Un mondo in cui banca vuol dire finanza e la finanza si muove secondo principi che non hanno nulla di etico
“Cultura
aziendale e disonestà nell’industria bancaria” è uno studio apparso una diecina
di anni fa sul prestigioso settimanale “Nature”, redatto da tre economisti
dell’Istituto di economia politica dell’Università di Zurigo, istituto, quindi,
“liberalmente” e “nazionalmente” sacro (v. Business culture and dishonesty in
the banking industry, di Alain Cohn, Ernst Fehr, André Maréchal, Nature, 19
novembre 2014). (Ricordo di averne subito parlato, provocando qualche malumore
negli ambienti bancari, nella rubrica economica della Rete Due “Plusvalore”,
creata dal perspicace non economista, ma studioso di etica, Enrico Morresi,
rubrica da poco misteriosamente scomparsa).
L’eticità incorporata
Lo studio
aveva suscitato poco e indispettito interesse nel settore chiamato in causa e
aveva avuto qualche rilievo sfuggevole sulla stampa che conta; nessuno invece
tra i politici e men che meno nelle istituzioni federali, quelle preposte alla
cosiddetta “sorveglianza”. Eppure meritava grande attenzione. Che appare ancora
maggiore e più significativa oggi con quel che è capitato e sta capitando.
Fosse solo
per un’affermazione da cui prendeva le mosse: l’onestà è a lungo andare una
componente essenziale della «performance» di ogni azienda, industria o paese.
Osava insomma coniugare onestà con la mitica “performance” bancaria (o
efficienza elvetica). Oppure per una constatazione irrefutabile: troppo
numerosi sono stati gli scandali fraudolenti nel mondo bancario-finanziario;
quindi, diamoci una mossa “etica”. (Forse si può supporre che le banche si
facessero un baffo di quello studio perché ognuna si era ormai premurata di
darsi un proprio…codice etico, per buona immagine o ritenendo di darsi una
sorta di eticità incorporata, così come la pistola incorporata al cowboy
diventa legge e giustizia).
Quelle maglie allargate
Prescindiamo
dal metodo di quello studio. Stiamo alla sostanza. Rileviamone tre
considerazioni:
1) nel mondo nella finanza le maglie dell’etica si sono molto allargate,
lasciando sempre più campo a comportamenti disonesti;
2) non si tratta solo di riaffermare delle regole di comportamento, bisogna
riorientare alcuni attuali incentivi legati solo alla performance e al profitto
verso fattori immateriali, come appunto l’onestà;
3) si dovrebbe instaurare nel mondo bancario un impegno etico, una sorta di
giuramento di Ippocrate, come avviene per i medici.
Se dite, in
sostanza, che nel settore bancario i comportamenti disonesti sono alle volte
tollerati; che le regole interne servono a poco, sovrastate o annientate, come
si è visto più volte, dalla logica perversa della performance e della
competitività e della ricerca, alle volte troppo avida, del maggior profitto o
del miglior bonus; che il comportamento etico non è per niente incorporato
nella banca, non può neppure essere un optional da tirar fuori quando fa
comodo, ma esige un giudice esterno; se dite tutto questo è ovvio che banche o
Associazione dei banchieri, degli impiegati di banca, degli economisti ben
strutturati nel sistema, reagiscono, protestano, ridicolizzano o sostengono che
«lo studio riflette un tipo di cultura bancaria anglosassone» che non è quella
svizzera, come si osò dire. Non era molto chiaro, a meno che per chiaro si
intendano le penalità che ancora si stanno pagando o si mettono in bilancio per
far fronte alla… cultura bancaria americana.
La cultura della banca e l’”agire morale”
Rimaneva
comunque sempre la domanda fondamentale: si può introdurre l’etica in una
riforma del sistema bancario resasi necessaria? Si era tentato di dare una
risposta parziale dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 e dei vari
scandali bancari precedenti e seguenti proponendo una separazione netta tra
l’attività di credito (quella utile all’economia reale) e quella di
speculazione, lasciando ovviamente l’etica solo alla prima. Era però implicita
l’ammissione che pretendere di risolvere i problemi della finanza con una
regolamentazione, con lo scopo di eliminare le attività moralmente
inaccettabili, era opera inaffrontabile, inafferrabile. Com’è stato. Com’è
successo. Come succederà.
Quando però
gli studiosi di Zurigo parlavano di «cultura della banca» e gli stessi
banchieri rispondevano che ce n’era già una illustre e gloriosa “svizzera” (da
qui anche Credit Suisse), forse ammettevano implicitamente che moralizzare
delle attività significa soprattutto strutturare le istituzioni che le svolgono
creando perlomeno un ambiente favorevole all’ «agire morale».
Che è quanto è stato catastroficamente annientato a partire dagli anni Ottanta
facendo dell’etica un’etichetta: per la performance, per la competitività, per
l’accumulazione, per il bilancio che se cede appena di un punto da un anno
all’altro è la tempesta azionaria, è la ricerca di nuovi strabilianti Ceo o
amministratori o futuri padroni fuori Svizzera, è la imperativa necessaria
ennesima ristrutturazione con la sequela di licenziamenti, poiché i colpevoli e
i perdenti sono sempre e solo loro, i subalterni.
Ed è quanto
si elude se ad ogni malefatta eviti di operare “strutturalmente” e intervieni
solo con un coperchio miliardario a coprire tutto, fra le pretese e le proteste
degli azionisti sino allora plaudenti, mentre sono costretti a inghiottire e
ruminare come democrazia comanda tutti gli altri, cittadini e contribuenti.
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