L’ultima della destra al
governo è multare chi nella pubblica amministrazione usa troppe parole in
inglese. Intento condivisibile, visto che la colonizzazione anglofila della
lingua italiana è giunta ormai a livelli grotteschi. Ma il linguaggio non si impone
per legge. Specialmente se contemporaneamente gli stessi propongono di chiamare
“Made in Italy” un liceo a scuola, teorico presidio dell’italiano. Tentativi
tardo-fascistoidi? Almeno quando c’era Lui, certe crociate avevano come unico
pregio la coerenza.
Narra la leggenda che a
un comizio di Charles De Gaulle, l’eroe
della resistenza anti-nazista francese e presidente dal patriottismo di origine
controllata, un isolato contestatore gli abbia urlato contro “Mort aux cons!”, tradotto un po’
pudicamente in italiano con “morte ai cretini!”. Lui, impassibile, avrebbe
risposto: “Vaste programme”.
Ecco, la battaglia in difesa dell’italiano promossa da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, con multe da 5 a
100 mila euro per abusa di anglicismi nella pubblica amministrazione, equivale
a muovere guerra agli imbecilli:
vasto, vastissimo programma. Perché se il problema è anche fin troppo reale, la
soluzione è anche più ridicola. Beninteso: che l’andazzo di sostituire parole
italiane che non avrebbero bisogno
di traduzione con termini presi dall’inglese (come spending
review per revisione di spesa, stakeholders per
portatori d’interesse, governance per amministrazione, solo
per restare al burocratese) sia da ascrivere alla sterminata tribù degli imbecilli, non c’è dubbio. Ma
l’imbecillità non si corregge per legge. È un fluido, un blob contrastabile solo dal basso. Pretendere
di farlo dall’alto è, a sua volta, da cons, per dirla in francese.
Perché, oltre a far parte dell’umana natura, nel caso di specie, che chiameremo
di sudditanza anglofila, la cretineria ha anche la sua brava spiegazione storica.
Il linguaggio è infatti determinato dall’uso, e di conseguenza dai rapporti di forza fra le lingue rispecchiati
nella quotidianità. Ora, il mondo globalizzato è dominato dalla cultura e dall’immaginario anglosassone, e perciò
l’inglese si infiltra ovunque, dagli oggetti di consumo (cash per
contante, badge per tesserino) al parlato corrente (feedback per
opinione, food per cibo, coming out per
confessione) fino al territorio verbalmente più devastato di tutti
dall’anglo-pestilenza, l’aziendalese (briefing,
know how, brand, standing, planning, mission, e ci fermiamo qui, tenendoci
la pancia dal ridere, o dai conati di vomito). Voler interrompere per decreto
una tendenza, deprecabile senz’altro, con l’arma spuntata dell’imposizione ricorda vagamente quei goffi
tentativi di italianizzare i forestierismi da parte del fascismo d’antan, che
prescriveva di tradurre con “bevanda
arlecchina” il cocktail o con “guidoslitta” il bob.
A quei tempi l’invasione straniera della lingua era a malapena agli
inizi, oggi è realtà comune. Ma il Duce e il suo fanatico raddrizzatore di
costumi, il segretario del partito Achille
Starace, prolifico ideatore di trovate come il voi al posto del
lei, “cretino obbediente” scaricato e abbandonato che ebbe però il buongusto di
morire da uomo, senza
tradire all’ultimo secondo, avevano almeno come unico pregio una
certa coerenza: odiavano in
tutto e per tutto, sotto sotto invidiandola, la “perfida Albione”, e sovranamente disprezzavano quei
decadenti di Americani, di cui per la verità avevano un’imprecisa conoscenza.
Ora invece cosa abbiamo? Il partito egemone della destra italiana, Fratelli
d’Italia, che mentre fa partire la crociata
contro gli anglicismi, nel suo programma prevede di chiamare “liceo
del Made in Italy” non si
capisce bene cosa, se l’istituto tecnico agrario, come parrebbe dalle
dichiarazioni di Giorgia Meloni al
Vinitaly (ops), o il liceo delle scienze umane, come da formale proposta di
legge in cui, al posto delle
materie economiche, si legge “Gestione delle imprese del made in
Italy”, “Modelli di business nelle industrie della moda dell’arte e
dell’alimentare”, “made in Italy e mercati internazionali”. La scuola non fa più parte della
pubblica amministrazione? E, soprattutto, non dovrebbe costituire il presidio minimo della lingua madre?
Sì sappiamo perché, nello specifico, l’espressione “Made in Italy” risulta
quasi obbligata: perché suona meglio all’orecchio inglesizzato dei potenziali studenti, e questo
perché suona moderno, attraente, cool (ahia). E perché
l’economia, essendo globale, parla quell’english for dummies a
cui anche un qualunque
ignorantissimo capo di associazione di categoria ricorre,
sguazzandoci perché non sa più parlare in italiano. Ma in questa sussiegosa
serietà di chi sa sta stare al mondo, di chi la sa lunga, di chi giustifica
tutto e il suo contrario perché così è e così va, almeno lasciateci sghignazzare. Rampelli sostiene
che altro non ha fatto, lui, che imitare le nazioni europee di più solida
tradizione patriottica, come Francia
e Spagna che hanno leggi simili, e che quindi ci sia poco da
ridicolizzare. Ma non risulta che poi quei nazionalistoni di francesi e
spagnoli siano così appecoronati
ad americani e inglesi in tutto il resto, come sono i difensori
della Patria nostrani. Dalla guerra in Ucraina giù fino agli inconcepibili
licei “Made in France” o “Made in Spain”. Anzi, se c’è qualcosa che dovremmo
imparare dai fratelli francesi o spagnoli, che ci siano antipatici o simpatici,
è la loro capacità di dire no quando
c’è da dire no alla prepotenza della premiata coppia anglo-americana. Abbiamo
detto capacità, non skill. Era
meglio Starace.
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