mercoledì 5 aprile 2023

Il governo multa chi abusa dell’inglese ma vuole il liceo Made in Italy: una risata li seppellirà - Alessio Mannino

 

L’ultima della destra al governo è multare chi nella pubblica amministrazione usa troppe parole in inglese. Intento condivisibile, visto che la colonizzazione anglofila della lingua italiana è giunta ormai a livelli grotteschi. Ma il linguaggio non si impone per legge. Specialmente se contemporaneamente gli stessi propongono di chiamare “Made in Italy” un liceo a scuola, teorico presidio dell’italiano. Tentativi tardo-fascistoidi? Almeno quando c’era Lui, certe crociate avevano come unico pregio la coerenza.

Narra la leggenda che a un comizio di Charles De Gaulle, l’eroe della resistenza anti-nazista francese e presidente dal patriottismo di origine controllata, un isolato contestatore gli abbia urlato contro “Mort aux cons!”, tradotto un po’ pudicamente in italiano con “morte ai cretini!”. Lui, impassibile, avrebbe risposto: “Vaste programme”. Ecco, la battaglia in difesa dell’italiano promossa da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, con multe da 5 a 100 mila euro per abusa di anglicismi nella pubblica amministrazione, equivale a muovere guerra agli imbecilli: vasto, vastissimo programma. Perché se il problema è anche fin troppo reale, la soluzione è anche più ridicola. Beninteso: che l’andazzo di sostituire parole italiane che non avrebbero bisogno di traduzione con termini presi dall’inglese (come spending review per revisione di spesa, stakeholders per portatori d’interesse, governance per amministrazione, solo per restare al burocratese) sia da ascrivere alla sterminata tribù degli imbecilli, non c’è dubbio. Ma l’imbecillità non si corregge per legge. È un fluido, un blob contrastabile solo dal basso. Pretendere di farlo dall’alto è, a sua volta, da cons, per dirla in francese. Perché, oltre a far parte dell’umana natura, nel caso di specie, che chiameremo di sudditanza anglofila, la cretineria ha anche la sua brava spiegazione storica.

Il linguaggio è infatti determinato dall’uso, e di conseguenza dai rapporti di forza fra le lingue rispecchiati nella quotidianità. Ora, il mondo globalizzato è dominato dalla cultura e dall’immaginario anglosassone, e perciò l’inglese si infiltra ovunque, dagli oggetti di consumo (cash per contante, badge per tesserino) al parlato corrente (feedback per opinione, food per cibo, coming out per confessione) fino al territorio verbalmente più devastato di tutti dall’anglo-pestilenza, l’aziendalese (briefing, know how, brand, standing, planning, mission, e ci fermiamo qui, tenendoci la pancia dal ridere, o dai conati di vomito). Voler interrompere per decreto una tendenza, deprecabile senz’altro, con l’arma spuntata dell’imposizione ricorda vagamente quei goffi tentativi di italianizzare i forestierismi da parte del fascismo d’antan, che prescriveva di tradurre con “bevanda arlecchina” il cocktail o con “guidoslitta” il bob.

A quei tempi l’invasione straniera della lingua era a malapena agli inizi, oggi è realtà comune. Ma il Duce e il suo fanatico raddrizzatore di costumi, il segretario del partito Achille Starace, prolifico ideatore di trovate come il voi al posto del lei, “cretino obbediente” scaricato e abbandonato che ebbe però il buongusto di morire da uomo, senza tradire all’ultimo secondo, avevano almeno come unico pregio una certa coerenza: odiavano in tutto e per tutto, sotto sotto invidiandola, la “perfida Albione”, e sovranamente disprezzavano quei decadenti di Americani, di cui per la verità avevano un’imprecisa conoscenza. Ora invece cosa abbiamo? Il partito egemone della destra italiana, Fratelli d’Italia, che mentre fa partire la crociata contro gli anglicismi, nel suo programma prevede di chiamare “liceo del Made in Italy” non si capisce bene cosa, se l’istituto tecnico agrario, come parrebbe dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni al Vinitaly (ops), o il liceo delle scienze umane, come da formale proposta di legge in cui, al posto delle materie economiche, si legge “Gestione delle imprese del made in Italy”, “Modelli di business nelle industrie della moda dell’arte e dell’alimentare”, “made in Italy e mercati internazionali”. La scuola non fa più parte della pubblica amministrazione? E, soprattutto, non dovrebbe costituire il presidio minimo della lingua madre?

Sì sappiamo perché, nello specifico, l’espressione “Made in Italy” risulta quasi obbligata: perché suona meglio all’orecchio inglesizzato dei potenziali studenti, e questo perché suona moderno, attraente, cool (ahia). E perché l’economia, essendo globale, parla quell’english for dummies a cui anche un qualunque ignorantissimo capo di associazione di categoria ricorre, sguazzandoci perché non sa più parlare in italiano. Ma in questa sussiegosa serietà di chi sa sta stare al mondo, di chi la sa lunga, di chi giustifica tutto e il suo contrario perché così è e così va, almeno lasciateci sghignazzare. Rampelli sostiene che altro non ha fatto, lui, che imitare le nazioni europee di più solida tradizione patriottica, come Francia e Spagna che hanno leggi simili, e che quindi ci sia poco da ridicolizzare. Ma non risulta che poi quei nazionalistoni di francesi e spagnoli siano così appecoronati ad americani e inglesi in tutto il resto, come sono i difensori della Patria nostrani. Dalla guerra in Ucraina giù fino agli inconcepibili licei “Made in France” o “Made in Spain”. Anzi, se c’è qualcosa che dovremmo imparare dai fratelli francesi o spagnoli, che ci siano antipatici o simpatici, è la loro capacità di dire no quando c’è da dire no alla prepotenza della premiata coppia anglo-americana. Abbiamo detto capacità, non skill. Era meglio Starace.


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