sabato 29 aprile 2023

Banche, etica ed etichetta - Silvano Toppi

 

Un mondo in cui banca vuol dire finanza e la finanza si muove secondo principi che non hanno nulla di etico

 

“Cultura aziendale e disonestà nell’industria bancaria” è uno studio apparso una diecina di anni fa sul prestigioso settimanale “Nature”, redatto da tre economisti dell’Istituto di economia politica dell’Università di Zurigo, istituto, quindi, “liberalmente” e “nazionalmente” sacro (v. Business culture and dishonesty in the banking industry, di Alain Cohn, Ernst Fehr, André Maréchal, Nature, 19 novembre 2014). (Ricordo di averne subito parlato, provocando qualche malumore negli ambienti bancari, nella rubrica economica della Rete Due “Plusvalore”, creata dal perspicace non economista, ma studioso di etica, Enrico Morresi, rubrica da poco misteriosamente scomparsa).

L’eticità incorporata

Lo studio aveva suscitato poco e indispettito interesse nel settore chiamato in causa e aveva avuto qualche rilievo sfuggevole sulla stampa che conta; nessuno invece tra i politici e men che meno nelle istituzioni federali, quelle preposte alla cosiddetta “sorveglianza”. Eppure meritava grande attenzione. Che appare ancora maggiore e più significativa oggi con quel che è capitato e sta capitando.

Fosse solo per un’affermazione da cui prendeva le mosse: l’onestà è a lungo andare una componente essenziale della «performance» di ogni azienda, industria o paese. Osava insomma coniugare onestà con la mitica “performance” bancaria (o efficienza elvetica). Oppure per una constatazione irrefutabile: troppo numerosi sono stati gli scandali fraudolenti nel mondo bancario-finanziario; quindi, diamoci una mossa “etica”. (Forse si può supporre che le banche si facessero un baffo di quello studio perché ognuna si era ormai premurata di darsi un proprio…codice etico, per buona immagine o ritenendo di darsi una sorta di eticità incorporata, così come la pistola incorporata al cowboy diventa legge e giustizia).

Quelle maglie allargate

Prescindiamo dal metodo di quello studio. Stiamo alla sostanza. Rileviamone tre considerazioni:
1) nel mondo nella finanza le maglie dell’etica si sono molto allargate, lasciando sempre più campo a comportamenti disonesti;
2) non si tratta solo di riaffermare delle regole di comportamento, bisogna riorientare alcuni attuali incentivi legati solo alla performance e al profitto verso fattori immateriali, come appunto l’onestà;
3) si dovrebbe instaurare nel mondo bancario un impegno etico, una sorta di giuramento di Ippocrate, come avviene per i medici.

Se dite, in sostanza, che nel settore bancario i comportamenti disonesti sono alle volte tollerati; che le regole interne servono a poco, sovrastate o annientate, come si è visto più volte, dalla logica perversa della performance e della competitività e della ricerca, alle volte troppo avida, del maggior profitto o del miglior bonus; che il comportamento etico non è per niente incorporato nella banca, non può neppure essere un optional da tirar fuori quando fa comodo, ma esige un giudice esterno; se dite tutto questo è ovvio che banche o Associazione dei banchieri, degli impiegati di banca, degli economisti ben strutturati nel sistema, reagiscono, protestano, ridicolizzano o sostengono che «lo studio riflette un tipo di cultura bancaria anglosassone» che non è quella svizzera, come si osò dire. Non era molto chiaro, a meno che per chiaro si intendano le penalità che ancora si stanno pagando o si mettono in bilancio per far fronte alla… cultura bancaria americana.

La cultura della banca e l’”agire morale”

Rimaneva comunque sempre la domanda fondamentale: si può introdurre l’etica in una riforma del sistema bancario resasi necessaria? Si era tentato di dare una risposta parziale dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 e dei vari scandali bancari precedenti e seguenti proponendo una separazione netta tra l’attività di credito (quella utile all’economia reale) e quella di speculazione, lasciando ovviamente l’etica solo alla prima. Era però implicita l’ammissione che pretendere di risolvere i problemi della finanza con una regolamentazione, con lo scopo di eliminare le attività moralmente inaccettabili, era opera inaffrontabile, inafferrabile. Com’è stato. Com’è successo. Come succederà.

Quando però gli studiosi di Zurigo parlavano di «cultura della banca» e gli stessi banchieri rispondevano che ce n’era già una illustre e gloriosa “svizzera” (da qui anche Credit Suisse), forse ammettevano implicitamente che moralizzare delle attività significa soprattutto strutturare le istituzioni che le svolgono creando perlomeno un ambiente favorevole all’ «agire morale».
Che è quanto è stato catastroficamente annientato a partire dagli anni Ottanta facendo dell’etica un’etichetta: per la performance, per la competitività, per l’accumulazione, per il bilancio che se cede appena di un punto da un anno all’altro è la tempesta azionaria, è la ricerca di nuovi strabilianti Ceo o amministratori o futuri padroni fuori Svizzera, è la imperativa necessaria ennesima ristrutturazione con la sequela di licenziamenti, poiché i colpevoli e i perdenti sono sempre e solo loro, i subalterni.

Ed è quanto si elude se ad ogni malefatta eviti di operare “strutturalmente” e intervieni solo con un coperchio miliardario a coprire tutto, fra le pretese e le proteste degli azionisti sino allora plaudenti, mentre sono costretti a inghiottire e ruminare come democrazia comanda tutti gli altri, cittadini e contribuenti.

da qui

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