà il potere
taumaturgico di assicurare il benessere collettivo, non fa che tradurre in
chiave soggettiva l’esigenza delle classi dominanti di contrastare la crisi
della valorizzazione, il calo dei profitti in relazione al capitale già
operante, aumentandone il raggio d’azione e assecondando la tendenza a
mantenerne quote crescenti nel campo del “capitale da interesse”, nelle forme
ultrasofisticate e sempre mutevoli che l’esperienza degli ultimi decenni ci ha
fatto conoscere.
La continua immissione di liquidità da parte delle Banche Centrali si rapporta
a questa esigenza e, al contempo, fotografa l’impossibilità del modo di
produzione capitalistico di trovare una strada di uscita, che permetta una
nuova fase di sviluppo complessivo del capitalismo. Non si tratta affatto di
vedere un’economia in crisi continua e sempre “ad un passo dal crollo”, ma di
riconoscere che la ripresa ciclica dell’accumulazione e dei profitti non è più
in grado da tempo di rilanciare il sistema capitalistico nel suo complesso.
L’accumulazione infatti non è un processo “autonomo”, che ha che fare
incidentalmente e in modo marginale con la finanza e i processi speculativi che
in essa avvengono, ma è intrecciata ad essa in modo indissolubile. D’altra parte,
ad un secolo dall’entrata del capitalismo nella fase imperialistica, la
“nascita” del capitale finanziario sotto forma di fusione del capitale
industriale e del capitale bancario non poteva non aver fatto passi da
gigante in avanti.
La traiettoria del capitale finanziario
Se già nel novecento l’esportazione di capitale prevaleva su quella delle merci
e le banche e le società per azioni avevano acquisito un’importanza
fondamentale nella vita economica, è del tutto normale che, a cent’anni di
distanza, il predominio della sfera finanziaria e “speculativa” sia cresciuto
al massimo livello. Ma il sistema capitalistico non può emanciparsi
dalla produzione di merci e dallo sfruttamento del lavoro perché solo da lì
ricava nuovo plusvalore, solo consumando la forza-lavoro di miliardi
di proletari, spremendo fino alla morte le masse povere delle aree periferiche
e rapinandone in ogni modo le risorse naturali per “metterle a valore” il
capitale può sperare di proseguire la sua corsa per creare profitto. Lo
sfruttamento del lavoro salariato rimane il fondamento della valorizzazione
capitalistica (beninteso: anche negli stessi paesi imperialisti da più di un
secolo), ma il modo di produzione assegna da tempo alla sovrastruttura
finanziaria il predominio e la governance complessiva del
sistema.
Anche da questo angolo di visuale, quindi, il capitalismo si conferma come la
contraddizione in processo: da un lato è costretto a spingere sempre
più a fondo lo sfruttamento dei lavoratori, dall’altro questa discesa agli inferi
della condizione proletaria periodicamente viene vanificata da crisi sempre più
“sistemiche”. La crescita del plusvalore relativo e assoluto, la risalita della
profittabilità appaiono sempre più come fenomeni temporanei, e sempre più
carichi di violenza, capaci di rianimare l’accumulazione fra uno sconquasso e
l’altro. Volendo rappresentare la dinamica capitalistica su un piano
cartesiano, essa può essere disegnata come una sinusoide costituita dagli alti
e bassi del ciclo degli affari, che tuttavia poggia su un piano
inclinato verso il basso.
Lavorare nella classe per la rivoluzione anticapitalistica
Per questo, quanto più il sistema capitalistico si dimostra incapace di
invertire la propria tendenza di fondo, con tanta maggiore durezza cresce il
suo attacco alle condizioni dei lavoratori. Dalla fine degli anni ’70, questa è
stata la regola generale, in specie nei paesi storicamente centrali nel
processo dell’accumulazione di capitale, e non vi è stata “riforma”,
provvedimento di legge, politica monetaria, intervento sul mercato del lavoro,
ecc. che non sia andata nella direzione dello smantellamento progressivo di
ogni “garanzia” e “diritto” dei proletari.
Proprio perché le crisi dell’economia capitalistica riproducono le
contraddizioni del sistema ad un livello progressivamente più alto, esse
tendono a spostarsi dal terreno economico a quello politico e militare, dalla
concorrenza commerciale allo scontro fra Stati e alla guerra tout-court. E
proprio per questo è del tutto disfattista ogni ipotesi che faccia perno su un
crollo spontaneo del sistema, una lettura anch’essa presente nel milieu rivoluzionario,
anzi spesso diffusa proprio fra coloro che sono più avvertiti delle
contraddizioni profonde in cui si dibatte il sistema capitalistico.
Al contrario, non esistono strade senza uscite per le classi dominanti. Più
cresce il caos economico, lo scontro sui mercati internazionali, il disordine
finanziario, la ri-costruzione di barriere doganali e di interdizioni
reciproche agli investimenti e alla presenza economica nelle rispettive sfere
d’influenza, più tutto ciò si accompagna ad una crescita furiosa del
nazionalismo, degli sforzi della borghesia per attizzare i contrasti interni
alle classi sfruttate e additare nell’unione sacra contro il nemico esterno l’unica
strada che i proletari avrebbero a disposizione per difendere la loro stessa
possibilità di esistenza.
Il capitalismo non crollerà mai da solo, nonostante le contraddizioni
insanabili di cui è preda. E la rivoluzione per mettere fine a questo sistema
sociale infame non sarà un semplice colpo di grazia assestato ad un malato
terminale, bensì un processo lungo e complesso che può iniziare solo mettendo
al centro l’attività dei settori d’avanguardia della classe per arrivare a
coinvolgerne gli strati più ampi – un’azione che parte oggi dalla capacità di
promuovere e legare le lotte di resistenza dei lavoratori contro gli attacchi
delle classi dominanti, il carovita, l’economia di guerra, alla prospettiva del
disfattismo politico contro i governi della borghesia e la loro azione in campo
interno e internazionale, fino a porre la questione del loro rovesciamento e di
una completa trasformazione dei rapporti sociali di produzione e riproduzione
della vita della specie. In sintesi: la borghesia serra le fila in vista di
nuovi sconquassi, i rivoluzionari facciano altrettanto!
1 Ricordiamo che, durante la pandemia, il tasso d’interesse applicato dalla BCE
ai rifinanziamenti delle banche ordinarie tramite TLTRO – destinati ad aziende
non finanziarie e famiglie, con l’esclusione dei mutui immobiliari – passò da
zero a -0,75%
Legenda
Additional Tier 1 – Si tratta di obbligazioni
particolari, che rendono di più ma sono assai più rischiose, perché, più delle
obbligazioni ordinarie, soggette a possibile svalutazione parziale o totale in
caso di difficoltà e/o fallimento della banca che le ha emesse. Rientrano nel
campo delle cosiddette “obbligazioni subordinate”.
Arbitraggi – Si chiamano così quelle operazioni che sfruttano
differenze fra le quotazioni di un bene o di un’attività finanziaria su mercati
diversi. Ad es., in un certo momento l’euro è quotato sul dollaro in modo
diverso sui mercati europei rispetto a quelli asiatici. Questo permette di
lucrare un profitto con un “arbitraggio”, comprando una delle due valute dove è
meno cara per venderla subito dopo nel mercato in cui è quotata ad un livello
superiore.
Capitale fittizio – E’ un capitale che non corrisponde ad una somma
di denaro realmente investita e operante, ma la cui entità si ricava
indirettamente attraverso la “capitalizzazione”, un’operazione con la quale,
essendo noto un determinato profitto (vero o ipotizzato) e conoscendo il tasso
di interesse vigente al momento, si risale al capitale teorico (“fittizio”,
appunto) che lo potrebbe produrre. Se un titolo (ad es. l’azione di una società
industriale) si pensa possa fornire un certo dividendo, conoscendo il tasso di
interesse è possibile ricavare, con un semplice calcolo, il prezzo di
quell’azione, cioè la sua quotazione in Borsa, il prezzo attorno al quale
oscillerà il suo prezzo di vendita. Tale prezzo è quindi del tutto distinto dal
valore nominale della medesima azione, che esprime invece il capitale
originariamente investito nell’impresa (in macchinari, materie prime, salari,
ecc.) diviso per il numero di azioni emesse.
Coefficienti patrimoniali – Sono indicatori che calcolano il
rapporto fra le varie voci del bilancio di una banca (ad es., il rapporto fra
il capitale proprio della banca e i suoi impieghi, cioè i prestiti concessi
alla clientela). Servono a verificare la solidità di un istituto di credito,
cioè la sua solvibilità, la capacità di far fronte ad esigenze anche impreviste
(aumento dei prelievi da parte dei correntisti, emergere di crediti che non
possono essere riscossi, ecc.).
Derivati – Si chiamano così tutti i titoli il cui prezzo è
stabilito con riferimento ad un cosiddetto “sottostante”, che a sua volta può
essere un titolo (ad es., un’azione o un’obbligazione), un bene fisico
(petrolio, grano, ecc.) oppure un parametro economico (un tasso di interesse,
il rapporto di cambio fra due monete, ecc.). Futures, warrant, swap, ecc. sono
tutti derivati, con diversi meccanismi di funzionamento, ma tutti rischiosi e
speculativi. Come si dice nel testo, una somma di denaro di grandezza “x”
investita in futures, opzioni, ecc. permette ad esempio di speculare sulle
oscillazioni di prezzo di una massa di azioni il cui ammontare possiede un
controvalore di 10 o 15 volte il capitale investito. Quindi, oscillazioni anche
modeste dei titoli oggetto del contratto, produrranno effetti amplificati in
rapporto al capitale investito.
Fondi comuni di investimento – Società che investono in Borsa
(obbligazioni e/o azioni) raccogliendo il denaro da un ampio numero di
sottoscrittori, i quali comprano “quote” del Fondo il cui valore cresce
sommando al capitale raccolto gli utili realizzati.
Hedge Funds – Fondi di investimento specializzati nelle operazioni più
rischiosa (derivati, ecc.).
Mercati OTC (Over the counter) – Costituiscono il cosiddetto
sistema bancario-ombra, formalmente esterno a quello ufficiale e quasi del
tutto privo di “regolazione”.
Moneta fiduciaria – La moneta emessa dalle Banche Centrali a corso
forzoso (obbligo di utilizzo e accettazione da parte di tutti i soggetti
economici operanti nello Stato), non “convertibile”, cioè senza diritto ad
ottenere un quantitativo prefissato di oro. Fino alla dichiarazione di
inconvertibilità del dollaro (in realtà già da un po’ prima), chi possedeva
dollari aveva diritto ad ottenere, dietro richiesta, un quantitativo di oro
prefissato, pari ad un’oncia ogni 35 dollari.
Held to maturity – Letteralmente, “tenuti fino alla scadenza”.
Mercato obbligazionario – E’ una parte del mercato di Borsa, quella
che tratta appunto l’acquisto e la vendita delle obbligazioni (“bond”), cioè
dei prestiti che uno Stato o una società privata chiede agli investitori. Il
prezzo delle obbligazioni sul mercato si muove in modo inversamente
proporzionale al tasso di interesse. Se il tasso di interesse generale
raddoppia, il prezzo delle obbligazioni, a parità di altre condizioni, si
dimezza. Se ad es. si sottoscrive un BOT o un BTP, si sa già che alla scadenza
esso verrà rimborsato al valore nominale (il prezzo pagato al momento della
sottoscrizione), più una somma a titolo di interesse. Il rapporto fra queste
due grandezze (interesse/capitale investito) determina il tasso di interesse
che frutta quel titolo. Ma se il possessore del titolo deve venderlo in Borsa
prima della scadenza (perché ha necessità di rientrare in possesso del denaro
liquido) e, nel frattempo, il tasso di interesse corrente è raddoppiato, chi
compra quel titolo lo pagherà ad un prezzo più basso del valore nominale,
stante un tasso di interesse raddoppiato, un capitale dimezzato rispetto
all’originale sarà sufficiente a fornire l’ammontare di denaro che lo Stato
pagherà come interesse alla scadenza. Es. pratico: BOT di 1000 €, tasso di
interesse 5%, interesse corrisposto alla scadenza 50 €. Se il tasso corrente di
interesse sale dal 5% al 10%, 50 € saranno il 10% di 500 € e non più di 1000.
Nessuno pagherebbe 1000 € per un titolo che ne frutterà 50 se, per avere quel
guadagno, ora basta investire 500 €.
Società-veicolo – Società finanziarie costituite dalle banche, ma
“autonome”, che si incaricano di specifiche operazioni. Nella crisi del
2007-2008, ad esempio, erano balzate agli onori della cronaca per aver
confezionato particolari titoli denominati CDO (collateralized debt
obligations), che poi avevano venduto sul mercato spacciandoli per titoli
sicuri in quanto “collateralizzati” (cioè garantiti) dai mutui immobiliari, a
loro volta ad alto rischio insolvenza.
Stagflazione – Compresenza di inflazione (aumento dei prezzi) e
stagnazione (rallentamento e crisi dell’economia).
Stretta creditizia – Situazione determinata dall’aumento del tasso
di interesse da parte delle Banche Centrali. Salendo il tasso di interesse, chi
chiede soldi in prestito sopporta un costo maggiore perché deve pagare
interessi più elevati. Questa circostanza fa diminuire la richiesta di capitale
a prestito e ha quindi l’effetto di rallentare l’attività economica.
TLTRO – La sigla sta per “Targeted longer-term refinancing
operations”, cioè operazioni “mirate” di rifinanziamento. Si tratta
dei finanziamenti che la BCE mette a disposizione delle banche ordinarie
affinché li prendano in prestito e li usino per finanziare la cosiddetta
“economia reale” (le imprese e i privati). Si chiamano “targeted” cioè “mirate”
perché escludono esplicitamente società finanziarie e privati che intendono
contrarre un mutuo immobiliare. Un interesse negativo (come si ricorda nel
testo) significa che le Banche che li utilizzavano non solo non pagavano
interessi, ma addirittura ricevevano un premio.
Treasury Bonds – Titoli di Stato emessi dal governo degli Stati Uniti.
Venture Capital – Capitale specializzato nel finanziamento di
attività industriali con prospettive di sviluppo potenzialmente elevate ma
incerte (rischio fallimento).
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